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02 maggio, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°32

 

Torna in Auditorium, dopo tre anni e mezzo, Paul Daniel impegnato in un nuovo appuntamento beethoveniano

Con lui il pianista e compositore Orazio Sciortino, impegnato nel Secondo (cioè primo) concerto di Beethoven, quello in SIb maggiore, Op.19. Che ha in comune con quello in DO (Op.15) ascoltato una settimana fa, la chiara ascendenza settecentesca. Anche qui Beethoven mutua da Mozart (oltre che la tonalità dell’ultimo concerto) la tecnica della doppia esposizione (prima la sola orchestra, poi il solista) e dell’impiego non convenzionale dei temi, che il solista non riprende mai pari-pari rispetto all’orchestra (qui ad esempio il primo tema del solista è mutuato da un fugace inciso dell’esposizione orchestrale) oltre a inserire diverse ed anche ardite modulazioni, tipo il passaggio dal FA minore al REb maggiore – inopinata salita DO-REb - per l’esposizione della seconda idea orchestrale. Dopo il sognante Adagio in MIb, chiude il classico Rondò, ancora in SIb, dove – a fronte della struttura assolutamente simmetrica della successione dei tre temi: A-B-A-C-A-B-A – troviamo ancora interessanti innovazioni, come l’ultima comparsa del ritornello principale in un imprevedibile SOL maggiore.

Accompagnato da un’orchestra di organico proprio settecentesco (4 violoncelli, per dire) Sciortino ci regala un’interpretazione di tutto rilievo, nella quale spicca per delicatezza il centrale Adagio. Ai calorosi applausi il ragazzo siracusano risponde riproponendo il bis di Ravel (sua trascrizione) già da lui eseguito proprio un anno fa, dopo il secondo di Liszt.   
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Dopo l’intervallo ecco un po’ di (ehm, beh…) musica contemporanea: di Francesco Filidei viene eseguita per la prima volta in Italia Fiori di fiori, composizione che ebbe la sua prima assoluta poco più di un anno fa a Colonia, la cui Radio (Westdeutscher Rundfunk Köln) aveva commissionato il brano.

Dovrebbe essere il primo di 5 pezzi (gli altri 4 di là da venire) dedicati dall’organista Filidei ad altrettanti organi - dislocati in diverse chiese europee - su cui a suo tempo posò le dita (e i piedi…) Girolamo Frescobaldi: in questo caso è l’organo Biagi di San Giovanni in Laterano. E il titolo del brano non lascia dubbi su quale sia stata l’ispirazione per l’Autore.

In realtà qui si ascolta poca musica (come normalmente intesa) e un sacco di rumore; rumore che in questo caso evoca i rumori che si sprigionano dall’organo quando esso viene impiegato per produrre suoni. Ecco cosa dice di Filidei uno dei suoi maestri, Salvatore Sciarrino: Provate a immaginare una musica cui vengano sottratti i suoni: resta un brulicare, uno scheletro leggero ma ricchissimo di rumori meccanici, di sfioramenti e strisciate delle mani sugli strumenti. Questa è la musica di Francesco Filidei. Sottrarre alla musica i suoni? e questo sarebbe ancora musica? A proposito di… The rest is noise!

In sostanza, in Fiori di fiori Filidei vorrebbe trasmetterci le sensazioni che si hanno (diciamo: che lui prova) sedendo alla consolle di un organo (per suonarvi magari la Messa della Beata Vergine) dove – prima ancora del suono che esce dalle canne - si odono i rumori dei tasti toccati o della pedaliera pestata, dei registri innestati o disinnestati, dei mantici che spingono l’aria a scorrere nelle canne, e così via. Per fare ciò Filidei impiega un’orchestra sinfonica (dove gli archi, per dire, usano l’archetto come produttore di fruscio per agitazione nell’aria) e una bizzarra batteria di percussioni, fra cui una pompa di bicicletta, richiami per uccelli e fischietti vari. (Nel suo Macchina per scoppiare i pagliacci impiega anche: clacson, lingua di suocera (!?) cuscino e pure una centrifuga da insalata, con o senza l’insalata, chissa? smile!) Ecco, anche al buon Filidei si può applicare la massima che Frescobaldi scrisse in calce al ricercare della citata messa:

Intendomi chi può che m’intend’io.

