Jader Bignamini anticipa di
un paio di settimane il suo ritorno sul podio del laVerdi, prendendo il posto che il programma originario della
stagione assegnava ad Oleg Caetani.
In programma due pezzi forti del repertorio tradizionale, che si trovano anche agli
estremi opposti del secolo XIX, essendo stati rispettivamente composti nel 1800
e nel 1899.
Il Terzo
Concerto per pianoforte rappresenta un autentico punto di svolta
nell’ambito della produzione concertistica di Beethoven, così come, un paio d’anni più tardi, sarà per l’Eroica in campo sinfonico. Dopo i due
concerti di rodaggio che guardano chiaramente ai modelli mozart-haydniani, qui
comincia a farsi sentire il Beethoven impegnato,
quello per cui la musica è una cosa maledettamente seria. La forma ancora è la stessa delle prime
esperienze (lunga esposizione orchestrale prima dell’entrata del solista,
modulazioni ardite) ma è il contenuto
che davvero fa cambiar musica!
Il non ancora
trentenne torinese Gabriele Carcano
ce ne dà una vibrante esecuzione, palesando, oltre ad una tecnica impeccabile –
condizione necessaria ma non sufficiente a fare un grande interprete – anche
una notevole sensibilità, emersa specialmente nel centrale Largo, ma anche nella difficile cadenza del primo movimento. Meritato
successo per lui, che regala anche un bis
(Schumann?)
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Bignamini, che l’ha
evidentemente mandata a memoria, ha infine diretto in modo per me encomiabile la
Quarta
di Mahler, una sinfonia che tende
mille tranelli al direttore, dato il suo carattere ambiguo e indecifrabile. Jader
si è tenuto sul sicuro, rispettando meticolosamente anche le indicazioni più
sottili della partitura; il che dimostra che – dirigendo Mahler in particolare
- il modo migliore per cogliere lo spirito
dell’opera è quello di rispettarne scrupolosamente la lettera. E i ragazzi lo hanno assecondato in modo egregio, in tutte
le sezioni, fiati ovviamente in testa, ma anche l’arpa e gli archi.
All’interno di
un’esecuzione che definirei, nel complesso, memorabile sono poi da incorniciare
alcuni particolari passaggi: come l’intervento del corno all’inizio dello sviluppo, e la transizione fra sviluppo e ricapitolazione del primo movimento; o le impertinenti irruzioni
del clarinetto nel trio e lo
splendido assolo del corno a dialogare con gli archi alla ripresa dello scherzo, nel secondo movimento; o
l’incantevole attacco del terzo movimento di viole e celli e quello dolente
dell’oboe all’inizio della seconda sezione, seguito dalla straziante citazione dall’Aida (che entrerà nei Kindertotenlieder) di flauti e
clarinetti e poi ancora il corno a chiudere prima dell’Allegretto grazioso.
A cantare l’irriverente
filastrocca conclusiva è arrivata Karina
Gauvin, che avevamo ascoltato qui poco più di un anno fa nel Gloria di Poulenc. La cicciottella canadese per portarsi al proscenio si è
fatta largo fra i leggii dei violini approfittando del fracasso della coda del Ruhevoll. Poi per la verità non ha
brillato molto, mangiandosi buona parte delle sillabe e mostrando la corda
nella cosiddetta ottava bassa:
insomma, una prestazione francamente deboluccia, che ha contrastato assai con
quella eccellente di strumentisti e direttore.
Ma il trionfo
non è comunque mancato, in un Auditorium per la verità non propriamente
stracolmo.
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