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12 settembre, 2011

Una grande “Verdi” con Britten alla Scala


Ieri sera la Scala ha ospitato (come accade ormai da diversi anni) il concerto inaugurale della stagione 2011-12 dell'Orchestra Verdi.

La data ricordava una tragedia, le cui conseguenze ancora si possono vedere in quel di Manhattan. E in memoria di un'altra tragedia Benjamin Britten compose il War Requiem (completato nella sua Aldeburgh il 20 dicembre 1961) che fu eseguito per la prima volta in occasione dell'inaugurazione (30 maggio, 1962) della ricostruita cattedrale di SanMichele a Coventry. La cattedrale era stata rasa al suolo nel 1940 - con tutto il resto della città - dalle bombe della Luftwaffe, in conseguenza del raid aereo che i nazisti (con raffinata quanto blasfema ispirazione) avevano soprannominato Mondschein-Sonate. Più tardi, nel 1945, Dresda subì la medesima sorte - con vittime moltiplicate almeno per 50 - in virtù della regola di retaliation (leggi: taglione) che governa i rapporti umani in simili disgraziate circostanze.

Quel giorno di quasi 50 anni orsono furono significativamente un inglese (il compagno di Britten, Peter Pears) ed un tedesco (Dietrich Fischer-Dieskau) a cantare i versi del poeta-soldato Wilfred Owen, caduto nel 1918 sul fronte occidentale. Versi ispirati dagli orrori di un'altra guerra, la cosiddetta Grande (ma fu un record battuto assai presto) e che Britten ha intercalato a quelli latini nel suo Requiem. Requiem a sua volta dedicato, dall'autore che fu pacifista convinto ed obiettore di coscienza, a quattro amici marinai (tre britannici e un neo-zelandese) morti o dispersi durante (o poco dopo) il secondo conflitto mondiale.
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L'opera è chiaramente ispirata dalla spazialità del luogo cui fu dedicata: due orchestre (e solisti + coro) che (prevalentemente) si alternano nell'esposizione del Requiem cristiano e dei versi di Owen; più un coro di ragazzi accompagnato dal solo organo. I versi latini della Missa pro defunctis sono esposti dal soprano e dal coro misto con l'orchestra sinfonica e dal coro di ragazzi con l'organo. Quelli di Owen – in lingua inglese – sono cantati da un tenore e da un baritono, accompagnati da un'orchestra da camera di 12 elementi. I versi latini e quelli di Owen creano uno stridente contrasto fra la cristiana speranza, che i primi lasciano sempre intravedere, anche nel cupo Dies Irae, e il disperato pessimismo, cui sono improntati i secondi.

Britten, strenuo assertore del diatonismo, ne impiega uno dei simboli – il diabolico intervallo di tritono – come ingrediente di base del suo Requiem. Tradizionalmente è l'intervallo (proibito dai classici poiché dissonante e di impervia intonazione) con cui sono stati rappresentati musicalmente: l'orrore, il terrore, l'illegalità, l'immoralità, l'abiezione, il disprezzo delle regole, ed ogni altra immaginabile nefandezza. Insomma, tutti gli ingredienti che si cumulano nel termine guerra.

È il coro, insieme alle campane, ad esporlo subito, all'inizio del Requiem aeternam (N°1) in diverse forme: dapprima con il FA# seguito dal DO in voci diverse, poi con l'intervallo esposto dalle 4 voci del coro a canone (Et lux perpetua DO-FA#, luceat eis FA#-DO) e quindi con i due suoni sovrapposti:
Il coro di ragazzi sembra gettare un po' di luce sullo scenario (Te decet hymnus) ma la chiusa, che si sovrappone al ritorno del Requiem, ripropone il famigerato tritono, che poi torna a farla da padrone fino all'ingresso del tenore (What passing bells, Quali campane funebri) sui versi di Owen da Anthem for Doomed Youth; un canto agitato, per ricordare chi muore senza nemmeno un requiem.

Il coro chiude questa prima parte con il lento e sostenuto Kyrie, e allo stesso modo concluderà il Dies Irae (Pie Jesu) e l'Opera (Requiescant in pace). E sempre è il tritono (FA#-SI#) a prevalere, cedendo poi solo sull'ultima battuta, che sfocia faticosamente in FA maggiore.

Adesso il coro – che dovrebbe rimanere finora seduto – si alza per attaccare il Dies Irae (N°2) che è suddiviso in 4 sezioni: Dies Irae, Liber scriptum (dove interviene il soprano), Recordare e Dies Irae (Lacrimosa, con nuovo intervento del soprano). Con esse si intercalano 4 poemi di Owen: Voices (Bugles sang, Le trombe cantarono) esposto dal baritono; The next war (Out there, we've walked quite friendly up to Death, Là abbiamo camminato molto ben disposti verso la morte) cantato da tenore e baritono; On Seeing a Piece of our Heavy Artillery Brought into Action (Be slowly lifted up, thou long black arm, Sollevati lentamente, tu lungo braccio nero) esposto dal baritono e infine Futility (Move him into the sun, Spostatelo al sole) cantato dal tenore. La seconda strofa di quest'ultimo brano si intercala con il coro e il soprano che riprendono il Lacrimosa. Chiude il numero il coro con Pie Jesu Domine, dona eis requiem. Amen.

