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12 dicembre, 2018

L’Attila scaligero: un nazi ante-litteram


L’Attila del Verdi rimasto affascinato dalla lettura di Werner era un tipo forse un filino talebano nell’etica (proprio binaria: 0-1, tutto o niente, bene o male, bianco o nero) e quindi estraneo a compromessi e manfrine, spietato con i perdenti e i voltagabbana... ma ammiratore e rispettoso dei nemici ispirati alla sua stessa etica binaria.

Ora, come si spiega che un individuo sanguinario come l’unno possa essere stato presentato - nel corso dell’800 - prima in un dramma e poi in un’opera musicale come un personaggio positivo? Positività che emerge inoppugnabilmente dalla musica che Verdi gli ha cucito addosso, le mille miglia lontana da quella idonea a caratterizzare un bieco e feroce dittatore dei giorni nostri (Hitler, Stalin, Franco, Pinochet, PolPot, Bokassa, Saddam, Osama...) E di certo diversa da quella che Verdi avrebbe composto se - puta caso - avesse dovuto o voluto musicare un soggetto ambientato nel terrore francese, protagonisti Robespierre&C...

Credo che la risposta stia nel tipo di scenario e di contesto storico che sono sullo sfondo dell’opera. Quello dell’Attila porta alla nostra attenzione vicende remote, ambientate in un mondo dove una civiltà evoluta ma in decadenza (Roma) era minacciata da (in)civiltà primitive (perchè ospitate in parti del mondo estranee alla civiltà greca e poi romana) ma proprio per questo a modo loro genuine; e dove il barbaro Attila era mosso da istinti quasi animaleschi, ma in sostanza naturali, il che ne fa - agli occhi di Verdi e ai nostri occhi - un personaggio persino degno di ammirazione.

Sì, poichè uno stesso atto o fatto noi lo possiamo percepire in modo completamente diverso a seconda del contesto e della prospettiva storica in cui esso si inserisce. Un atto di violenza anche feroce compiuto da un seguace di Attila nel 452 certo non lo potremo mai giustificare, ma possiamo comprenderlo in ragione delle circostanze storiche in cui si è materializzato; e per questo Verdi può permettersi di rivestire le truci esternazioni del condottiero e i cori truculenti di Unni, Eruli e Ostrogoti, inneggianti a stragi e stupri, di musica positiva (modo maggiore, baldanzoso, propriamente eroico) ed è per questo che noi non solo non ci scandalizziamo di ciò, ma anzi l’apprezziamo.

Tutto però cambia se cambia l’ambientazione del soggetto. Ed è ciò che fa Davide Livermore in questo suo allestimento. Ambientato di fatto ai giorni nostri (o in giorni a noi benissimo presenti, perchè vissuti). E più precisamente ancora - nelle due parti principali che caratterizzano questa trasposizione, la prima ad Aquileia e l’altra nel campo di Attila del second’atto - ci troviamo chiaramente immersi in uno scenario che ha scoperti riferimenti nazisti. Dapprima vediamo l’Italia del post-8-settembre-1943, come risulta evidente da alcuni precisi particolari della messinscena: Odabella e poi Foresto che stringono drappi tricolori; la scena presa pari pari da Roma, città aperta di Rossellini, ambientato come ben sappiamo proprio in quel preciso periodo storico; gli aguzzini che osserviamo mentre trucidano a sangue freddo inermi cittadini, comportandosi precisamente come si comportarono i classici Kapò nazi, a noi ben noti, quali Kappler, Priebke e compari (Marzabotto, Ardeatine, ...)

Se lo scenario è questo, allora il condottiero che arriva a cavallo all’inizio dell’opera, se proprio non Hitler in persona, può benissimo riconoscersi in Albert Kesselring, comandante supremo delle forze naziste in Italia nonchè criminale di guerra riconosciuto e come tale condannato. E aggiungiamo che Ezio (ambiguo generale romano) ci fa proprio la figura del Maresciallo Badoglio, che da alleato dei nazisti - non dimentichiamo che anche Attila ed Ezio erano stati alleati, ai tempi delle spedizioni contro i Burgundi! - è ora diventato un traditore voltagabbana.

Quanto al secondo riferimento, è incontestabile che la scena del festino nel campo di Attila sia di ambientazione squisitamente nazi, mutuata scopertamente da pellicole italiane, come quelle della Cavani (Il portiere di notte) di Brass (Salon Kitty) e di Pasolini (Salo’).

