L’Attila
del Verdi rimasto affascinato dalla lettura di Werner era un tipo forse un filino talebano nell’etica (proprio binaria: 0-1, tutto o niente, bene o
male, bianco o nero) e quindi estraneo a compromessi e manfrine, spietato con i
perdenti e i voltagabbana... ma ammiratore e rispettoso dei nemici ispirati
alla sua stessa etica binaria.
Ora, come si spiega che un individuo sanguinario
come l’unno possa essere stato presentato - nel corso dell’800 - prima in un
dramma e poi in un’opera musicale come un personaggio positivo? Positività che emerge inoppugnabilmente dalla musica che Verdi gli ha cucito addosso,
le mille miglia lontana da quella idonea a caratterizzare un bieco e feroce
dittatore dei giorni nostri (Hitler, Stalin, Franco, Pinochet, PolPot, Bokassa,
Saddam, Osama...) E di certo diversa da quella che Verdi avrebbe composto se -
puta caso - avesse dovuto o voluto musicare un soggetto ambientato nel terrore francese, protagonisti Robespierre&C...
Credo che la risposta stia nel tipo di scenario e di contesto storico che sono sullo sfondo dell’opera. Quello
dell’Attila porta alla nostra attenzione vicende remote, ambientate in un mondo
dove una civiltà evoluta ma in
decadenza (Roma) era minacciata da (in)civiltà
primitive (perchè ospitate in parti del mondo estranee alla civiltà greca e
poi romana) ma proprio per questo a modo loro genuine; e dove il barbaro Attila era mosso da istinti quasi animaleschi,
ma in sostanza naturali, il che ne fa
- agli occhi di Verdi e ai nostri occhi - un personaggio persino degno di
ammirazione.
Sì, poichè uno stesso atto o fatto noi
lo possiamo percepire in modo completamente diverso a seconda del contesto e della prospettiva storica in cui esso si inserisce. Un atto di violenza
anche feroce compiuto da un seguace di Attila nel 452 certo non lo potremo mai
giustificare, ma possiamo comprenderlo in ragione delle circostanze storiche in
cui si è materializzato; e per questo Verdi può permettersi di rivestire le
truci esternazioni del condottiero e i cori truculenti di Unni, Eruli e
Ostrogoti, inneggianti a stragi e stupri, di musica positiva (modo maggiore, baldanzoso, propriamente eroico) ed è per questo che noi non solo
non ci scandalizziamo di ciò, ma anzi l’apprezziamo.
Tutto però cambia se cambia
l’ambientazione del soggetto. Ed è ciò che fa Davide Livermore in questo suo allestimento.
Ambientato di fatto ai giorni nostri (o in giorni a noi benissimo presenti,
perchè vissuti). E più precisamente ancora - nelle due parti principali che
caratterizzano questa trasposizione, la prima ad Aquileia e l’altra nel campo
di Attila del second’atto - ci troviamo chiaramente immersi in uno scenario che
ha scoperti riferimenti nazisti. Dapprima
vediamo l’Italia del
post-8-settembre-1943, come risulta evidente da alcuni precisi particolari
della messinscena: Odabella e poi Foresto che stringono drappi tricolori; la
scena presa pari pari da Roma, città
aperta di Rossellini, ambientato
come ben sappiamo proprio in quel preciso periodo storico; gli aguzzini che osserviamo
mentre trucidano a sangue freddo inermi cittadini, comportandosi precisamente
come si comportarono i classici Kapò nazi, a noi ben noti, quali Kappler, Priebke e compari (Marzabotto,
Ardeatine, ...)
Se lo scenario è questo, allora il
condottiero che arriva a cavallo all’inizio dell’opera, se proprio non Hitler
in persona, può benissimo riconoscersi in Albert
Kesselring, comandante supremo delle forze naziste in Italia nonchè criminale di guerra riconosciuto e come
tale condannato. E aggiungiamo che Ezio (ambiguo generale romano) ci fa proprio
la figura del Maresciallo Badoglio,
che da alleato dei nazisti - non dimentichiamo che anche Attila ed Ezio erano
stati alleati, ai tempi delle spedizioni contro i Burgundi! - è ora diventato
un traditore voltagabbana.
