Ieri pomeriggio
seconda recita all’OF di Iolanta di Ciajkovski. Teatro con evidentissimi vuoti che veramente non fanno
onore ad una proposta che meriterebbe più attenzione (ci sono ancora due
repliche per chi l’ha finora snobbata).
Darei un gran
bel voto a Stanislav Kochanovsky perchè
mi pare abbia saputo rendere al meglio l’atmosfera agrodolce che caratterizza
la partitura, dando sfogo a retorica e fracassi soltanto laddove...
strettamente dovuto. Ad esempio ho apprezzato assai la leggerezza
dell’accompagnamento del tema che accompagna Chudnyj
pervenec tvoren’ja (derivato dal finale della Quinta sinfonia) e delle sue
successive ricomparse; come il risalto dato a singole voci strumentali nei
passaggi più espressivi della partitura.
Fra le voci la
palma del migliore la assegno senza esitazione a Vsevolod Grivnov, un Vaudémont impeccabile in tutte le sue diverse
esternazioni: dalla toccante descrizione della sua donna ideale alle stentoree
perorazioni legate all’esplodere del suo amore per Iolanta: voce superba e
canto aperto (a qualcuno forse non piacerà...) di grandissimo effetto.
Dopo
di lui il Re Ilya Bannik
(che ha sostituito il titolare Alexei Tanovitksi, che canterà solo l’ultima) e il medico Elchin Azizov, assai bravi a caratterizzare le
figure dei due sodali nell’impresa di far acquistare la vista alla cieca di Provenza.
Victoria Yastrebova è stata una Iolanta appena appena discreta: il timbro di
voce non è dei più edificanti, in specie sugli acuti, che appaiono come
sfuocati e privi di corposità. Le tre altre donne (Mzia Nioradze, Maria Stasiak
e Irina Zhytynska) se la cavano
dignitosamente. Così come gli altri maschietti (si fa per dire): Mateusz Zajdel e Federico Sacchi.
Chi
mi ha invece deluso è Mikołaj Zalasiński,
un Robert cavernosamente vociferante qual si direbbe un ubriacone in osteria:
chissà non sia stato l’effetto della fiaschetta di vodka di cui il regista lo
ha gratificato (stra—smile!)
Bene
il coro di Lorenzo
Fratini nella componente femminile (i maschietti per la
verità hanno una parte circoscritta al finale).
___
Mariusz Treliński firma un allestimento eccessivamente caricato di
simbologie e freudianità assortite. La
scena di Boris F. Kudlička è intelligentemente
incentrata su una stanza girevole ad una sola parete, dove trovano posto i diversi
ambienti della dimora di Iolanta. Ciò che la circonda fa parte invece della
simbologia introdotta dal regista, il che contraddice totalmente la lettera del
libretto: invece di una natura lussureggiante vediamo un bosco di alberi
rinsecchiti o bruciacchiati, sollevati di parecchie spanne da terra in modo da
mostrare anche le radici (che significhi per caso lo sradicamento della povera
Iolanta dal resto della società?) E fuori dalla stanza regna un’oscurità quasi
totale (Marc Heinz cura le luci). Certo
la protagonista vive in uno stato di disagio e di ansia, ma il regista qui
rischia di invertire il nesso causa-effetto: lui vorrebbe mostrarci in quella
natura buia ed inospitale l’effetto della condizione psicologica di Iolanta, ma
ciò che lo spettatore vede lo porta invece ad immaginare che le ansie della protagonista
siano l’effetto dell’inospitalità della natura!
Ed
anche i personaggi che abitano la dimora della fanciulla cieca sono dipinti più
come carcerieri e addetti di un ospedale psichiatrico, che non come persone amorevoli
che hanno il compito di rendere serena se non piacevole l’esistenza di Iolanta.
Marta ha spesso atteggiamenti più da aguzzina che da nutrice, e le due ancelle sembrano
mosse da ipocrisia e non da sinceri sentimenti (inutile dire che testo e musica
dei Ciajkovski ci dicono l’esatto contrario). La figura del padre (il Re) è per
me troppo sbilanciata sul negativo: lui è sì un padre-padrone, ma non perchè
spinto da ottusi pregiudizi o da manìe di possesso nei confronti della figlia
(che lui stesso ha destinata in sposa a Robert) ma perchè mosso da eccessivo
zelo nel proteggerla e liberarla dalla sua menomazione, in modo da garantirle un
futuro degno della sua nobile origine. Invece il regista ci mostra una specie
di gerarca fascista (i costumi, moderni, sono di Marek Adamski) o direttore di un gulag sovietico, spogliato di ogni
sentimento paterno, che pure testo e musica dei Ciajkovski sottolineano
costantemente.
I
personaggi dei due nobili trovatori hanno qualche vago tratto di... gay: sarà mica un velato riferimento
alla condizione dell’autore (anzi, degli autori?) La scena della scoperta della
cecità di Iolanta mi è parsa fin troppo drammatizzata, con Vaudémont che se ne
va via quasi stizzito per aver scoperto la condizione della fanciulla, e lei
che va fuori controllo travolgendo tavolo e sedie...
Meglio
centrate rispetto al libretto e alla musica sono le figure del medico islamico ,del
custode Bernard e dello scudiero Alméric.
I
video (di Bartek Macias) sono
abbastanza criptici (i cerbiatti, che richiamano le teste di cervo che
tappezzano la parete interna della stanza) o banali (il cupo fogliame mosso dal
vento sullo sfondo della scena); le coreografie (di Tomasz Wygoda) non lasciano quasi il segno.
Insomma,
una regìa un filino pretenziosa che sembra presupporre un pubblico perfettamente
a conoscenza dell’originale in modo da cogliere tutti i sottintesi proposti dal
regista. Purtroppo (ahinoi) il pubblico l’originale lo conosce pochissimo o
nulla e chi vede per la prima (e unica?) volta questo spettacolo rischia di farsi
un’idea piuttosto... ehm, strabica dell’originale.
___
Comunque,
con tutte le riserve del caso sull’allestimento, questa proposta del Maggio resta assolutamente meritoria e
speriamo apra la strada ad una più ampia diffusione del titolo nei teatri
italiani.
(3. fine)
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