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17 ottobre, 2013

Torna alla Scala il Don fatale

 

Sì sì, questo è un altro equivoco (come il famoso ah l’amor, l’amor è un dardo): lo so che il fatale non è DonCarlo (come però ho creduto per anni e anni… smile!) ma il fascino della Eboli che – secondo lei, modestia suprema! – la costringe a compiere azioni sconvenienti e sconsiderate. Poi, dopo il suo pentimento, canta a proposito del Don (questo sì, il Carlo!): Sia benedetto il ciel!... Lo salverò!... Però tutto quello che sa fare per salvarlo, nel finale dell’atto III (che spesso è pure tagliato!) è gridargli Va’! fuggi! quando la folla inferocita reclama la testa dell’amato (?! potenza dei libretti d’opera…)

 

Ieri sera alla Scala – con  molti… buchi, andati aumentando di numero ad ogni intervallo, lungo o breve che fosse - seconda recita del Don Carlo nella ripresa dell’edizione 2008-9, quella che fu precisamente fatale all’incolpevole Filianoti e che passò alla storia non certo per la qualità dello spettacolo – che fu passabile, ma nulla più - ma soprattutto per le contestazioni alla prima ambrogina a Daniele Gatti…

 

Del quale Gatti il concertatore Fabio Luisi ha evitato gli arbitrari ripescaggi di brani che Verdi aveva autorevolmente escluso dall’edizione da lui personalmente ed espressamente curata e pubblicata in occasione dell’esecuzione dell’opera alla Scala (10 gennaio 1884): edizione impiegata per le recite di questa stagione.

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A proposito di versioni dell’opera, ne riporto qui l’elenco sintetico ma sufficientemente esaustivo pubblicato (a cura di Enrico M. Ferrando, sulla base dell’edizione critica integrale di Ricordi) sul programma di sala del Regio di Torino, in occasione della produzione dell’opera nella stagione 12-13:

1a) Versione completa, utilizzata per le prime prove del lavoro (include 8 brani, poi eliminati per contenere la durata dell’esecuzione nei limiti rigidamente stabiliti dalle convenzioni dell’Opéra, e manca del balletto, terminato nel febbraio 1867).
1b) Versione della prova generale (comprende ancora tre degli otto brani eliminati alla prima, e include il balletto, completato nel febbraio 1867).
1c) Versione della prima esecuzione (11 marzo 1867).
1d) Versione della seconda esecuzione (13 marzo 1867): in questa versione l’atto IV è abbreviato e termina con la morte di Rodrigo.
1e) Versione in italiano (San Carlo, Napoli, 1872): include varianti al duetto Filippo-Rodrigo (due terzi del quale furono composti ex-novo su un nuovo libretto) e al duetto finale Carlo-Elisabetta.

2) Versione in quattro atti, in italiano (Milano, 1882-1883). È un radicale rimaneggiamento che elimina più di metà della musica originaria (tutto l’atto I, duetti Carlo-Rodrigo e Filippo-Rodrigo nell’atto II, scena iniziale e balletto nell’atto III, scena Filippo-Elisabetta nell’atto IV, finale dell’atto IV, finale dell’atto V), sostituendola con sette nuovi brani e ricollocando la romanza “Io la vidi” (che Carlo canta nell’atto I della versione parigina) nel Preludio, introduzione e scena del frate (n.1) del nuovo atto I.

3) Versione in cinque atti in italiano (1886). Rispetto alla precedente reintegra l’atto I originale (la romanza di Carlo è ovviamente ricollocata nell’atto I, e viene quindi ripristinato l’inizio dell’atto II).
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Sulla pertinenza, plausibilità, arbitrarietà, abuso… riguardo i contenuti di un’opera come questa da mettere in scena si potrebbe discutere all’infinito. Alla fine però ci si riduce immancabilmente al quesito: vogliamo rispettare le volontà dell’Autore, così come materializzatesi in suoi atti espliciti, o invece ci prendiamo il diritto di costruire noi lo spettacolo, impiegando di volta in volta i pezzi del meccano che più ci piacciono (o che possono fare più cassetta)?

Nel caso del Don, pochi dubbi esistono che le uniche due versioni che Verdi licenziò espressamente dopo averne meticolosamente curato la preparazione siano: a) quella della prima di Parigi (1867, in francese e poi in traduzione italiana) e b) quella della Scala del 1884.

Purtroppo però non ci si ferma qui, poiché anche grandi direttori (vedi Abbado o Pappano, o il Gatti di qualche anno fa) si inventano la loro personale versione del Don, scegliendone una come base e poi infilandoci o togliendoci altri pezzi a loro piacimento. Prendiamo ad esempio il duetto Filippo-Carlo dell’Atto III (che Gatti riscoprì nel 2008): che sia grande musica non si può negare, e Verdi medesimo lo impiegò nel suo Requiem come Lacrymosa; che però il Maestro lo abbia cassato in via definitiva dal Don lo dimostra proprio la versione preparata (con mesi e mesi di lavoro!) per il nuovo allestimento della Scala del 1884 (nel 1868 e 1878 vi si era rappresentata la versione in 5 atti in italiano, ma non senza modifiche). Dove le ragioni del taglio legate alla lunghezza dell’opera (e agli orari dei treni di Parigi…) non reggevano più, visto che la versione in 4 atti recupera una buona mezz’ora rispetto a quella originale del 1867! Invece no, nessuna riapertura: evidentemente il Maestro aveva concluso da tempo – almeno dal 1874, anno di composizione del Requiem e dell’impiego di quel brano del Don come Lacrymosa  - che la drammaturgia della scena, e quindi il suo valore estetico ed artistico venivano seriamente compromessi da quel siparietto in cui tutto un mondo in fermento si deve fermare in surplace per ascoltare l’epinicio che Filippo e Carlo cantano al povero Rodrigo.

