Alexander Romanovsky ha dato il via ieri sera a questa stagione estiva del tutto
particolare per laVerdi. Auditorium di Largo Mahler sottoposto a smagrimento per ottemperare alle
normative anti-Covid19: file di
platea addirittura rimosse e rispettoso distanziamento
fra gli spettatori; un ambiente davvero insolito, che di primo acchito ti dà l’impressione
piuttosto sgradevole di un luogo semideserto...
Ma ecco che, banditi i
discorsi di circostanza (che la Presidente Redaelli
e il DG Jais hanno affidato alle
pagine del programma di sala) la serata ha vissuto subito il suo momento più
emozionante, all’ingresso sul palco dei 36 ragazzi dell’Orchestra: quando, dai rari-nantes sparsi qua e là è partito un
applauso interminabile, direi proprio accorato, come a testimoniare un senso di
liberazione, dopo l’altrettanto interminabile (4 mesi!) attesa di potersi
nuovamente incontrare, attesa che ormai sembrava doversi prolungare
all’infinito.
La prima
giornata della serie - si replica questa sera a Milano e poi domani a Lecco -
poggia interamente sul monumentale Quinto
Concerto. Che oggi ascoltiamo come probabilmente lo
ascoltavano i viennesi più di due secoli fa, quanto meno dal punto di vista
dell’organico strumentale, ridotto a dimensioni... settecentesche.
Suonando
con le spalle rivolte al pubblico (pianoforte disposto ortogonalmente rispetto
al proscenio) l’ormai italiano Romanovski
(36 anni fra poche settimane, ben più della metà trascorsi qui da noi...) ha sciorinato
la sua grande tecnica, ma ha anche dato a questo Beethoven eroico una vena quasi... russa. E non per nulla,
dopo aver ringraziato laVerdi ricordando
che la cultura, e la musica, non sono un
privilegio, ma un bisogno per ciascuno di noi, ha onorato l’Orchestra
dirigendola nel Vocalise di Rachmaninov. Infine si è congedato con il suo amato Scriabin.
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