Dopo l'esordio a Torino, dove ha aperto il MITO-2011 (con presenza di Radio3) il mio illustre concittadino Gianandrea Noseda da Sesto (San Giovanni) si è spostato armi e… musicanti in Adriatico per replicarvi l'esecuzione di quella gigantesca quanto nobile mappazza che risponde al nome di Sinfonia dei Mille.
L'eventuale riferimento ai 150 anni dalla nascita del BelPaese è nella fattispecie del tutto fallace, datosi che quei mille nulla hanno di garibaldino, né di italico (questa l'ha raccontata anche Bossini alla radio…) Essendo il prodotto più genuino e d.o.c. della cultura musicale mitteleuropea dell'ottocento-novecento, qui da noi piuttosto snobbata, ai tempi, se non proprio irrisa. Poi, come spesso accade, si assiste al fenomeno opposto, quello della renaissance, che spesso ha presupposti extra-artistici e aspetti più vicini alla moda che al gusto estetico. Ma tutto fa brodo, e che Mahler oggi si esegua (o registri) con grande frequenza è di sicuro un bene; caso mai sta a ciascuno di noi decidere in quali dosi fruirne, onde evitare possibili intossicazioni.
L'Ottava è uno dei tanti esempi di rimescolamento – per gli scettici: di imbastardimento - delle forme musicali operato da Mahler, costantemente alla ricerca di strumenti nuovi con i quali dare espressione alla sua estetica e alla sua personale visione del mondo. Sinfonia? Messa? Oratorio? Cantata? Fantasia corale? Poema sinfonico con voci? Nulla di tutto ciò, ma allo stesso tempo un po' tutto di ciò. E il nostro aveva cominciato così - quando ancora non aveva vent'anni - con il velleitario Das klagende Lied (non per nulla bocciato senza pietà da tale Brahms): poi, a più di 25 anni di distanza e all'apice del successo, cuocerà insieme Hrabanus Maurus e Goethe in un brodo di MI bemolle di ordinanza, per propinarci questo suo sesquipedale minestrone monumento.
Nel quale si ritrovano reminiscenze del passato (motivi, incisi, a volte sfumature, già uditi in una qualche precedente sinfonia o lied) e novità che ricompariranno in seguito. (In fondo, non si dice forse che la musica di Mahler è sempre uguale a se stessa?)
Il Veni creator in effetti è (quasi) una messa, dove i cori la fanno da padroni, mentre ai solisti sono riservate parti poco… solistiche, anche se estremamente impegnative. Presenta già dei temi che – variati, invertiti, trasposti – ricompaiono poi nella seconda parte, a sua volta poggiante su alcuni motivi che vengono impiegati in scenari diversi e con varianti diverse.
Ad esempio, quello esposto da flauti e clarinetti alla battuta 4 diviene la base per diversi interventi dei soli e del coro:
O ancora, il motivo che udiamo cantato prima dal Pater Profundus e quindi dal Doctor Marianus – dopo essere stato introdotto dagli ottoni isolati al termine della prima parte - altro non è che l'anticipazione del dolcissimo tema che accompagna l'apparizione della Mater Gloriosa:
E, proprio come nel dramma wagneriano, questa caratteristica scala ascendente ritorna ad ogni pie' sospinto, e significativamente a supportare il conclusivo zieht uns hinan.
Ma l'Ottava (in specie la seconda parte) è costruita – in contrasto con i canoni sinfonici, che prevedono l'esposizione di pochi temi, ben delineati – come un meccano, a partire da alcuni frammenti di base, di volta in volta montati in configurazioni diverse. O, per usare un termine della forma-sonata, è come un solo, lungo e gigantesco sviluppo.
La seconda sezione pone in musica - escludendo il solo intervento del Pater seraphicus - gran parte del Bergschluchten (l'ultima scena del Faust II, atto V). Alla fine del quale, dal goethiano Ewig-Weibliche (l'eterno femminino) Mahler estrapola, per reiterarlo più e più volte, quell'Ewig che qui ha il sapore dell'eternità (cristiana?) oltre che quello dell'ottimismo, vissuto dal compositore nel momento di piena realizzazione dei suoi obiettivi (e sogni) esistenziali ed artistici. Pochi mesi dopo il completamento dell'Ottava arriveranno però impietosi i tre colpi di martello con cui Mahler - nella sua pretenziosa quanto discussa sesta - aveva simbolizzato il destino che abbatte l'uomo. Ecco così che un altro Ewig tornerà a farsi ripetutamente udire – gänzlich ersterbend - come ultima parola, significante serena e laica (meglio: confuciana) rassegnazione, a chiudere l'ultimo canto musicato dal piccolo-grande boemo.
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Ai quasi 1500 spettatori che assiepano la vasta platea del Palacongressi (quello vecchio… ancora) si presenta un impressionante colpo d'occhio sull'ipertrofico complesso degli interpreti: non 1000 - come effettivamente furono alla prima di Monaco, 101 anni orsono, il prossimo lunedì - ma quasi 400, come ci ha precisato una delle voci fiorentine dei cori. Gli strumentisti devono essere in numero adeguato a fronteggiare le masse corali (due cori misti del Regio e del Maggio e due cori di voci bianche, del Regio e del Conservatorio di Torino) e ciò giustifica l'impiego cooperativo di due orchestre (RAI e Regio). Mahler qui non si serve dei suoi cari campanacci da mucca (che pure sarebbero in sintonia con lo scenario materiale, quantomeno nella parte goethiana) forse ritenendo la cosa irrispettosa dello scenario spirituale… e quindi, per evocare le atmosfere rarefatte, si accontenta (si fa per dire) delle sonorità di pianoforte, celesta, arpe, mandolini e glockenspiel…
Il pacchetto di ottoni che suonano isolati a chiusura dei due tempi della sinfonia si posiziona, al momento opportuno, sul fondo della sala, proprio nel corridoio di ingresso, mentre la Mater Gloriosa, che verso la fine dovrebbe far udire la sua voce aus höhern Sphären, entra a fianco del secondo coro.