Ahimè, che devo dire: che io non intendo proprio… Per carità, nessuno (e certo nemmeno io) mette in dubbio che Filidei faccia sul serio e non si diverta a prendere tutti per il… sedere, anzi: che dietro queste produzioni ci sia fatica, scienza, studio e fantasia non si discute. Che sia arte si potrà anche (non facilmente, peraltro) sostenerlo. Ma la domanda è: ammesso che sia arte, che c’azzecca con l’arte della musica, se vi mancano i suoni e restano - salvo un breve squarcio in fin dei conti neanche disprezzabile - solo i rumori? Fino a prova contraria chi va in una sala da concerto si aspetta di ascoltare musica, non rumore (di cui c’è già un gigantesco eccesso nella vita quotidiana): insomma, bisognerebbe tenere ben distinte pere da mele, biciclette da astronavi, come del resto si fa anche nelle discipline sportive (cosa diremmo se in un torneo di calcio ci si infilasse una partita di rugby?)

Naturalmente gli applausi non sono mancati (oggi si fischia caso mai Kaufmann…): per direttore, suonatori e anche per l’autore, presente in sala. Ecco, anche il fioretto del 1° maggio è fatto.
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Chiude la serata la Quinta di Beethoven, che non ha bisogno di presentazioni, né deve essere scoperta dall’Orchestra, che l’ha eseguita innumerevoli volte. Come sempre accade quando si ascolta qualcosa di arci-noto, il pericolo è di rilassarsi e perdere concentrazione, col risultato di apprezzare poco l’esecuzione. O anche, per il Direttore che sa di dirigere un pezzo inflazionato, il rischio è di voler a tutti i costi farsi notare, magari prendendo iniziative… eterodosse.

Mi è parso che Paul Daniel non sia caduto in questa sindrome del differenziarsi, e che la sua direzione sia stata assai sobria, privilegiando la razionalità sull’emotività. Bravissimi i ragazzi e meritato trionfo finale, in un Auditorium ancora una volta piacevolmente affollato, a dispetto di feste e ponti.

3 commenti:

Unknown ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Unknown ha detto...

Sono stata presente alla serata del 2 maggio. Bravissimo Sciortino, e anche Daniel: un'interpretazione e un'esecuzione davvero splendide.

Quinta di Beethoven: mah, a me è sembrato che avessero dato un'aggiustatina al metronomo, l'ho trovata un po' accelerata e meno appassionata come invece dovrebbe essere, a mio parere.

Filidei: ah, meno male che qualcuno ha il coaggio di dire che questa non è musica ma rumore. Venerdì sera mi sono sentita circondata da entusiasti sostenitori che mi accusavano di bigottismo e ignoranza. Secondo me il brano è bellissimo da vedere, assolutamente non da sentire. Trovo che tutta questa musica sia in primo luogo noiosa: un lungo battere della macchina da scrivere, estrai il foglio dal tamburo eh.... trovi solo parole senza sensa, ammassate qua e là.

daland ha detto...

@Paola
Intanto grazie per la visita!
Ho trovato anch'io parecchie persone entusiaste del pezzo di Filidei, e mi fa piacere per loro, hanno tutto il diritto di esserlo (poi, se lo sono soltanto per mostrarsi à-la-page... fatti loro).
Sui contenuti non sono così pessimista: per restare al tuo esempio del foglio e della macchina da scrivere, qui è come se Filidei ci voglia far sentire tutto ciò che esce dalla macchina pigiandovi i tasti… senza che ci sia necessariamente un foglio infilato nel rullo! Sì, perché il rumore dei tasti cambia poco o nulla se sono pigiati da Petrarca e nel rullo c’è un foglio su cui esce una poesia del Canzoniere, oppure se i tasti li pigio io per scrivere una scemenza sul mio blog… Però dev’esser chiaro che il contenuto dell’opera è “il rumore della macchina da scrivere”, e non lo scritto che (non) ne esce: e quindi non stiamo parlando di poesia, ma di “rumori dello scrivere a macchina”, genere di arte del tutto diverso, per quanto se ne possa rimanere estasiati.
In sostanza, io dissento da questa compromissione – all’interno di un programma di musica classica - fra generi tanto diversi (fra musica e non-musica, in questo caso) che considero eccessiva (come considererei fuori luogo che la Scala ospitasse, fra un atto d'opera e l'altro, qualche pur bella canzone del festival di Sanremo, per dire). Non vorrei essere accusato di “razzismo musicale” o di voler “ghettizzare” queste libere manifestazioni dell’artista, ma insomma preferirei che opere come questa di Filidei fossero programmate all’interno di eventi a loro specificamente dedicati (come in effetti già avviene del resto) in modo da lasciare ciascuno libero di accedervi o meno a seconda della propria attitudine e dei propri gusti.
Ciao!