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26 ottobre, 2013

Orchestraverdi – Concerto n°6

 

Prima apparizione sul podio, nella stagione 13-14, per il Direttore principale John Axelrod, che continua la sua visitazione delle sinfonie di Brahms e completa il ciclo dedicato ai concerti di Rachmaninov.

In un gremitissimo Auditorium si esegue del russo il Quarto ed ultimo, interpretato da Alexander Ghindin. Un’opera dalla genesi tormentata e dalla vita piuttosto grama… (meritatamente, tirate tutte le somme.)

Concepito ancora a ridosso del terzo, questo quarto dovette attendere anni e anni prima di vedere la luce (1926). E quelli furono gli anni peggiori per Rachmaninov, che era faticosamente – e con grandi compromessi sul piano artistico – uscito dalla tremenda crisi depressiva patita sul finire dell’800 ed ora era volontario esule da una patria che i bolscevichi gli avevano resa invivibile, cittadino errante in un mondo (l’Occidente) che magari lo riempiva di dollari, ma che lui intimamente disprezzava, includendo nella sua diffidenza anche le clamorose novità che vi nascevano in campo musicale: a Vienna (Schönberg) e Parigi (Stravinski, un suo compatriota che però, a differenza di lui, qui da noi aveva davvero trovato… l’america! )

Ecco perché, più che veder la luce, il concerto vide un lumicino, come quello che i simpatici nostri governanti ci indicano da anni baluginare laggiù, in fondo all’interminabile tunnel della crisi (smile?) Rachmaninov, dopo poche esibizioni in USA, accolte, ad essere comprensivi, dalla più totale indifferenza (beh, qualcuno si spinse a scrivere che il concerto sarebbe stato vecchio già 50 anni prima!) non fece nemmeno pubblicare la partitura (la cosa è avvenuta solo nel 2000, quando il manoscritto originale del compositore fu ceduto a Boosey). Questa versione è stata incisa proprio da Ghindin con Ashkenazy, in Finlandia.

Due anni dopo (1928) Rachmaninov si decise a far pubblicare l’opera, non dopo averla un po’ rimaneggiata (soprattutto nel tempo finale) e smagrita. (Il fatto che lui medesimo la ritenesse smisuratamente prolissa, mentre durava poco più di 30’, la dice lunga sul suo valore intrinseco…) Ne esiste, pare, un sola incisione, che si può ascoltare qui, sia pur mutilata del tempo di mezzo.

Ma dopo la riproposizione al pubblico, il lumicino, proprio come quello sul fondo del nostro tunnel, si trasformò in… lumino da cimitero: così il compositore ritirò l’opera dalla circolazione e non se ne riparlò per più di un decennio, fino al 1941, quando un Rachmaninov che forse non immaginava di essere ormai vicino alla fine le diede un’altra robusta sforbiciata e un deciso maquillage (qui Benedetti Michelangeli).

Ed è proprio quest’ultima (delle tre) la versione che si è faticosamente trascinata negli anni fra una sala da concerto e una di incisione, senza però mai sfondare; e che abbiamo ascoltato ieri sera nel primo dei due appuntamenti previsti per il 6° concerto.
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Il primo movimento (Allegro vivace, alla breve) è di struttura quasi indecifrabile, una cosa che si avvicina più alla fantasia o al capriccio che non alla classica forma-sonata. Al primo ascolto (ma non è che al secondo, terzo, ecc. le cose migliorino…) appare come un pot-pourri di motivi affastellati l’uno sull’altro, senza alcuna narrativa a giustificarne la presenza.

Sono almeno sei le idee tematiche (più le relative diramazioni e transizioni!) che compaiono in successione; alcune delle quali rifanno capolino in seguito, ma senza che ciò abbia attinenza con concetti di esposizione, sviluppo e ripresa. La qual cosa per me, più che innovazione, significa… manifesta impotenza ad esprimere in musica qualcosa di sensato. Effetti senza cause? O cause che non sfociano in effetti? Comunque sia, una cosa piuttosto deludente.

Nella figura sottostante sono riportati i principali motivi di questo primo movimento, individuati da lettere corrispondenti alla tabella successiva:


Lo specchietto qui sotto sintetizza la struttura del movimento, nelle due versioni del 1928 e del 1941; nella colonna tagli sono riportate esclusivamente le modifiche apportate da Rachmaninov in termini di accorciamento dei tempi; altre modifiche, più o meno pesanti e diffuse, riguardano la strumentazione:


Come si vede, i motivi ricorrono in modo disordinato, senza alcuna apparente logica formale, il che lascia l’ascoltatore interdetto, come di fronte ad una specie di caos.

Si noti di passaggio come la sforbiciata più decisa del 1941 (circa il 70% delle modifiche) riguardi la transizione nella parte iniziale del movimento.