L'Offertorium (N°3) è aperto dal coro di ragazzi, cui subentra quello adulto (sul Sed signifer sanctus Michael) che introduce il lungo Quam olim Abrahae. A questo punto ascoltiamo da baritono e tenore i versi di Owen da The parable of the Old Man and the Young (So Abram rose, così Abramo si alzò). Sono una spietata e straziante versione cruenta e attuale del testo biblico: qui l'Abramo moderno – la follìa della guerra – non accoglie l'invito dell'Angelo a risparmiare il figlio, ma al contrario ammazza il suo Isacco, e con lui one by one, half the seed of Europe, uno per uno, la metà del seme dell'Europa! I ragazzi contrappuntano significativamente questa disperata imprecazione con i versi Hostias et preces tibi Domine laudis offerimus, poi reintroducono il coro che chiude riproponendo il Quam olim Abrahae.

Il Sanctus (N°4) è introdotto dal soprano, accompagnato soltanto dalle percussioni scampaneggianti e dal pianoforte. Sul Dominus Deus Sabaoth spunta ancora il famigerato tritono, che proprio non risparmia nessuno! Poi l'Hosanna è accompagnato da un turbinio di note degli ottoni. Dopo il Benedictus e il ritorno dell'Hosanna in excelsis, ecco il baritono ricacciarci nel più nero pessimismo, intonando i versi di Owen da The End (After the blast of lightning, Dopo l'esplosione dei lampi) che non lasciano proprio alcuna speranza: It is death, È la morte… intonata (indovinate un po') sull'intervallo RE-SOL# dei fagotti.

Ora abbiamo l'Agnus Dei (N°5) che, contrariamente agli altri numeri, è aperto dal tenore, quindi dall'orchestra da camera, quindi da versi di Owen: One ever hangs where shelled roads part, C'è sempre un impiccato là dove le strade bombardate si biforcano, da At a Calvary near the Ancre (il fiume della Piccardia dove ebbe luogo una battaglia nel 1916). Le tre strofe della poesia sono intercalate dal verso latino, mentre il tenore chiude cantando – per la prima e unica volta – anche lui in latino: Dona nobis pacem.

L'ultimo numero è il Libera me (N°6) aperto dal coro e dal soprano, prima del lungo intermezzo da Strange meeting (It seemed that out of battle I escaped, Mi parve di essere sfuggito alla battaglia) in cui tenore e baritono sostengono le parti di due nemici che si sono affrontati sul campo. Let us sleep now (dormiamo, adesso) è la rassegnata conclusione che i due cantano insieme, mentre i cori e il soprano, con il pieno dell'orchestra, contrappuntano con l'ultima strofa dell'inno cristiano.

È il coro solo - con l'intervento di un unico rintocco delle campane (FA#-DO!) – a chiudere con il Requiescant in pace… Amen, che si dissolve definitivamente in FA maggiore:

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laVerdi schierava tutto il suo ragguardevole organico: l'orchestra sinfonica, sotto la guida sapiente di Zhang Xian (Konzertmeister Luca Santaniello); quella da camera, disposta all'estrema destra del podio, condotta da Ruben Jais (primo violino Nicolai von Dellingshausen); il coro misto di Erina Gambarini e il coro di voci bianche (collocato nel Palco Reale!) di Maria Teresa Tramontin.

Il soprano Chiara Angella, il tenore Barry Banks e il baritono Mark Stone (entrambi britannici) completavano la squadra.

Un'esecuzione impeccabile, senza un attimo di perdita di tensione, che il pubblico ha gratificato di un lunghissimo applauso e rumorose acclamazioni, per tutti e per ciascuno degli interpreti. Davvero un'impresa che definire storica non è esagerato.
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Come nobile antipasto della serata avevamo avuto il brahmsiano Schicksalslied, dove Hölderlin ha in certo qual modo anticipato Britten, laddove separa nettamente (nelle prime due strofe) la condizione degli spiriti celesti da quella (terza strofe) degli esseri umani, ai quali ultimi è negata ogni pace, e il cui destino è di cadere, come l'acqua in una forra, di rupe in rupe, verso abissi insondabili. Brahms - lui era un laico sì, ma non certo un nichilista… - ci mette un pizzico di ottimismo, e così, dopo le prime due strofe (celesti, in MIb maggiore) e la terza (umana, in DO minore) chiude tutto con la ripresa della prima strofe, solo strumentale e in DO maggiore (quindi con una concatenazione tonale a dir poco didascalica).

Impeccabile anche qui il coro della Gambarini e proprio… brahmsiana la direzione di Xian.

Giovedi prossimo, dopo un giretto di riscaldamento nella mia Brescia, si ricomincia in Auditorium!
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1 commento:

Moreno ha detto...

È stata proprio una grande serata di musica accompagnata da uno sforzo organizzativo davvero rilevante. Teniamoci stretta “la Verdi”, è una di quelle istituzioni che ci restituiscono un minimo di orgoglio e di speranza per il futuro.