Sì sì, questo è un altro equivoco (come il famoso ah l’amor, l’amor è un dardo): lo so che
il fatale non è DonCarlo (come però ho creduto per anni e anni… smile!) ma il fascino della Eboli che – secondo
lei, modestia suprema! – la costringe a compiere azioni sconvenienti e
sconsiderate. Poi, dopo il suo pentimento, canta a proposito del Don (questo
sì, il Carlo!): Sia benedetto
il ciel!... Lo salverò!... Però tutto quello che sa fare per salvarlo, nel
finale dell’atto III (che spesso è pure tagliato!) è gridargli Va’! fuggi! quando la folla inferocita
reclama la testa dell’amato (?! potenza dei libretti d’opera…)
Ieri sera
alla Scala – con molti… buchi, andati aumentando
di numero ad ogni intervallo, lungo o breve che fosse - seconda recita del Don Carlo nella ripresa dell’edizione 2008-9, quella che fu precisamente
fatale all’incolpevole Filianoti e
che passò alla storia non certo per la qualità dello spettacolo – che fu passabile,
ma nulla più - ma soprattutto per le contestazioni alla prima ambrogina a Daniele Gatti…
Del quale Gatti il concertatore Fabio Luisi ha evitato gli arbitrari ripescaggi di brani che Verdi
aveva autorevolmente escluso dall’edizione da lui personalmente ed
espressamente curata e pubblicata in occasione dell’esecuzione dell’opera alla Scala
(10 gennaio 1884): edizione impiegata per le recite di questa stagione.
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A proposito di versioni
dell’opera, ne riporto qui l’elenco sintetico ma sufficientemente esaustivo
pubblicato (a cura di Enrico M. Ferrando, sulla base dell’edizione critica
integrale di Ricordi) sul programma di sala del Regio di Torino, in occasione
della produzione dell’opera nella stagione 12-13:
1a)
Versione completa, utilizzata per le prime prove del lavoro (include 8 brani,
poi eliminati per contenere la durata dell’esecuzione nei limiti rigidamente
stabiliti dalle convenzioni dell’Opéra,
e manca del balletto, terminato nel febbraio 1867).
1b)
Versione
della prova generale (comprende ancora tre degli otto brani eliminati alla
prima, e include il balletto, completato nel febbraio 1867).
1c)
Versione della prima esecuzione (11 marzo 1867).
1d)
Versione della seconda esecuzione (13 marzo 1867): in questa versione l’atto IV
è abbreviato e termina con la morte di Rodrigo.
1e)
Versione in italiano (San Carlo, Napoli, 1872): include varianti al duetto
Filippo-Rodrigo (due terzi del quale furono composti ex-novo su un nuovo libretto) e al duetto finale Carlo-Elisabetta.
2)
Versione in quattro atti, in italiano (Milano, 1882-1883). È un radicale
rimaneggiamento che elimina più di metà della musica originaria (tutto l’atto
I, duetti Carlo-Rodrigo e Filippo-Rodrigo nell’atto II, scena iniziale e
balletto nell’atto III, scena Filippo-Elisabetta nell’atto IV, finale dell’atto
IV, finale dell’atto V), sostituendola con sette nuovi brani e ricollocando la
romanza “Io la vidi” (che Carlo canta nell’atto I della versione parigina) nel
Preludio, introduzione e scena del frate (n.1) del nuovo atto I.
3) Versione
in cinque atti in italiano (1886). Rispetto alla precedente reintegra l’atto I
originale (la romanza di Carlo è ovviamente ricollocata nell’atto I, e viene
quindi ripristinato l’inizio dell’atto II).
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Sulla pertinenza, plausibilità,
arbitrarietà, abuso… riguardo i contenuti di un’opera come questa da mettere in
scena si potrebbe discutere all’infinito. Alla fine però ci si riduce
immancabilmente al quesito: vogliamo rispettare le volontà dell’Autore, così
come materializzatesi in suoi atti espliciti, o invece ci prendiamo il diritto
di costruire noi lo spettacolo, impiegando di volta in volta i pezzi del meccano che più ci piacciono
(o che possono fare più cassetta)?
Nel caso del Don, pochi dubbi esistono
che le uniche due versioni che Verdi licenziò espressamente dopo averne
meticolosamente curato la preparazione siano: a) quella della prima di Parigi (1867, in francese e poi
in traduzione italiana) e b) quella della Scala del 1884.
Purtroppo però non ci si ferma qui,
poiché anche grandi direttori (vedi Abbado o Pappano, o il Gatti di qualche
anno fa) si inventano la loro personale versione del Don, scegliendone una come
base e poi infilandoci o togliendoci altri pezzi a loro piacimento. Prendiamo
ad esempio il duetto Filippo-Carlo dell’Atto III (che Gatti riscoprì nel 2008): che sia grande
musica non si può negare, e Verdi medesimo lo impiegò nel suo Requiem come Lacrymosa; che però il Maestro lo abbia cassato in via definitiva
dal Don lo dimostra proprio la versione preparata (con mesi e mesi di lavoro!)
per il nuovo allestimento della Scala del 1884 (nel 1868 e 1878 vi si era
rappresentata la versione in 5 atti in italiano, ma non senza modifiche). Dove
le ragioni del taglio legate alla lunghezza dell’opera (e agli orari dei treni
di Parigi…) non reggevano più, visto che la versione in 4 atti recupera una
buona mezz’ora rispetto a quella originale del 1867! Invece no, nessuna
riapertura: evidentemente il Maestro aveva concluso da tempo – almeno dal 1874,
anno di composizione del Requiem e dell’impiego di quel brano del Don come
Lacrymosa - che la drammaturgia della
scena, e quindi il suo valore estetico ed artistico venivano seriamente
compromessi da quel siparietto in cui tutto un mondo in fermento si deve
fermare in surplace per ascoltare
l’epinicio che Filippo e Carlo cantano al povero Rodrigo.