Rispetto alla formazione annunciata da tempo ci sono due sostituzioni: Erika Sunnegårdh al posto di Violeta Urmana (Soprano I e Magna Peccatrix) e Bernarda Bobro al posto di Julia Kleiter (Soprano, Mater Gloriosa). Gli altri sei solisti sono Elena Pankratova (Soprano II e Una Poenitentum), Yvonne Naef (Contralto I e Mulier Samaritana), Maria Radner (Contralto II e Maria Aegyptiaca), Stephen Gould (Tenore, Doctor Marianus), Detlef Roth (Baritono, Pater Estaticus) e Christof Fischesser (Basso, Pater Profundus). Solisti disposti davanti al coro, a sinistra del podio e dietro violini, arpe, piano e celesta: il che richiede a loro grande sforzo per passare, e al Direttore grande cura nel non coprirli.
Garibaldi non c'entrerà, ma Noseda tira in ballo i bersaglieri per l'attacco del Veni Creator: una cosa travolgente, e del resto in linea con le indicazioni agogiche di Mahler (Allegro impetuoso)!
Emozionante poi l'attacco dell'Accende lumen, dove il direttore crea il silenzio fra Ac… e …cende, forse andando al di là delle stesse indicazioni di Mahler, che prescrive – con il segno dell'apostrofo - una evidente (entschiedene) pausa di respiro.
La direzione di Noseda (che ha momentaneamente abbandonato la bacchetta, dall'inizio del Faust e fino alla seconda entrata dei cori, dirigendo con… le dita, alla maniera del suo vecchio maestro Gergiev) non sarà magari stata memorabile, per via di una certa meccanicità e asciuttezza nell'esposizione (mi viene in mente il motivo dell'apparizione della Mater Gloriosa, messo in scarso rilievo) magari spiegabile col desiderio di evitare eccessi enfatici e retorici; ma in complesso il mio concittadino va elogiato non fosse altro che per aver saputo tenere insieme con grande autorità quel po' po' di esercito di musicanti.
Elena Pankratova mi è parsa la migliore dei solisti: voce potente, intonatissima e di grande espressività. Erika Sunnegårdh ha una voce meno penetrante (non è la Urmana!) ma in complesso non ha demeritato. Entrambe sono chiamate ad alcuni DO acuti, che hanno sfoderato con sicurezza.
Yvonne Naef e Maria Radner hanno mostrato belle voci (più chiara la prima, più brunita la seconda) e sostenuto dignitosamente i rispettivi ruoli. Bernarda Bobro deve cantare pochi versi e ciò ha fatto con diligenza.
Stephen Gould ha una voce dal timbro profondo (più da baritono o addirittura da basso che da tenore) per me poco adatta al ruolo di Doctor Marianus; in più fatica tremendamente sugli acuti (già dal SOL): l'unico SI naturale cui è chiamato (peraltro opzionalmente) lo ha dovuto emettere… impiccandosi.
Buono Detlef Roth, che ha esposto con grande sicurezza il suo Ewiger Wonnebrand e discreto Christof Fischesser, eremita… mangiapesci (smile!)
Grande la prestazione dei cori di Claudio Fenoglio e Piero Monti, così come quella dei professori: a dimostrazione che in Italia esistono risorse di livello assoluto, che meritano di essere valorizzate e sostenute. Questo e non altro hanno detto gli applausi che per lunghissimi minuti il pubblico ha tributato loro, dopo lo schianto del MIb conclusivo.
PS: il dolore per la morte di Licitra ha trovato spazio anche qui.
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4 commenti:
Carissimo, ero davvero curiosa di leggere la tua recensione che come sempre è minuziosa e curata e ti ringrazio per la citazione.
Condivido con te lo scarso entusiasmo nei confronti di questa opera colossale e portandoti la mia esperienza di esecutrice devo confessarti che l'impeto di Noseda a mio avviso era forse eccessivo.
Non c'erano respiri e alcune frasi, a mio gusto, forse sarebbero state più godibili con una velocità meno concitata.
Comunque l'esecuzione di Torino è stata di gran lunga migliore di quella di Rimini, vuoi per la cattiva disposizione degli artisti del coro a molti dei quali era impedita la vista del maestro sul podio e che ha potato a diversi cedimenti ritmici, vuoi per l'acustica più secca.
E' sempre un piacere leggerti, grazie!
Mi unisco ai plausi per la meticolosa recensione.
Gould è uno di quei cantanti che ha dissipato una dote naturale rilevante. Alcuni anni fa proprio qui a Trieste fu un ragguardevole Lohengrin.
Ciao daland!
@Marisa
Voi non vedevate il direttore, ma una di voi si vedeva dalla spiaggia… per via dei capelli color ciclamino (smile!) A parte gli scherzi, le strutture tipo palasport non sono l’ideale per la musica sinfonica, né per le opere, ma dobbiamo accontentarci così.
Ancora complimenti a tutti per averci emozionato!
@Amfortas
Gould deve avere le pile scariche… a Torino il SI del “gebietest” lo aveva addirittura falsettato.
Grazie a entrambi!
Gould durante le prove lo ha sempre cantato in voce stringendolo fino a diventare paonazzo, era chiaro che non poteva reggere a lungo.
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