Insomma, personalmente mi sento di dire bravo a Luisi anche solo per non aver voluto fare il diverso… In realtà la sua prestazione di ieri ha avuto, per me, altrettante ombre che luci: poiché alla generale correttezza dello stacco dei tempi ha fatto da contraltare una tendenza ad eccessivo fracasso (penso in particolare all’Atto II, ma non solo) con conseguente copertura delle voci. Certo, anche per colpa delle voci, come dirò. Ma il concertatore dovrebbe venire in soccorso, invece di… seppellire.  

Orchestra meglio del solito e Coro di Casoni sui suoi standard.

Mattatore della serata René Pape, che a distanza di 4 anni è stato ancora un Filippo autorevole, commovente e – per giunta – non acconciato come un vecchio rimbambito (a dispetto del suo crin bianco, non dimentichiamo che il RE storico aveva da poco passato i 30!) Non vorrei sbagliare, ma mi pare che nell’aria-madre dell’Atto III non abbia preso bene il suo primo amor… In ogni caso, una prestazione notevole per emissione e sensibilità interpretativa. Per lui trionfo indiscusso.

Con lui abbastanza bene l’altro basso, Štefan Kocán, nei panni del tremendo Inquisitore: cui ha conferito anche quel che di protervo che ben si addice al personaggio. Certo, quando in altre repliche dovrà indossare i panni del Re, sarà bene che trovi il registro appropriato.

Fabio Sartori è un Infante passabile: la voce è un pochino… sporca, squilla poco, anche se ha una potenza tale da sovrastare persino gli eccessi rumoristici di Luisi! Certo, la sua presenza scenica non è proprio delle più accattivanti, e non solo per la circonferenza… pavarottiana del suo adipe (smile!)   

Rodrigo è Massimo Cavalletti, che mi ha favorevolmente impressionato: voce ben impostata e passante, portamento efficace; mi sembra che il 35enne lucchese (ascoltato qui come Ford nel Falstaff di inizio anno) stia continuamente migliorando.

Le due protagoniste femminili hanno funzionato a corrente alternata. Nel senso che le loro voci si sentono quando devono trovarsi nella cosiddetta ottava alta; in quella bassa faticano a farsi udire (e Luisi purtroppo nulla ha fatto per farcele udire). Meglio la Martina Serafin (Elisabetta) che almeno gli acuti li emette con proprietà… mentre Ekaterina Gubanova (Eboli) tende a spararli al limite dello schiamazzo.

Efficace Fernando Rado nella parte non proprio secondaria né banale del Frate. Su standard da minimo sindacale Barbara Lavarian (il Paggio, en-travesti) e Il Conte di Lerma di Carlos Cardoso.

Efficace la prestazione dei sei Deputati fiamminghi: Ernesto Panariello, Simon Lim, Davide Pelissero, Filippo Polinelli, Federico Sacchi e Luciano Montanaro.

Carlo Bosi e Roberta Salvati (che evidentemente ier sera cantava dal suo camerino…) completano il cast.

Alla fine applausi per tutti e per ciascuno, con punte per Pape e Luisi.
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La regìa di Stéphane Braunschweig è rimasta su per giù quella che era. Ho notato che adesso è meno invasiva la presenza dei due bambinelli a far da controfigura a Carlo&Elisabetta. In particolare ad Atocha, dove il piccolo è relegato in fondo-scena e legato ad un patibolo, anziché sostituirsi (come 5 anni fa) a Posa per la consegna della spada di Carlo al Re.

Un allestimento che non ha fatto e non farà storia, nel bene e nel male. Dove il bene consiste principalmente nel non fare danni all’originale; e di questi tempi, in cui assistiamo a travisamenti e adulterazioni di ogni sorta, è già qualcosa.

In conclusione, un ritorno accettabile: di questi tempi c’è di che accontentarsi.

2 commenti:

Amfortas ha detto...

Ciao! Credo che l'equivoco del Don fatale appartenga a gran parte degli appassionati e in questo caso non è neanche così ingiustificato, dai!
Parlando d'altro, ma sempre in tema Scala, sembra che Chailly sarà il prossiomo direttore più o meno stabile. Devo ancora pensare se sono contento oppure no, ma è comunque una scelta - a mio parere - da rispettare.
Ciao!

daland ha detto...

@Amfortas
Chailly, il nuovo che avanza!
(Un po' come se il PD ripescasse Weltroni...)
A parte le battute, se ci si dedicasse anima e corpo, potrebbe almeno ridare una personalità al lato musicale del teatro. Ma se si fa vedere come Barenboim (perchè ha Lipsia e mille altri impegni, e magari solo nel sinfonico) allora sarà altro tempo perso e tempi grami per tutti.
Come per le manovre di Letta, qui ci vorrebbe uno choc e non un tirare a campare: non dico Bignamini (!) ma gente come Mariotti o Ticciati, ecco...

Ciao!