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da stellantis a stallantis

09 marzo, 2011

Death in Venice, Life (?) in Scala



Death in Venice (ieri alla sua positiva seconda, dopo una prima filata via altrettanto liscia, a giudicare dall'ascolto di Radio3) è la quintessenza di un teatro musicale che mai e poi mai avrebbe potuto e potrebbe giustificare l'esistenza dei loggioni (termine da intendersi in senso antropologico e non catastale; tipo le curve degli stadi calcistici, per capirci).

 
Neanche la fantasia più sfrenata potrebbe immaginare il formarsi – sull'oggetto: come interpretare Britten? - di tifoserie e fazioni nemmeno lontanamente parenti di quelle accanite e ringhiose che si sono ancora di recente affrontate sul selciato antistante il Piermarini. Vi immaginate una diatriba tra chi loda la purezza dei declamati dell'Aschenbach di turno (di 16 o 18 o… 34 note senza indicazione di lunghezza) e chi lamenta che il direttore non ha fatto emergere con pienezza estetica la putridità dei canali della Serenissima? Anche il rilievo dato nella circostanza da giornali, siti e blog è quello che, nello sport, si riserva ad un concorso ippico (magari con telecronaca di Alberto Giubilo, riding-cap in testa, ai tempi) o a una partita di polo (smile!) Eppure si tratta di un esordio assoluto dell'opera alla Scala…

 
Dove il pubblico (ieri occupante non più del 75% dei posti disponibili, e ciò vorrà pur dir qualcosa…) ha ascoltato in silenzio, ha applaudito solo dopo che l'addetto alle luci ha aperto l'interruttore generale dell'elettricità del teatro – come si fa altrimenti a sapere se l'atto è finito? – e ha dato mostra di aver gradito lo spettacolo con applausi durati parecchi minuti (anche perché i solisti del coro di Casoni e le altre comparse – decine di persone – si sono presentati alla spicciolata, smile!) Poi se n'è tornato a casa – non pochi anticipando il rientro già all'intervallo, per la verità - come dopo una messa dei morti, felice per aver fatto un fioretto quaresimale e con lo spirito sollevato perché la prossima messa sarà celebrata solo fra un mese o più ancora. Domanda: quanti rinnoverebbero l'abbonamento, se il cartellone prevedesse 10 opere di questo tipo?

 
A questi risultati porta il progresso. Eh sì, perché ascoltando la famigerata Tosca, chiunque non può non ficcarsi in testa almeno i tre volgarissimi accordi che aprono l'opera, e poi ricollegarli al volgarissimo Scarpia, visto che tornano regolarmente ogni volta che lo sbifido siculo aleggia nei paraggi. E pazienza se uno ignora che fra le note estreme dei tre suddetti accordi c'è la distanza del diabolus… Col Britten di Death in Venice la cosa è un pochino più ardua. Perché anche qui c'è – per dire, ed è solo un esempio – un Leit-motiv principale (se così si può chiamare) dell'opera, ma decifrarlo non è propriamente facile, meno ancora riscoprirlo nel seguito, per collegarlo ad eventi, stati d'animo e così via.

 
Compare per la prima volta accompagnando il verso d'esordio del Viaggiatore, che è il primo di sette diversi personaggi interpretati dallo stesso cantante (basso-baritono); personaggi che rappresentano in qualche modo le forze dionisiache che dapprima intaccheranno, quindi mineranno e infine distruggeranno l'apollinea irreprensibilità di Aschenbach. Il viaggiatore misterioso è in realtà un serpente tentatore (nel racconto di Mann, nemmeno parla) che stuzzica la curiosità e poi l'irrefrenabile desiderio dell'attempato scrittore con la promessa di meraviglie svelate (Marvels unfold). Lo canta sulle note RE-DO-MI-RE#:

Il quale Aschenbach, dopo aver cercato di ignorare lo straniero, cade invece preda dell'irresistibile desiderio (sudden desire for the unknown) che vorrebbe tener celato al pubblico (il quale deve ignorare la fonte d'ispirazione dell'Artista!) ma che traspare impietosamente dal suo stesso canto, precisamente mutuato da quello del viaggiatore, RE-DO-MI-RE#:

(Tanto per complicare le cose, il declamato di cui sopra può essere tagliato – Britten consenziente – e tagliato viene in questa produzione). Il tema ha effettivamente un che di arcano, non è per nulla rassicurante. Infatti presto le meraviglie e l'ignoto si manifesteranno per qualcosa di assai poco meraviglioso e di molto tristemente conosciuto: il colera! È la musica – basta cercare con pazienza - a spiegarcelo inequivocabilmente, attraverso la tuba, che espone il tema (RE-DO-MI-MIb) all'inizio del secondo atto, dopo che il barbiere si è lasciato sfuggire la verità; e poco dopo attraverso i corni, che lo innalzano di una terza maggiore (FA#-MI-SOL#-SOL) e subito dopo di una terza minore (FA-MIb-SOL-FA#) sulle domande del perplesso Aschenbach:

Ed ancora riascoltiamo il tema sulle parole che Aschenbach, girovagando per Venezia, legge sul Tagblatt, RE-DO-MI-RE#:

Cases of cholera! E il povero scrittore, che vede l'epidemia come una possibile minaccia alla sua prossimità con l'adolescente Tadzio (o, in alternativa, spera che faccia secchi tutti quanti, tranne se stesso e il suo amore) si vuole auto-convincere del contrario, cantando Ugh! rumors, rumors, rumors… ma proprio sulle note (trasposte) del nostro tema: dapprima LA-SOL-SI-SIb e poi (leggermente variato) DO-SI-RE-REb! La conferma definitiva ci viene dall'accompagnamento dei bassi al preoccupato e preoccupante resoconto sull'epidemia fatto dall'impiegato dell'agenzia di viaggi, ancora RE-DO-MI-RE#:

Ma tutto questo ancora è niente, poiché dovremmo nel frattempo aver scoperto che la malattia vera è quella che si annida nell'Io profondo di Aschenbach, ed è assai più insidiosa (e altrettanto mortale) dell'epidemia. Ecco perché il tema compare subdolamente in altre circostanze, ad esempio verso la fine del primo atto, dopo che lo scrittore ha rinunciato, impotente, ad approcciare Tadzio e riflette sul fatale desiderio: So longing passes back and forth between life and the mind. Con altezze diverse (LA-SOL-SI-LA#) il motivo sottolinea (in corni, arpa e viola) proprio le parole life and mind, la realtà e lo spirito, le due polarità (Dioniso-Apollo) fra cui si dibatte l'Io di Aschenbach. E subito dopo lo udiamo ancora, negli stessi strumenti, ma un semitono sotto, mentre Tadzio passa vicino allo scrittore inebetito e gli sorride (!) spogliandolo definitivamente di tutte le sue apollinee (e ipocrite?) difese e gettandolo in pasto a Dioniso. Il tema torna a farsi sentire, appena variato, all'inizio della seconda parte, nell'accompagnamento del pianoforte, quando il protagonista prende atto e razionalmente/esteticamente cerca di giustificare a se stesso quel suo I love you che nelle ultime battute della prima parte aveva indirizzato a Tadzio. E poi ancora, nelle tube, durante l'onirica orgia dionisiaca; e sempre nelle tube al momento in cui l'efebico polacchino soccombe al rude coetaneo Jaschiu nella zuffa sul bagnasciuga che precede l'epilogo.