Insomma, personalmente mi
sento di dire bravo a Luisi anche solo per non aver voluto
fare il diverso… In realtà la sua
prestazione di ieri ha avuto, per me, altrettante ombre che luci: poiché alla
generale correttezza dello stacco dei tempi ha fatto da contraltare una
tendenza ad eccessivo fracasso (penso in particolare all’Atto II, ma non solo)
con conseguente copertura delle voci. Certo, anche per colpa delle voci, come
dirò. Ma il concertatore dovrebbe venire in soccorso, invece di… seppellire.
Orchestra meglio del solito e Coro di Casoni sui suoi standard.
Mattatore della serata René Pape, che a distanza di 4 anni è stato ancora un Filippo autorevole,
commovente e – per giunta – non acconciato come un vecchio rimbambito (a
dispetto del suo crin bianco, non
dimentichiamo che il RE storico aveva da poco passato i 30!) Non vorrei
sbagliare, ma mi pare che nell’aria-madre dell’Atto III non abbia preso bene il
suo primo amor… In ogni caso, una
prestazione notevole per emissione e sensibilità interpretativa. Per lui
trionfo indiscusso.
Con lui abbastanza bene l’altro basso, Štefan Kocán, nei panni del tremendo
Inquisitore: cui ha conferito anche quel che di protervo che ben si addice al
personaggio. Certo, quando in altre repliche dovrà indossare i panni del Re,
sarà bene che trovi il registro appropriato.
Fabio Sartori è
un Infante passabile: la voce è un pochino… sporca, squilla poco, anche se ha
una potenza tale da sovrastare persino gli eccessi rumoristici di Luisi! Certo,
la sua presenza scenica non è proprio delle più accattivanti, e non solo per la
circonferenza… pavarottiana del suo adipe (smile!)
Rodrigo è Massimo Cavalletti, che mi ha favorevolmente impressionato: voce ben impostata e passante, portamento efficace; mi sembra
che il 35enne lucchese (ascoltato qui come Ford nel Falstaff di inizio anno)
stia continuamente migliorando.
Le due protagoniste
femminili hanno funzionato a corrente alternata. Nel senso che le loro voci si
sentono quando devono trovarsi nella cosiddetta ottava alta; in quella bassa
faticano a farsi udire (e Luisi purtroppo nulla ha fatto per farcele udire).
Meglio la Martina Serafin (Elisabetta)
che almeno gli acuti li emette con proprietà… mentre Ekaterina Gubanova (Eboli) tende a
spararli al limite dello schiamazzo.
Efficace Fernando
Rado nella parte non proprio secondaria né banale del Frate. Su standard da minimo sindacale Barbara Lavarian (il Paggio,
en-travesti) e Il Conte di Lerma di Carlos Cardoso.
Efficace la prestazione
dei sei Deputati fiamminghi: Ernesto Panariello, Simon Lim, Davide Pelissero, Filippo Polinelli,
Federico Sacchi e Luciano Montanaro.
Carlo Bosi e Roberta
Salvati (che evidentemente ier sera cantava dal suo camerino…) completano
il cast.
Alla fine applausi per tutti e per ciascuno, con
punte per Pape e Luisi.
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La regìa di Stéphane Braunschweig è rimasta su per
giù quella che era. Ho notato che adesso è meno invasiva la presenza dei due bambinelli
a far da controfigura a Carlo&Elisabetta. In particolare ad Atocha, dove il
piccolo è relegato in fondo-scena e legato ad un patibolo, anziché sostituirsi (come
5 anni fa) a Posa per la consegna della spada di Carlo al Re.
Un allestimento che
non ha fatto e non farà storia, nel bene e nel male. Dove il bene consiste
principalmente nel non fare danni
all’originale; e di questi tempi, in cui assistiamo a travisamenti e
adulterazioni di ogni sorta, è già qualcosa.
In conclusione, un ritorno
accettabile: di questi tempi c’è di che accontentarsi.
2 commenti:
Ciao! Credo che l'equivoco del Don fatale appartenga a gran parte degli appassionati e in questo caso non è neanche così ingiustificato, dai!
Parlando d'altro, ma sempre in tema Scala, sembra che Chailly sarà il prossiomo direttore più o meno stabile. Devo ancora pensare se sono contento oppure no, ma è comunque una scelta - a mio parere - da rispettare.
Ciao!
@Amfortas
Chailly, il nuovo che avanza!
(Un po' come se il PD ripescasse Weltroni...)
A parte le battute, se ci si dedicasse anima e corpo, potrebbe almeno ridare una personalità al lato musicale del teatro. Ma se si fa vedere come Barenboim (perchè ha Lipsia e mille altri impegni, e magari solo nel sinfonico) allora sarà altro tempo perso e tempi grami per tutti.
Come per le manovre di Letta, qui ci vorrebbe uno choc e non un tirare a campare: non dico Bignamini (!) ma gente come Mariotti o Ticciati, ecco...
Ciao!
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