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22 agosto, 2014

ROF XXXV live: Petite Messe Solennelle

 

Dopo alcuni anni di attesa (era in programma, poi sfumata, nel 2011 con na Patalung) ma ancora in tempo per festeggiarne il 150° anniversario della prima esecuzione nella villa Pillet-Will a Parigi, è tornata finalmente al ROF (dopo l’87 e il ‘99) la Petite Messe Solennelle nella versione con orchestra, secondo la recente edizione critica targata Davide Daolmi.

Ieri sera al Teatro Rossini, con video-diffusione in Piazza del Popolo e pure in streaming, è stato il venerabile Alberto Zedda a dirigere l’Orchestra e il Coro di Bologna (maestro del coro Andrea Faidutti) in questo autentico gioiello del tardo-Rossini. Il quale portò a termine la versione per orchestra praticamente allo scadere della sua esistenza terrena, dopo aver lavorato sulla sua piccola Messa per quasi 7 anni. In effetti Rossini aveva intrapreso l’opera nel 1862, componendo un Kyrie forse in ricordo dell’amico musicista Louis Niedermeyer, di 10 anni più giovane di lui, ma scomparso l’anno precedente e proprio il 14 marzo, giorno in cui si terrà, nel 1864, la prima della PMS. Della Messe solennelle in SI minore di Niedermeyer (1849) Rossini citò – nel suo Christe (Andantino moderato) – l’Et incarnatus, guarda caso anch’esso un brano a cappella.

Le ricerche e gli studi effettuati negli ultimi decenni (Angelo Coan, Klaus Döge, Nancy P. Fleming e Philip Gossett) culminati nel recente lavoro editoriale di Daolmi, hanno portato a chiarire in modo abbastanza preciso quello che fu il percorso compositivo della PMS: contrariamente a quanto si è per lungo tempo ritenuto, di essa non venne dapprima completata la versione da camera (con accompagnamento di pianoforti ed armonium) per poi essere meramente, e quasi svogliatamente e in tutta fretta, trascritta per accompagnamento orchestrale. Viceversa Rossini, dopo l’iniziale stesura della versione da camera, che fu eseguita due volte a distanza di un anno (1864 e 1865) nella cappella di casa Pillet-Will e di cui è sopravvissuta una copia donata da Rossini alla Contessa (versione eseguita per la prima volta in tempi moderni al ROF nel 1997, grazie all'intercessione di Gossett presso i discendenti Pillet-Will) continuò a lavorarci sopra e contemporaneamente a pensare ad una versione orchestrale. Quindi anche la definitiva veste della versione da camera (il cui manoscritto è oggi conservato con quello della versione orchestrale presso la Fondazione Rossini) si è arricchita di tante piccole o grandi modifiche e aggiunte che il compositore apportò al testo in previsione, se non proprio in funzione, della realizzazione della versione orchestrale. La quale fu quindi il risultato finale di un lungo e meticoloso lavoro e non un sottoprodotto da prendere sottogamba, come si è spesso fatto, soprattutto all’inizio del ‘900. Così Daolmi elenca le sommarie fasi della composizione:

1862 Composizione di un Kyrie
1863 Aggiunta di Gloria e Credo («Piccola messa»)
1864 Aggiunta di Prélude, Sanctus e Agnus Dei e prima esecuzione in casa Pillet-Will
1866-68 Aggiunta di O salutaris e orchestrazione della Messa   

Daolmi enumera poi in ulteriore dettaglio ben 8 stadi di lavorazione dell’opera, gli ultimi due dei quali (post-1865) includono importanti interventi sulle sezioni: Gloria, Gratias, Domine, Qui tollis, Quoniam, Cum Sancto, Sanctus; oltre all’inserimento dell’O salutaris e all’orchestrazione. Come si vede, un processo lungo e… tormentato.
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Ai contenuti dell’edizione critica si deve aggiungere in questa esecuzione al ROF una quasi-primizia  – siamo in un Festival, e tutto è permesso! – dovuta allo zampino di Zedda, il quale anni addietro (qui una performance in Russia nel 2012) si è preso la libertà nientemeno che di strumentare il Prélude religieux! Questo brano, aggiunto da Rossini a ridosso della prima del 1864, era stato preso pari-pari da un pezzo per pianoforte dei Péchés de vieillesse (N°2 dell’Album de chaumière) e nella versione da camera viene quindi eseguito su quello strumento. Nella versione per orchestra, che esclude il pianoforte (sostituito in partitura da due arpe) Rossini, avendo deciso comunque di non strumentare il brano, ne assegnò l’esecuzione all’organo, che aveva lasciato in orchestra al posto dell’armonium, pur con funzioni di puro riempitivo. Orbene, Zedda, che evidentemente è così immedesimato in Rossini da conoscere anche ciò che il genio avrebbe fatto se non fosse… morto (smile!) come ragiona?

1. L’organo usato come solo riempitivo in orchestra non ha alcun senso: poiché ne viene ridotta la funzione a un pleonastico collante armonico fautore di un discutibile aumento di sonorità…;
2. Otto minuti di Prélude all’organo più quattro minuti di Sanctus (a cappella) costringono gli orchestrali a starsene con le mani in mano per un’eternità, lasciando nell’interprete e nell’ascoltatore un vago senso di incompiutezza…;
3. Quindi: via l’organo e strumentiamo il Prélude!

Ohibò, come rispetto per l’Autore da parte di un luminare delle edizioni critiche non c’è davvero male. E per nostra fortuna Zedda per la sua strumentazione non ha impiegato i sax, altrimenti si sarebbe materializzata proprio la nera profezia di Rossini riguardo al futuro della sua povera Messa! Scherzi a parte, non si può non dare atto all’ottuagenario Maestro di aver messo nell’impresa tutta la cura e la professionalità di cui è capace, scegliendo accuratamente gli strumenti cui affidare le diverse sezioni del Prélude (aperto dal recitativo del clarinetto basso) e dosando con cura le sonorità, dai pianissimi ai tutti. Prendiamolo come un interessante esperimento, ma il risultato estetico per me è discutibile, poiché priva l’opera di quel particolare momento di respiro e di raccoglimento (dopo le colossali fughe di Gloria e Credo) che ne è uno dei principali pregi.  
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Orchestra e coro erano quelli di Bologna, che da anni e anni al ROF la fanno da padroni (non a caso adesso c’è un… Mariotti in entrambi gli ambienti, e proprio il patron del ROF, prima dell’inizio, ha voluto festeggiare il sodalizio consegnando un enorme bouquet di fiori al decano dell’orchestra, la prima viola Harry Burton Wathen). In tutto 40 coristi e poco meno di 60 strumentisti (in disposizione moderna, con le viole al proscenio): un organico quasi tardo-romantico, che finisce per trasformare la Petite in qualcosa che assomiglia più a Berlioz o a Mendelssohn o a Brahms (non dico a Mahler!)   

I solisti erano Olga Senderskaya (S) Veronica Simeoni (A) Dmitry Korchak (T) e Mirco Palazzi (B) che, come prassi di tradizione, ma contrariamente alle indicazioni esplicite dell’Autore, cantano solo le parti loro specificamente assegnate, e non, aggiungendosi al coro, l’intera messa. Benissimo Palazzi e la Simeoni, bene Korchak e benino Senderskaya, almeno alle mie orecchie. 

Dopo aver assistito in… religioso silenzio ai quasi 90 minuti dell’esecuzione, il pubblico del Rossini (non proprio esaurito, devo dire) ha tributato a tutti un autentico trionfo, con innumerevoli chiamate per solisti e direttori.

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