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01 maggio, 2016

Firenze fa tornare la vista a Iolanta (3)

 

Ieri pomeriggio seconda recita all’OF di Iolanta di Ciajkovski. Teatro con evidentissimi vuoti che veramente non fanno onore ad una proposta che meriterebbe più attenzione (ci sono ancora due repliche per chi l’ha finora snobbata).

Darei un gran bel voto a Stanislav Kochanovsky perchè mi pare abbia saputo rendere al meglio l’atmosfera agrodolce che caratterizza la partitura, dando sfogo a retorica e fracassi soltanto laddove... strettamente dovuto. Ad esempio ho apprezzato assai la leggerezza dell’accompagnamento del tema che accompagna Chudnyj pervenec tvoren’ja (derivato dal finale della Quinta sinfonia) e delle sue successive ricomparse; come il risalto dato a singole voci strumentali nei passaggi più espressivi della partitura.        

Fra le voci la palma del migliore la assegno senza esitazione a Vsevolod Grivnov, un Vaudémont impeccabile in tutte le sue diverse esternazioni: dalla toccante descrizione della sua donna ideale alle stentoree perorazioni legate all’esplodere del suo amore per Iolanta: voce superba e canto aperto (a qualcuno forse non piacerà...) di grandissimo effetto.

Dopo di lui il Re Ilya Bannik (che ha sostituito il titolare Alexei Tanovitksi, che canterà solo l’ultima) e il medico Elchin Azizov, assai bravi a caratterizzare le figure dei due sodali nell’impresa di far acquistare la vista alla cieca di Provenza.

Victoria Yastrebova è stata una Iolanta appena appena discreta: il timbro di voce non è dei più edificanti, in specie sugli acuti, che appaiono come sfuocati e privi di corposità. Le tre altre donne (Mzia Nioradze, Maria Stasiak e Irina Zhytynska) se la cavano dignitosamente. Così come gli altri maschietti (si fa per dire): Mateusz Zajdel e Federico Sacchi.

Chi mi ha invece deluso è Mikołaj Zalasiński, un Robert cavernosamente vociferante qual si direbbe un ubriacone in osteria: chissà non sia stato l’effetto della fiaschetta di vodka di cui il regista lo ha gratificato (stra—smile!)

Bene il coro di Lorenzo Fratini nella componente femminile (i maschietti per la verità hanno una parte circoscritta al finale).
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Mariusz Treliński firma un allestimento eccessivamente caricato di simbologie e freudianità assortite. La scena di Boris F. Kudlička è intelligentemente incentrata su una stanza girevole ad una sola parete, dove trovano posto i diversi ambienti della dimora di Iolanta. Ciò che la circonda fa parte invece della simbologia introdotta dal regista, il che contraddice totalmente la lettera del libretto: invece di una natura lussureggiante vediamo un bosco di alberi rinsecchiti o bruciacchiati, sollevati di parecchie spanne da terra in modo da mostrare anche le radici (che significhi per caso lo sradicamento della povera Iolanta dal resto della società?) E fuori dalla stanza regna un’oscurità quasi totale (Marc Heinz cura le luci). Certo la protagonista vive in uno stato di disagio e di ansia, ma il regista qui rischia di invertire il nesso causa-effetto: lui vorrebbe mostrarci in quella natura buia ed inospitale l’effetto della condizione psicologica di Iolanta, ma ciò che lo spettatore vede lo porta invece ad immaginare che le ansie della protagonista siano l’effetto dell’inospitalità della natura!

Ed anche i personaggi che abitano la dimora della fanciulla cieca sono dipinti più come carcerieri e addetti di un ospedale psichiatrico, che non come persone amorevoli che hanno il compito di rendere serena se non piacevole l’esistenza di Iolanta. Marta ha spesso atteggiamenti più da aguzzina che da nutrice, e le due ancelle sembrano mosse da ipocrisia e non da sinceri sentimenti (inutile dire che testo e musica dei Ciajkovski ci dicono l’esatto contrario). La figura del padre (il Re) è per me troppo sbilanciata sul negativo: lui è sì un padre-padrone, ma non perchè spinto da ottusi pregiudizi o da manìe di possesso nei confronti della figlia (che lui stesso ha destinata in sposa a Robert) ma perchè mosso da eccessivo zelo nel proteggerla e liberarla dalla sua menomazione, in modo da garantirle un futuro degno della sua nobile origine. Invece il regista ci mostra una specie di gerarca fascista (i costumi, moderni, sono di Marek Adamski) o direttore di un gulag sovietico, spogliato di ogni sentimento paterno, che pure testo e musica dei Ciajkovski sottolineano costantemente.

I personaggi dei due nobili trovatori hanno qualche vago tratto di... gay: sarà mica un velato riferimento alla condizione dell’autore (anzi, degli autori?) La scena della scoperta della cecità di Iolanta mi è parsa fin troppo drammatizzata, con Vaudémont che se ne va via quasi stizzito per aver scoperto la condizione della fanciulla, e lei che va fuori controllo travolgendo tavolo e sedie...  

Meglio centrate rispetto al libretto e alla musica sono le figure del medico islamico ,del custode Bernard e dello scudiero Alméric.

I video (di Bartek Macias) sono abbastanza criptici (i cerbiatti, che richiamano le teste di cervo che tappezzano la parete interna della stanza) o banali (il cupo fogliame mosso dal vento sullo sfondo della scena); le coreografie (di Tomasz Wygoda) non lasciano quasi il segno.

Insomma, una regìa un filino pretenziosa che sembra presupporre un pubblico perfettamente a conoscenza dell’originale in modo da cogliere tutti i sottintesi proposti dal regista. Purtroppo (ahinoi) il pubblico l’originale lo conosce pochissimo o nulla e chi vede per la prima (e unica?) volta questo spettacolo rischia di farsi un’idea piuttosto... ehm, strabica dell’originale.      
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Comunque, con tutte le riserve del caso sull’allestimento, questa proposta del Maggio resta assolutamente meritoria e speriamo apra la strada ad una più ampia diffusione del titolo nei teatri italiani. 

(3. fine)

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