 
Di questo passo potremmo anche scoprire che di una certa malattia dell'Artista aveva già trattato qualcuno, in un'opera musicale, addirittura 30 anni prima che Thomas Mann venisse al mondo: mettendo in parole e musica baccanali chèz Venus e severe tenzoni canore in quel di Turingia. E comunque, con tutto ciò avremmo solo esplorato la punta di un iceberg, figuriamoci! Aggiungiamo poi che parecchi interrogativi e lati oscuri dell'opera si possono chiarire solo dopo aver letto la novella di Thomas Mann che ispirò Britten-Piper: ad esempio che i risvolti omosex-pedofili della vicenda - pur tanto cari al compositore (come al sommo Luchino) e impiegati dal marketing teatrale per stuzzicare la curiosità morbosa dello spettatore verso una cronaca di turismo sessuale – sono solo una, e forse nemmeno la più importante, delle componenti del dramma; e che al fondo di Death in Venice - come di Der Tod in Venedig – c'è invece qualche problemino da nulla, filosofico-estetico-esistenziale, vecchio quanto il mondo.

 
Considerazioni per nulla nuove, queste, e presentate in modo assai più dotto e strutturato sul programma di sala, che però uno si dovrebbe studiare per bene prima di andare a teatro, invece di scorrerlo in fretta nei 5 minuti che precedono il via, o nei 10 di intervallo.

 
A proposito di programmi di sala, quello distribuito nell'occasione è al 70% scopiazzato – per gentile concessione - da quello che nel 2008 venne meritoriamente prodotto – ed è disponibile in web - dalla Fenice di Venezia. Incluso il libretto con la traduzione di Renato Pontiggia, ma senza la preziosa esegesi di Daniele Carnini (a pag.41 del citato programma) che qui viene indicato, come revisore del testo, con il nome di Davide Carnivi (ma è solo un imperdonabile errore di stompa, o c'è dietro qualcos'altro?)

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La produzione viene da Londra (E.N.O.) dove nel 2007 ottenne un successo (non incontrastato peraltro) di critica. L'allestimento di Deborah Warner prevede scene minimaliste, ma proprio per questo assai adatte a gestire i frenetici andirivieni Lido-Venezia; ci sono abili giochi di luci per trasmettere sensazioni ed emozioni; efficaci i movimenti delle masse e dei singoli; encomiabili i danzatori della scuola dell'Accademia scaligera e su tutti il Tadzio di Alberto Terribile. Personalmente mi sento invece di censurare l'eccessiva caricaturizzazione di Aschenbach, presentato fin dall'inizio non solo come un individuo in preda a dubbi di natura intellettuale e a vaghe inquietudini da crisi di ispirazione artistica, ma anche come un personaggio in uno stato di permanente crisi epilettica, sempre sospettoso, scontroso e in guerra con tutti e tutto. Insomma, viene così a mancare quel drammatico crescendo che caratterizza il percorso dello scrittore verso l'abisso.

 
John Graham-Hall (a parte la citata e discutibile caratterizzazione attoriale) ha mostrato di padroneggiare assai bene il ruolo sul lato vocale: efficace espressione e chiarezza e profondità del suono. All'opposto (mi è parso) Peter Coleman-Wright, eccellente nel proporre i sette ruoli – e diversissimi – in cui è impegnato; ma un po' meno sul piano vocale, dove ha faticato a penetrare gli ampi spazi del Piermarini. Meglio di lui l'Apollo di Iestyn Davies. Fra gli altri interpreti minori citerei Jonathan Gunthorpe, l'efficace impiegato dell'agenzia di viaggi e Anna Dennis, la venditrice di frutta. Da elogiare incondizionatamente il coro di Casoni, che qui è chiamato, oltre che a cantare, anche a dare corpo e volto alla varia umanità che circola in albergo e in città.

 
Edward Gardner deve essere uno che sa come gestire un'orchestra, a giudicare dagli applausi arrivatigli dal teatro, ma più ancora dalla buca!
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2 commenti:

mozart2006 ha detto...

Di Britten amo molto il Grimes, The Turn of Screw, Billy Budd e The Rape of Lucretia. Questa invece, a mio avviso, si merita il giudizio dato da Fantozzi a proposito della Corazzata Potemkin...ahahahaha
Ciao.

daland ha detto...

@mozart2006
vuoi dire che c'è troppa filosofia e troppo poca pedofilia?
smile!