Dopo Romanovsky ecco un altro Alexander, Lonquich, proseguire la rassegna beethoveniana de laVerdi presentando due
opere e cimentandosi (come già l’ukraino una settimana fa) come
direttore e solista. Proprio come aveva fatto 18 mesi orsono in occasione della
sua precedente apparizione in Auditorium (Schumann e Schubert allora).
Sul
palco, ben distanziati, 38 elementi dell’organico, solo 5 dei quali avevano
suonato mercoledi scorso: in pratica, laVerdi
può vantare due orchestre di calibro settecentesco...
Confesso
di faticare assai ad abituarmi a questo forzato regime di semi-lockdown: gli ampi spazi vuoti determinati dalle inflessibili
regole di distanziamento finiscono quasi per snaturare l’essenza stessa della
fruizione di queste opere d’arte. Le quali si rivolgono sì all’individuo (che
oggi, grazie alla tecnologia, ne può fruire privatamente a suo totale
piacimento) ma come parte di una comunità, il che suppone vicinanza, contatto,
comunione di sensazioni... Evabbè, speriamo che il vaccino-toccasana arrivi
presto!
Lonquich
ci presenta la Seconda del genio di Bonn quasi in punta di piedi: una visione
piuttosto settecentesca, che non fa emergere del tutto i prodromi dell’Eroica, che si nascondono qua e là in
questa partitura per nulla facile (il pubblico che la udì per la prima volta rimase
colpito dalle sue arditezze). In effetti può darsi che il nostro giudizio su
questa sinfonia possa essere influenzato dal fatto che la udiamo sempre suonata
da compagini di 70-80 elementi come minimo e che quindi, ascoltandola oggi da
un ensemble ridotto ci appaia come
una sinfonietta dello Haydn di Esterhaza...
In ogni
caso i fedelissimi dell’Auditorium non hanno fatto mancare convinti applausi.
Non è
previsto in questi concerti un intervallo in piena regola (bar chiuso e
toilette solo su... prenotazione) per cui si ha giusto il tempo di portare il
pianoforte al proscenio: a differenza di Romanovsky e similmente a quanto fatto
l’anno scorso, Lonquich fa sistemare lo strumento nella posizione canonica,
tenendosi vicino la spalla Dellingshausen.
Il quale (a testimonianza della certosina osservanza delle regole anti-virus) avvicinandosi
alla tastiera per suonarvi il LA, prima di ordinare al primo oboe (Emiliano Greci) di fare lo stesso, si
munisce di mascherina d’ordinanza e pure calza la mano destra con un guanto di
cotone!
Il Quarto
concerto è da molti considerato il più difficile dei cinque. Lonquich
approfitta del suo doppio ruolo di solista e Direttore per superare senza
patemi quel minuto o giù di lì che trascorre fra le prime 5 battute, a carico del
solo solista che poi si tace, e la battuta 74, dove il solista torna in campo:
lui può impiegare il tempo (anzichè a domandarsi se abbia attaccato bene o no) alzandosi dallo sgabello e dirigendo
l’orchestra!
Ne esce
un’interpretazione di alto livello: anche qui, pur essendo nel 1806, si sente
ancora l’eredità mozartiana, sulla quale si innestano innovazioni straordinarie
(vedi la conclusione del centrale Andante
con moto, roba espressionista nientemeno). Lonquich resta sempre in punta
di piedi, tiene l’orchestra a briglie strette e impiega sapientemente il rubato: ne esce un risultato allineato,
direi, alle circostanze.
Primo bis con Brahms (Intermezzo Op.118 n°2 in LA) e, dopo applausi ritmati, un
secondo con Mozart (Minuetto K355 in
RE).
Nessun commento:
Posta un commento