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14 maggio, 2016

La configurabile Fanciulla di Chailly-Carsen (1)

 

Questa Fanciulla viene gentilmente offerta dal Teatro alla Scala in diverse varianti e configurazioni (come si fa con una Panda, per dire):

a. (3 e 6 maggio) versione Toscanini-Chailly (quella della prima del MET nel 1910 depurata di alcune, ma non tutte, le modifiche di Toscanini) cantata da Barbara Haveman;
b. (10, 13 e 18 maggio) versione Chailly (sedicente originale pucciniano) cantata da Barbara Haveman;
c.  (21, 25 e 28 maggio) versione Chailly cantata da Eva Maria Westbroek

Inutile dire che quest’abbondanza di versioni non è dipesa in realtà da un eccessivo scrupolo filologico del Teatro (chè allora si sarebbe dovuta dare in partenza allo spettatore la possibilità di scegliere fra le tre opzioni) ma da immancabile quanto puntuale indisposizione della protagonista titolare, sostituita all’ultimo momento da altra cantante totalmente impreparata (lo si è scoperto con grande sorpresa... ma guarda un po’) sulla versione-Chailly, da lei studiata in-fretta-e-furia fra la seconda e la terza recita. Così, chi aveva ordinato la Panda 4x4 ultimo-grido (promessa per tutte le 8 date) se è capitato nelle prime 2 ha ricevuto una Panda quasi normale e pure di seconda mano; se arriva nelle successive 3 si becca la Panda 4x4 ultimo-grido ma ancora con targa-di-prova; e finalmente i fortunati delle ultime 3 date avranno (salvo ulteriori imprevisti!) il trabiccolo che avevano profumatamente pagato. Beh, come risultato pratico di un forsennato battage (almeno una mezza dozzina di eventi programmati a Milano) per la Panda 4x4 ultimo-grido (slogan: la Fanciulla come nemmeno Puccini potè ascoltare...) non c’è davvero male.   

In attesa di assistere dal vivo (il sottoscritto è capitato nel secondo gruppo) si sono potute visionare e ascoltare due recite della variante b. Giovedi 12 RAI5 ha infatti trasmesso in differita la rappresentazione del 10 e venerdi 13 Radio3 ha trasmesso in diretta la quarta recita, al posto della prima, soppressa per ragioni di... pudore (così ci si è giustificati). Queste due trasmissioni hanno consentito di apprezzare – sul piano musicale – alcune delle differenze fra la versione tradizionale e la versione-Chailly; e - sul piano dello spettacolo - l’allestimento di Carsen.

Cominciamo dalla musica. La direzione e concertazione di Chailly (specie il 13) mi sono sembrate assolutamente all’altezza: stacco di tempi, messa in risalto di particolari, attacchi precisi (soprattutto al coro che quasi sempre deve fare autentiche e ripetute irruzioni, dove è facile mancare un appuntamento). Si capisce come il Maestro senta in modo particolare questa musica, e la sappia valorizzare al meglio. Le voci (a partire dalla onesta Haveman) mi son parse di livello discreto ma nulla più, certo sarà meglio giudicarle dal vivo.

Quanto invece alla versione (Chailly) così insistentemente pubblicizzata, le clamorose novità si riducono poi ad un paio di riaperture di tagli. La prima riguarda le 60 battute del siparietto di Minnie con Billy (metà del primo atto). Sapete come lo definisce uno che se ne intende, Julian Budden (qui il testo inglese)? Un episodio di cattivo gusto! E molto prima di lui dovette accorgersene Puccini, visto che (qui Toscanini c’entra relativamente) lo cassò senza pietà e senza rimpianti. Nella sua prolusione agli studenti riuniti al Piermarini (e ritrasmessa giovedi prima dell’opera da RAI5) e in un’intervista per Radio3 il Direttore principale incolpa del taglio esclusivamente Toscanini e ci adduce pure la motivazione: evitare che si ascoltasse anzitempo il tema esatonico (RE-MI-SIb-LAb-FA#-MI-RE-MI-FA#-DO) che Puccini affibbia all’indiano Billy. Un Leit-Motif, lo battezza Chailly, per la verità dandogli eccessiva importanza, visto che non torna mai più nel prosieguo... E anche i 16 versi che Minnie e Johnson cantano verso la fine di quell’atto (fra dovrà uccidermi qui e Povera gente!) furono tagliati con buone ragioni, e il loro ripristino non giustifica entusiasmi, nè può attirare meriti particolari sul ripristinatore. Che invece non ha avuto il coraggio (leggi: pietà verso gli interpreti o sfiducia negli stessi?) per farci ascoltare le 16 battute aggiunte di suo pugno da Puccini (!) al duetto Minnie-Dick del second’atto (dopo Eternamente) per una recita a Roma nel 1922, un passaggio effettivamente massacrante (e criticato pure da Budden, ad onor del vero) che culmina in un DO acuto per entrambi.

Discorso a parte meritano (ma qui il giudizio presuppone l’ascolto dal vivo) le 1000 piccole (o meno piccole) varianti che il vandalo (!) Toscanini si era permesso di inventare, salvo poi essere fatte proprie in-toto dall’Autore, tanto che le edizioni ancor oggi normalmente circolanti nei teatri e nella sale di incisione sono proprio e solo quelle della versione per il MET. Stando a Chailly, la loro rimozione dovrebbe riconsegnarci una Fanciulla più tenera e sfumata. Che vuol dire? Forse renderla meno cinematografica (! smile !) di quelle cui siamo abituati? In ogni caso ci ha pensato Carsen a restituirle - e con interessi stratosferici – la cinematograficità!
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È un vero peccato che i programmi di sala e i booklet delle incisioni dell’opera non presentino quasi mai la Nota preliminare che accompagna la partitura, e che servirebbe moltissimo per farsi un’idea dell’ambiente immaginato dagli Autori e dei drammi che vi si vivono:


...costruirono il loro destino in modo che noi odierni non possiamo comprendere.

