intime gioje

chiuder la prigione e buttar la chiave

10 maggio, 2011

Gianandrea Noseda: profeta in patria?



Ieri sera al Piermarini concerto della Filarmonica della Scala (in veste di associazione autonoma e quindi ospite – pagante, per i costi della tecnica – del Teatro).

Il mio concittadino Gianandrea Noseda prosegue la sua marcia di avvicinamento a Wagner, evviva e auguri! Nella prima parte del concerto ha affrontato due fra le pagine sinfoniche più impegnative di Meistersinger e Götterdämmerung, intercalate da due monumentali monologhi di Sachs e Wotan, protagonista Matthias Goerne, che sta anche lui muovendosi a piccoli passi verso Wagner.

Si apre con il Preludio dei Meistersinger, pagina tanto nota quanto difficile (o facile a deturparsi…) dove gli ottoni, in particolare, sono chiamati a suonare con nobiltà e seriosità, ma senza scivolare nel volgare, nell'enfasi gratuita, o nel becero fracasso: impresa dura per una sezione che purtroppo si è fatta la non invidiabile reputazione di tallone d'Achille dell'orchestra. Che sia stato merito di Noseda non saprei dire (sarebbe bello per lui…) ma il risultato non ha per nulla fatto gridare vendetta: certo, orchestre che suonano l'opera per intiero un mese sì e l'altro pure forse fanno di meglio, ma dobbiamo accontentarci. (Però vien da chiedersi: ma c'è almeno uno, dico uno, dei tanti repertori o delle tante singole opere, in cui la Scala sia al top?)  

Il monologo di Hans Sachs, che chiude la terza scena del second'atto (Was dufted doch der Flieder), ha il suo culmine nello struggente ricordo del canto di Walther, che Sachs intuisce essere qualcosa che sgorga da sé, per dono di natura, proprio come accade all'uccellino che, senza studiare le regole della Tabulatur, sa cantare perché – di natura, appunto – lo deve

Lenzes Gebot,
die süße Not,
die legt' es ihm in die Brust:
nun sang er, wie er musst';
und wie er musst', so konnt' er's, -

(Un comando di primavera, un dolce affanno, glie lo ha posto nel petto: egli ha cantato come doveva; e come doveva, così potè... traduzione del sommo Manacorda).


L'accordo che sorregge la prima sillaba di quel sü-ße rivaleggia in tutto e per tutto con quello del Tristan, quanto a capacità sbudellanti:

Goerne (lo sentivo per la prima volta in Wagner) mi ha fatto una buona impressione: voce scura, proprio di basso-baritono, buon portamento, ci sono insomma gli ingredienti per farne un possibile buon ciabattino luterano (che poi sarebbe… Wagner medesimo, parliamoci chiaro).

La Siegfrieds Trauermarsch del Crepuscolo è – parole di Wagner, riportate da Cosima nel suo diario del 28 settembre 1871 – un coro, ma un coro cantato dall'orchestra. Un coro senza parole, come giustamente commentò quell'impenitente wagneriano che fu Teodoro Celli. Suonata ed ascoltata fuori dal suo naturale contesto è una pagina di grande musica, di fronte alla quale restare sempre ammirati, almeno se eseguita dignitosamente, come ieri. Ma chi ha in testa il Ring non può non rimanerne anche emozionato, poiché lì vi è distillata, come in un alambicco, tutta la straordinaria vicenda, umana ed eroica, di Siegfried. Cioè una buona parte di quell'universo che Wagner ha messo in musica nella sua divina commedia.   

L'Addio di Wotan è un altro test attitudinale per un basso-baritono che aspiri ad entrare nella cerchia degli interpreti wagneriani; ed è perciò del tutto logico che Goerne, oggi 44enne, ci si cominci ad avventurare. Con risultati, mi è parso, abbastanza incoraggianti, che testimoniano quanto meno del possesso di requisiti naturali minimi (per il ruolo) e della sensibilità richiesta all'interprete di pagine di grandezza stratosferica come questa. Orchestra abbastanza pulita (anche negli ottoni, tubette comprese) ed abbastanza efficace, pure se – giocoforza – le arpe sono solo due e non sei e l'ottavino è singolo, per cui l'incantesimo del fuoco si riduce a focherello, ma va bene così.

In estrema sintesi, mi pare che sia Noseda che Goerne abbiano superato positivamente questo piccolo esamino di pre-ingresso nel mondo del Wagner importante. Forza dunque, li aspettiamo a prove più toste! In particolare il Direttore, firmando autografi dopo il concerto, a una domanda su cosa ci dobbiamo aspettare in campo wagneriano, ha risposto sorridendo con un ottimistico: Vedremo, vedremo!

Dopo l'insalatona wagneriana, si passa al più sereno e meno impegnativo Dvorak dell'Ottava sinfonia. Una specie di pastorale del boemo, reduce dalla sua tragica (la settima).

Il primo movimento ha una specie di motto, che torna all'inizio delle diverse sezioni (e poi sarà la cellula generatrice del tema del finale) esposto inizialmente dal primo flauto, e che ricorda un canto d'uccello:


Nell'Adagio, che principia in DO minore, è sempre il flauto ad esporre – virando al DO maggiore - il delicato tema principale:



Segue poi l'Allegretto grazioso, in 3/8, che occupa il posto di uno scherzo. Bellissima la melodia del Trio, tipicamente boema, e sempre affidata al flauto:



Melodia che nello sviluppo viene contrappuntata da trombe e timpani con incisi giambici sul secondo tempo, che danno sempre l'impressione che gli strumentisti sbaglino le entrate (se suonano come si deve!)

Il finale Allegro ma non troppo è un tema con variazioni, caratterizzato da motivi rigorosamente di 8 battute, ripetuti due volte. Il principale – che mostra chiaramente il suo DNA - lo espongono inizialmente i violoncelli:



Noseda in questa sinfonia (parlo dei movimenti esterni) concede forse troppo all'enfasi e alla platealità, ma tutto sommato stiamo parlando di Dvorak (con tutto il rispetto) e non – che so – del suo mentore Brahms, quindi non c'è da scandalizzarsi più di tanto. Grande feeling con l'orchestra, si direbbe, a giudicare dai reciproci e ripetuti complimenti. 

Successo caloroso, in un teatro per la verità afflitto da parecchi vuoti.
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