Quanto al secondo riferimento, è
incontestabile che la scena del festino nel campo di Attila sia di
ambientazione squisitamente nazi,
mutuata scopertamente da pellicole italiane, come quelle della Cavani (Il portiere di notte) di Brass
(Salon Kitty) e di Pasolini (Salo’).
Quello di Livermore è - riguardo i
momenti caratterizzanti - uno scenario che ci presenta uno spaccato della nostra contemporanea civiltà evoluta all’interno
della quale si è prodotta - per degenerazione cancerogena - una moderna barbarie. Uno scenario che sta letteralmente agli antipodi di quello musicato da Verdi:
a differenza del buon selvaggio
Attila, qui abbiamo Hitler (o chi per lui) che, non dimentichiamolo, aveva alle
spalle Hegel, Marx e persino... Wagner! E purtroppo quella stessa musica positiva di cui Verdi ha gratificato gli
Unni primitivi del 452 adesso ci viene cantata da aguzzini nazisti nel 1943,
che magari hanno mandato al creatore nostri padri o nonni... E ciò fatalmente offende
la nostra sensibilità e il nostro intelletto, oltre che offendere Verdi e la
sua opera!
Insomma, in questo caso (come spesso
avviene) l’attualizzazione del soggetto provoca l’intollerabile discrasia fra
ciò che si ascolta e ciò che si osserva. E a poco serve riconoscere
che ciò che si osserva, in sè e per sè, sia opera di ingegno e professionalità,
di cui non si può non dare atto a tutta l’equipe
di Livermore. Ammirando - una fra tante - la geniale trovata di impiegare il
famoso dipinto di Raffaello come sfondo al tableau vivant della scena dell’incontro Attila-Leone. O le
efficaci proiezioni, vedi il ricordo di Odabella dell’ammazzamento del padre da
parte di Attila.
Per la verità altre invenzioni del
regista sono assai meno memorabili, come ad esempio la ferita che Attila
provoca alla mano di Odabella consegnandole la sua arma da taglio (e perchè
mai un simile gesto?); o il colpo di pistola tanto gratuito quanto fuori tempo (dal punto di
vista drammaturgico) con cui Ezio ferisce Attila, che viene poi legato come un
salame, il che dequalifica il successivo gesto di Odabella dal livello eroico
(Giuditta-Oloferne) a quello vile (Maramaldo-Ferrucci).
In sostanza: un allestimento di alto livello
purtroppo inquinato dall’ambientazione incoerente con il soggetto da
rappresentare. Ho la vaga impressione che dall‘avvento del cosiddetto teatro-di-regìa (diciamo da 50 anni come
minimo a questa parte) si sia verificato nel mondo dell’opera lirica (e forse
non solo in esso) un fenomeno che chiamerei di dissociazione fra il contenuto
(ciò che si sente) e la forma (ciò
che si vede) attraverso la quale tale contenuto viene presentato. Basta che la
forma sia - com’è sicuramente nel caso in questione - accattivante, e la coerenza con il contenuto diventa
automaticamente un optional, al quale
si rinuncia con grande disinvoltura. Il nesso causa-effetto di questo imbarbarimento (!) dei costumi è tutto
da decifrare: è il Regietheater ad
averlo provocato, oppure è esso stesso un effetto di quell’imbarbarimento? Ai sociologi
l’ardua sentenza.
___
Anche ieri sera (come già per la prima vista in TV) Riccardo Chailly non mi ha pienamente convinto. Intanto confermo la
mia personale contrarietà alle scelte (sedicenti) filologiche del Direttore: la romanza di Foresto scritta per Moriani è certo apprezzabile (ed è sicuramente
musica di mano di Verdi!) ma a mio parere è più debole dell’originale.