Il successivo Largo – che è probabilmente la parte più nobile del concerto - ha una struttura semplice: breve introduzione, poi A-B-A e infine una breve transizione verso il Finale; era di sole 80 battute già nella versione 1928 e fu ulteriormente accorciato (di altre tre, nella prima delle tre sezioni) in quella del 1941, dove però subì anche qualche non banale modifica.

L’incipit del tema principale, DO maggiore, che in pratica monopolizza l’intero movimento, essendo riproposto in ben 5 diverse tonalità, scende dalla mediante alla tonica e ricorda ovviamente quello del famosissimo concerto di Schumann. Sembrerà strano, ma Rachmaninov se ne rese conto solo dopo aver riguardato la prima bella copia dell’opera, e ne scrisse stupito (!?) al dedicatario Nicolas Medtner, quasi rimproverandogli di non averglielo fatto notare prima.

Lo specchietto seguente riporta con un certo dettaglio la macro e micro struttura del brano:


Qui il taglio del 1941 è stato davvero impercettibile, mentre sono riscontrabili alcune innovazioni di non poco conto, fra cui è il caso di citare: la ristrutturazione delle 9 battute che nella versione del 1928 (a partire dalla 25) erano interamente affidate al solista, e che nel 1941 vennero distribuite fra solista e orchestra, in pratica riproponendo l’approccio impiegato nella prima esposizione del tema; poi l’inizio della sezione agitata, dove la parte del solista è stata semplificata (pesanti accordi in sostituzione di veloci semicrome) e vi è stato aggiunto un attacco del pianoforte (laddove c’era una pausa); poi il ritorno del tema principale (sezione Come primo) che era esposto esplicitamente in orchestra e poi dal solista, mentre ora è vagamente sfumato e variato; infine è stato cambiato radicalmente il passaggio alle battute 66-72 nella versione 1928, dove il pianoforte divagava sul tema, mentre ora procede con pesanti accordi ribattuti. Francamente è difficile trovare dei razionali convincenti per queste manipolazioni.

L’Allegro vivace finale è il movimento più pesantemente modificato da Rachmaninov nel 1941 (ma già l’incipit e la coda erano stati oggetto di corpose modifiche nel 1928): vi tagliò quasi il 9% delle battute e ne modificò un altro 32%... In particolare rivoluzionò la sezione conclusiva, cambiandone radicalmente anche il tempo (da 2/4 a 3/4). Insomma, un vero e proprio rifacimento!  

La macro-struttura del movimento presenta tre sezioni tematiche principali (A-B-A) ciascuna costituita da diversi motivi, richiamati nella figura seguente:

Lo specchietto qui sotto schematizza la struttura del movimento (di cui riporta soltanto i tratti salienti):


Come si vede, una prima modifica abbastanza marcata fra 1928 e 1941 riguarda l’inizio della sezione B, dove viene introdotto dal pianoforte un motivo impertinente, poi ripreso dopo il cantabile del solista. La ripresa della sezione A è, come detto, in gran parte rimaneggiata.

Dopo la riproposizione dell’Introduzione del primo movimento abbiamo la Coda, che Rachmaninov rifece di sana pianta (esclusa la cadenza conclusiva) nel 1941 portandola, come detto, da 2/4 a 3/4. In essa infilò anche un richiamo al motivo E del primo movimento, enfaticamente dilatato, dando così un (facile) tocco di ciclicità al lavoro; quanto alle novità di questo finale nella versione ultima, esse sono più che altro di natura scopertamente effettistica, e quindi non è che bastino a risollevare le sorti del concerto.
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Ghindin, che oggi ha solo 36 anni ma ne dimostra qualcuno in più (ahilui deve odiare ogni tipo di dieta, smile!) si è impegnato allo spasimo in questo concerto, anche con i muscoli maxillo-facciali, oltre che con le dita… ma più di tanto nemmeno lui può fare per trasformare questo pastiche in un capolavoro!

Così, per addolcirci la pillola, ci regala due bis di un Rach più abbordabile, nel primo dei quali si sente pure un po’ di Malagueña
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Dopo la pausa Axelrod si presenta per… incidere la Prima di Brahms: al pubblico viene chiesta in anticipo la massima collaborazione (leggi: limitare o evitare starnuti e scaracchi di stagione… smile!) e in effetti non si è sentita volare una mosca per l’intera durata della sinfonia.

Axelrod fa eseguire – cosa rara – il ritornello del primo movimento, chissà se per fedeltà alla lettera brahmsiana o perché poi (in studio) sceglierà quale delle due esecuzioni (anzi delle quattro, contando la replica di domenica) immortalare sul nuovo CD…

A parte gli scherzi, una performance pregevole, con il Direttore che ha tenuto un aplomb davvero impeccabile e i ragazzi che han dato il massimo in tutti i reparti: insomma nessuno si può essere annoiato, fosse pure al centesimo ascolto di questo capolavoro immortale.  

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