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consulta e zecche rosse

07 ottobre, 2019

Pescatori a Torino


Una nuova produzione del Regio di Torino (che ultimamente ha rinnovato tutto il vertice, dal Sovrintendente al Maestro del Coro) Les Pêcheurs de perles, ha visto ieri pomeriggio andare in scena la seconda recita.

Allestimento interamente nelle mani della coppia Julien Lubek / Cécile Roussat che propongono programmaticamente una lettura (detto senza offesa) da teatro-dei-piccoli, proprio innocente e scevra da ogni possibile dietrologia che da sempre è nata attorno al soggetto. Allestimento al risparmio (almeno spero!): scena praticamente fissa e spoglia (basse scogliere marine) arricchita (si fa per dire) da qualche quinta di palma e da un tronetto di Brahma-tricefalo nel terzo atto. Colori che più sgargiante non si può, inclusi quelle delle luci, e costumi più o meno improbabili. I cori sono sempre ben piantati sul posto, così da garantire ai coristi il massimo confort per il canto; movimenti dei protagonisti sempre misurati e un po’ anche impacciati. Qualche modesta coreografia, a supporto dei passaggi strumentali e corali. Appropriata, perchè in funzione didascalica, la sporadica presenza di una controfigura di Leïla. Insomma, nessun velleitarismo, ma allo stesso tempo nulla che distragga lo spettatore dal godersi questa musica che va giù proprio come un rosolio.

Qui alcune note sull’opera, che ho proposto anni fa. La versione qui presentata è sedicentemente quella originale (1863) come pazientemente ricostruita negli ultimi anni, dopo che per un secolo e più, dalla fine dell’800, erano circolate in tutto il modo versioni spurie, nate addirittura in Italia e poi codificate in Francia (Benjamin Godard). In particolare, il finale non è quello davvero stravolto da tante produzioni creative. Però, tanto per mettere un granello nell’ingranaggio, ecco che il libretto, pubblicato nel programma di sala, presenta ancora per il duetto Zurga-Nadir del primo atto la versione spuria (che riprende Oui, c’est elle! C’est la déesse) al posto dell’originale (Amitiè sainte) che per nostra fortuna è però regolarmente cantato... E a proposito di canto, come già per la prima del 3, Zurga non è interpretato dal titolare Capitanucci, ancora indisposto, ma dal sostituto Pierre Doyen, che vien dal Belgio.
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Sul podio il 37enne americano Ryan McAdams, al quale potrei rimproverare qualche eccessiva dose di zucchero in alcuni passaggi strumentali, che già ne sono abbastanza ricchi di loro, ma in generale la sua concertazione mi è parsa più che efficace e la risposta dell’Orchestra del tutto soddisfacente. 

Benissimo anche il coro di Andrea Secchi, che nell’opera rappresenta il quinto protagonista, tale è la sua presenza in scena.

E fra i protagonisti chi mi è piaciuto di più è la... riserva: Pierre Doyen ha una voce corposa che, fosse anche un filino più morbida, ne farebbe un baritono con i fiocchi. In ogni caso la sua è stata una prestazione fra il discreto e il buono, con punta di diamante l’aria dell’accorata invocazione a Nadir, nel terz’atto.

Hasmik Torosyan è stata una Leïla più che dignitosa: una non eccelsa immedesimazione nel personaggio e qualche vetrosità sugli acuti in mezzo-forte, oltre ad una potenza di voce non straordinaria le impediscono di guadagnarsi, sul mio personalissimo cartellino (copyright Rino Tommasi) più di un 7, ecco. Apprezzabili i suoi delicati vocalizzi sulla barcarola del coro in chiusura del primo atto.

Il francesino Kévin Amiel è stato un Nadir così-così (a lui qualcuno ha indirizzato un paio di ululati...): la parte è difficile, se non proprio proibitiva, e certi ricordi che tornano all’orecchio (Kraus, per citarne uno...) fanno da termine di paragone piuttosto duro. Ma lui è giovane e non può che migliorarsi.

Buono anche lo standard di Ugo Guagliardo nei panni di Nourabad, parte sostenuta con sufficiente autorevolezza e buon portamento.  
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Ecco, una produzione senza grandissimi nomi e senza sfoggio (e dispendio!) di potenti mezzi, che ha però pienamente soddisfatto un pubblico assai folto, che ha tributato lunghi e convinti applausi a tutti: quale differenza rispetto ai modesti applausi di cortesia che un Piermarini semideserto ha riservato sabato sera alla prima di Quartett. L’impietoso confronto la dice più lunga di tanti paludati studi di sociologia della musica!

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