Quest’ultimo (testo di Solera) è assai drammatico nella prima strofa, dove
Foresto dichiara che per Odabella avrebbe fatto qualunque cosa (e non a caso
Verdi lo musica in modo minore); e
nella seconda (in maggiore) Foresto chiede a Dio perchè mai consenta che un angelo del cielo (Odabella, già come
tale apostrofata con una frase musicale assai simile nella cavatina del Prologo) si macchi di una colpa così grave come il
tradimento.
Il testo (rimasto anonimo) per Moriani è
invece più sdolcinato: Foresto ricorda la sua felicità passata e il riferimento
all’angelo non è più per Odabella, ma narcisisticamente per se stesso! E Verdi
musica entrambe le strofe in un languido e donizettiano REb maggiore. Chi, come
Emanuele
Senici (sue note sul programma di sala) ha esplorato anche la
versione
Ivanov (testo di Piave) mi pare abbia pochi dubbi nel reputarla testualmente
e musicalmente superiore.
Non parliamo poi delle 5 battute di
Rossini inserite prima del terzetto dell’Atto III: lasciano davvero il tempo
che trovano. Rossini stesso disse di averle composte per suonarle mentre i suoi
ospiti a Passy si accomodavano chiacchierando per ascoltare il terzetto, un
modo come un altro per richiamarli al silenzio!
Chailly ha infine mantenuto la promessa
di far eseguire un allargando il tempo a
Ezio, Foresto e Coro sull’ultimo verso dell’opera (Appien sono vendicati
Dio, popoli e re!!!) La cosa,
oltre ad essere del tutto arbitraria (sono quelle che chiamo pisciatine di cane sulla partitura...) ha
ottenuto per me un effetto assai discutibile. Insomma, è stata il degno
suggello ad una direzione pulita e precisa, curatissima nei dettagli, ma troppo
- sempre secondo me - cerebrale e, in
termini musicali, eccessivamente sostenuta.
Così facendo Chailly ci ha restituito un Attila in guanti gialli e in punta di piedi:
insomma, troppo fioretto e poca vanga! Ma Attila non è Boccanegra
nè Otello...
Ildar
Abdrazakov
si è confermato un solido Attila, scenicamente e vocalmente (anche se le note
gravi non sono proprio il suo forte). Lunghissimo e meritato l’applauso a scena
aperta dopo Oh
miei prodi!
La Odabella di Saioa Hernández ha confermato alle mie orecchie ciò che di buono ricordavo
di lei. Voce corposa e penetrante, ha tratteggiato degnamente il personaggio,
sia nelle sortite eroiche che nelle
esternazioni più liriche (Oh! Nel fuggente nuvolo).
Sufficiente ma non di più l’Ezio di George Petean, che ha una voce poco...
ehm, verdiana; oltretutto quella stupidaggine di fare il SIb acuto sul piangerà
- un vero obbrobrio - davvero se la (e ce la) poteva risparmiare (uno come
Muti, per dire, lo avrebbe minacciato di licenziamento in tronco!) Ancora non
ci si spiega la ragione del suo subentro al posto dell’annunciato Piazzola (che
pure non è un marziano, sia chiaro) che difficilmente avrebbe fatto di peggio.
Fabio
Sartori
è ormai un abitué del ruolo di
Foresto, che padroneggia con molto mestiere, senza pecche ma anche senza mai lasciare il segno, ecco. Fossi in lui,
mi riterrei discriminato dal Direttore, per aver dovuto cantare la romanza di
Moriani (degna di un Nemorino qualunque, haha!)
Francesco
Pittari
(Uldino) e Gianluca Buratto (Leone)
hanno fatto ben più del minimo sindacale, e per questo si meritano ampio
riconoscimento.
Sui suoi alti livelli il Coro di Casoni (inclusi i piccoli) giustamente
ovazionato alla fine. Pubblico caloroso e prodigo di applausi e bravi! per tutti.
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