Ecco, questa frase del librettista sembra riassumere la distanza fra il soggetto dell’opera e questa sua messinscena. Che è – come tutte quelle del regista canadese – di indubbia qualità, regalandoci uno spettacolo che non può non colpire l’immaginazione. Ma è affetta da clichè che ormai sono entrati nel DNA di questo regista, come ad esempio lo sfondamento della barriera palcoscenico-pubblico: qui evocato già dalla primissima scena, dove – invece che i poveri, luridi, infangati e depressi cercatori d’oro del libretto, mirabilmente scolpiti in note da Puccini – troviamo... noi medesimi, borghesucci da strapazzo, qui tornati nei panni dei nostri bisnonni (o nonni, per i diversamente-giovani) a goderci un film western (d’autore, però!) scomodamente seduti sulle seggiole di uno dei primi cinema. E alla fine ad assistere ad uno spettacolo o ad un film di successo, dopo averne salutato i protagonisti, le due star che vestiranno al Lyric i panni di Minnie&Dick.

Ecco, questo significa precisamente non comprendere, e trasformare un dramma nella sua caricatura, un’opera seria in un prosaico passatempo leggero: è la rappresentazione plastica della sconfitta del teatro musicale di fronte all’assalto del cinema di massa, che impone i suoi stereotipi sostituendo la fiction al dramma. 

Le due entrate in scena di Minnie (primo e terzo atto, e conseguentemente quella di Dick nel primo) sono l’immagine plastica del degrado del dramma a puro quanto vuoto spettacolo. In entrambi i casi la protagonista arriva in scena in momenti di alta drammaticità: dapprima a sedare coraggiosamente una lite addirittura sfociata in sparatoria (!) e alla fine a salvare in-extremis l’amato ormai quasi appeso alla forca. Invece cosa ci viene propinato da Carsen? Nel primo caso la scomparsa (per sollevamento) della cartapesta dell’Irma di BuffaloBill, sostituita da un fondale tipo cinemascope della Monument Valley (della cui inconsistenza parlerò fra poco) davanti al quale compare una Minnie cow-girl con tanto di cinturone, cappello a tese larghe e Colt agitata in aria. Nel secondo, dell’apparizione miracolosa dell’ingresso del teatro di Broadway dove i personaggi del dramma tornano ad essere... noi borghesucci da strapazzo che sbaviamo con la lingua per terra per due divi del musical! Peggior servizio all’opera di Puccini non si poteva fare.      
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Altra questione: la natura è indubbiamente una protagonista di quest’opera, e allora sarà bene ragionarci un po’ sopra. Il luogo dove fu scoperto l’oro (e dove l’opera è ambientata) è Coloma (un centinaio di Km a nord-est di Sacramento) e si trova in mezzo a montagne verdeggianti (la Sierra) coperte da foreste e solcate da fiumi (l’American River) e torrenti e che d’inverno si ammantano abbondantemente di neve: 


É questo il west nel quale Minnie e Dick vivono la loro avventura esistenziale e che alla fine salutano quasi con strazio (addio mia dolce terra, addio, mia California, a due voci in MI maggiore, ppp perdendosi): proprio nulla a che vedere con lo stereotipo degli spettacolari panorami della desertica Monument Valley propostici da Carsen, che si trovano al confine fra Utah e Arizona, ad almeno 1.000 Km a est-sud-est in linea d’aria e dove non v’è la minima traccia di foreste ed alberi, come di fiumi, neve e, manco a dirlo, di oro...:



Invece è su di essi che il regista insiste pervicacemente (fanno da fondale per quasi l’intero primo atto!) aggiungendosi all’abbigliamento di Minnie, alla cartapesta dell’Irma e a qualche sequenza di arrivavano i nostri proiettata in un terz’atto gratuitamente immerso nella più nera oscurità, improvvisamente rotta dalle... mille luci di NewYork!

Insomma, mi pare che Carsen abbia esageratamente e quasi ossessivamente fatto leva su stereotipi e riferimenti ad un west-un-tanto-al-kilo, assai diverso da quello che aveva ispirato Puccini e prima di lui Belasco. Quella che ne esce è una Fanciulla francamente discutibile, poichè inquinata da troppi elementi estranei e peggiorativi: solo il secondo atto si salva, e probabilmente grazie alla sua stessa struttura drammaturgica, difficilmente intaccabile (ma anche qui non mancano le banalità, come l’ambiente desolatamente vuoto, senza il camino, o il soppalco a scomparsa totale o la copiosa colata di sangue). Comunque va riconosciuto al regista il merito di non aver preteso anche di intervenire sulla partitura per adattarla al suo... Konzept! Questa non è affatto una battuta esagerata: all’Alcina (che ha un lieto fine) Carsen non esitò a cancellare il coro finale in SOL maggiore per farla chiudere mestamente in SOL minore (avendo deciso di trasformare l’opera da barocco magico a dramma esistenzialista). Quindi... stiamo migliorando!  
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(1. continua)

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