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22 settembre, 2011

Ulisse torna in patria… alla Scala


Pre-scriptum…

Ieri mattina, 21 settembre, un gruppetto di persone staziona davanti al negozio della Scala, lo chic-coso Scala-shop. Sono le 10:30, orario di apertura giornaliera. Saracinesca desolatamente abbassata. Alla buonora delle 10:43 la saracinesca si alza e, un paio di minuti dopo, arriva un'impiegata ad aprire il portoncino di cristallo. Tre delle 6-7 persone in attesa sono abbonati alla stagione operistica e sono lì per ritirare il programma di sala, consegnando l'apposito tagliando ricevuto con l'abbonamento. L'impiegata – unica, sempre quella che ha aperto – cerca di qua, cerca di là, poi fa una telefonata ed infine comunica che lo Scala-shop non dispone momentaneamente di alcuna copia del programma, che potrà essere ritirato prima della rappresentazione serale.

Ecco, sono particolari minuscoli ed irrilevanti come questo che mostrano all'esterno l'immagine di una istituzione decaduta.
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Alle 20 seconda recita del monteverdiano (fino a prova contraria…) Il ritorno d'Ulisse in patria.

Un paio di consigli: tanto per cominciare, non chiedete a tale Fantozzi cosa pensi di quest'opera (smile!) E poi, prima di eventualmente entrare al Piermarini, fate diligentemente qualche compitino a casa (arrangiatevi, visto che non potete contare sul programma di sala, smile2!) Viceversa il latte rischierebbe di cadervi dalle ginocchia alle caviglie (ari-smile!) e vi trovereste costretti ad attendere l'intervallo prima di potervela squagliare, come ha regolarmente fatto il 20% dei presenti ieri sera.

A parte le facili battute di bassissima lega (nel senso bossiano) si tratta di un (capo)lavoro che difficilmente ti prende così, d'acchito, come – che so – La traviata o L'elisir d'amore. Tale e tanta è la distanza fra la nostra (in)sensibilità teatral-musicale e quella dei nostri antenati di quasi 4 secoli orsono. E pensare che c'è chi sostiene che La traviata altro non sia se non una delle nefaste conseguenze dell'imbastardimento della nostra sensibilità musicale, rispetto a quei tempi. Altri, giudicando a partire dal livello di discesa - lungo le gambe - del succitato latte, stabiliscono arditi paralleli fra Monteverdi e Wagner, nientemeno!

Eppure qualcosa di sensato ci deve pur essere in queste dicerie, se è vero, come è vero, che le opere di Monteverdi, di Cavalli, di Caccini e compagni ebbero - ai loro tempi - dei successi di pubblico addirittura superiori (misurando in termini relativi) a quelli di Verdi e Wagner, più di due secoli dopo.

Ancora oggi persistono incertezze sulla paternità dell'opera, di cui esiste il libretto di Giacomo Badoaro (in 5 atti) e una copia apocrifa della partitura (in realtà una specie di spartito per canto e accompagnamento, più qualche intermezzo – sinfonia – con pochi righi strumentali) scoperta a Vienna nell'800, con suddivisione in 3 atti e fatta stampare per la prima volta da Haas nel 1922. Una puntuale ricostruzione dell'intricato scenario in cui si dibatte quest'opera si può trovare qui.

A chi prova (Scala-shop permettendo) a fare qualche compitino a casa prima di entrare in teatro, si presenta subito un grosso interrogativo: quanti e quali tagli – rispetto al libretto e allo spartito viennese – vengono praticati in questa edizione scaligera? Sì, perché l'opera eseguita in-toto (e con i ritornelli o ripetizioni previste) dovrebbe durare più o meno 3 ore e 50 minuti (prendo ad esempio l'incisione curata da Sergio Vartolo) mentre il sito del teatro ci informa che lo spettacolo (intervallo compreso, quindi) durerà 3 ore e 10 minuti. Ma in teatro un cartello avverte che la durata totale sarà di 2 ore e 55 minuti, con un intervallo di 30! Quindi, al netto, 2 ore e 25 minuti, ben 85 minuti meno dell'originale (pari al 37%!) Forse la cosa è stata fatta per limitare la discesa del latte… (e ri-smile!) ma con scarso successo, a giudicare dalle defezioni dopo la pausa.

L'intera opera comprende un prologo e 36 scene, di cui due e parte di un'altra non presenti nello spartito viennese e un'altra ancora (con Mercurio) di cui nel libretto è prescritta l'omissione (La si lascia fuori per essere malinconica, sic!) Oltre al prologo, nella versione in 5 atti abbiamo: Atto I con 9 scene, Atto II con 7, Atto III con 7, Atto IV con 3 e Atto V con 10. In quella in 3 atti le stesse scene sono accorpate così: 13 / 13 / 10, quindi fra le due versioni c'è allineamento solo all'ultimo atto (10 scene) mentre i precedenti (4 e 2 rispettivamente) sono disallineati.

E qui, sul famigerato programma di sala abbiamo il festival dell'approssimazione e delle incongruenze. Perché ovunque (locandina, titoli del libretto, sinossi, presentazioni varie) si parla di versione in un prologo e tre atti, ma la rappresentazione è in due parti; come strutturate? Guarda caso secondo la versione in 5 atti! Con l'intervallo posto precisamente fra il 2° e il 3° atto di tale versione, quindi dopo 16 scene (il che, diciamolo francamente e rendiamone merito ad Alessandrini, è la cosa più sensata da fare). Quanto ai tagli, parecchi paiono guidati da un'estrazione a sorte dei versi e delle battute musicali da sacrificare… ma per fortuna i più corposi (ed anche l'anticipo della scena di Melanto e Penelope) sono volti a stringere l'azione drammatica, eliminando divagazioni e pleonasmi. La realizzazione dell'accompagnamento (non si può certo parlare di orchestrazione, e chi la pretendesse non avrebbe capito nulla dell'opera) è dello stesso Alessandrini, e direi che sia fatta con criteri, approccio e misura del tutto consoni al soggetto da rappresentare.

In buca abbiamo 18 strumentisti, dotati di strumenti d'epoca e diretti da un Alessandrini che alterna frequenti interventi sulla tastiera del clavicembalo che gli sta davanti. Nella buca si sistemano anche i 4 interpreti del Prologo e infine i due cori (in cielo e marittimo) che accolgono con gioia la decisione degli dèi di far felice Ulisse.

La regìa di Wilson è di quelle tipiche di… Wilson (!) che si adegua in tutto e magari fin troppo alla ieraticità ed alla lentezza del recitar cantando: scene spoglie, interpreti col volto imbiancato, costumi che forse vogliono imitare quelli del 1640 e soprattutto movimenti lentissimi, proprio al rallentatore (le uniche intemperanze sono relegate al personaggio di Iro).

Tutta la compagnia di canto va apprezzata per l'abnegazione (credo sia la qualità principale richiesta in questi casi) ma anche per la buona qualità del canto recitato. E così alla fine lo scarso ma stoico pubblico rimasto gli tributa applausi e anche parecchi bravo!

Ecco, in circostanze come questa non si può non rimpiangere l'ingloriosa fine fatta fare alla vecchia, cara, Piccola Scala, che era ambiente ideale per questo tipo di rappresentazioni, prova ne sia che là vi furono tenute 9 delle 12 precedenti (fra il '43 e il '78). E il solo fatto che si tenessero nel teatrino di via Filodrammatici bastava a qualificarle e a tener lontani gli… impreparati!
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