Quello di Livermore è - riguardo i momenti caratterizzanti - uno scenario che ci presenta uno spaccato della nostra contemporanea civiltà evoluta all’interno della quale si è prodotta - per degenerazione cancerogena - una moderna barbarie. Uno scenario che sta letteralmente agli antipodi di quello musicato da Verdi: a differenza del buon selvaggio Attila, qui abbiamo Hitler (o chi per lui) che, non dimentichiamolo, aveva alle spalle Hegel, Marx e persino... Wagner! E purtroppo quella stessa musica positiva di cui Verdi ha gratificato gli Unni primitivi del 452 adesso ci viene cantata da aguzzini nazisti nel 1943, che magari hanno mandato al creatore nostri padri o nonni... E ciò fatalmente offende la nostra sensibilità e il nostro intelletto, oltre che offendere Verdi e la sua opera!

Insomma, in questo caso (come spesso avviene) l’attualizzazione del soggetto provoca l’intollerabile discrasia fra ciò che si ascolta e ciò che si osserva. E a poco serve riconoscere che ciò che si osserva, in sè e per sè, sia opera di ingegno e professionalità, di cui non si può non dare atto a tutta l’equipe di Livermore. Ammirando - una fra tante - la geniale trovata di impiegare il famoso dipinto di Raffaello come sfondo al tableau vivant della scena dell’incontro Attila-Leone. O le efficaci proiezioni, vedi il ricordo di Odabella dell’ammazzamento del padre da parte di Attila.

Per la verità altre invenzioni del regista sono assai meno memorabili, come ad esempio la ferita che Attila provoca alla mano di Odabella consegnandole la sua arma da taglio (e perchè mai un simile gesto?); o il colpo di pistola tanto gratuito quanto fuori tempo (dal punto di vista drammaturgico) con cui Ezio ferisce Attila, che viene poi legato come un salame, il che dequalifica il successivo gesto di Odabella dal livello eroico (Giuditta-Oloferne) a quello vile (Maramaldo-Ferrucci).

In sostanza: un allestimento di alto livello purtroppo inquinato dall’ambientazione incoerente con il soggetto da rappresentare. Ho la vaga impressione che dall‘avvento del cosiddetto teatro-di-regìa (diciamo da 50 anni come minimo a questa parte) si sia verificato nel mondo dell’opera lirica (e forse non solo in esso) un fenomeno che chiamerei di dissociazione fra il contenuto (ciò che si sente) e la forma (ciò che si vede) attraverso la quale tale contenuto viene presentato. Basta che la forma sia - com’è sicuramente nel caso in questione - accattivante, e la coerenza con il contenuto diventa automaticamente un optional, al quale si rinuncia con grande disinvoltura. Il nesso causa-effetto di questo imbarbarimento (!) dei costumi è tutto da decifrare: è il Regietheater ad averlo provocato, oppure è esso stesso un effetto di quell’imbarbarimento? Ai sociologi l’ardua sentenza.
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Anche ieri sera (come già per la prima vista in TV) Riccardo Chailly non mi ha pienamente convinto. Intanto confermo la mia personale contrarietà alle scelte (sedicenti) filologiche del Direttore: la romanza di Foresto scritta per Moriani è certo apprezzabile (ed è sicuramente musica di mano di Verdi!) ma a mio parere è più debole dell’originale. Quest’ultimo (testo di Solera) è assai drammatico nella prima strofa, dove Foresto dichiara che per Odabella avrebbe fatto qualunque cosa (e non a caso Verdi lo musica in modo minore); e nella seconda (in maggiore) Foresto chiede a Dio perchè mai consenta che un angelo del cielo (Odabella, già come tale apostrofata con una frase musicale assai simile nella cavatina del Prologo) si macchi di una colpa così grave come il tradimento.

Il testo (rimasto anonimo) per Moriani è invece più sdolcinato: Foresto ricorda la sua felicità passata e il riferimento all’angelo non è più per Odabella, ma narcisisticamente per se stesso! E Verdi musica entrambe le strofe in un languido e donizettiano REb maggiore. Chi, come Emanuele Senici (sue note sul programma di sala) ha esplorato anche la versione Ivanov (testo di Piave) mi pare abbia pochi dubbi nel reputarla testualmente e musicalmente superiore.

Non parliamo poi delle 5 battute di Rossini inserite prima del terzetto dell’Atto III: lasciano davvero il tempo che trovano. Rossini stesso disse di averle composte per suonarle mentre i suoi ospiti a Passy si accomodavano chiacchierando per ascoltare il terzetto, un modo come un altro per richiamarli al silenzio!

Chailly ha infine mantenuto la promessa di far eseguire un allargando il tempo a Ezio, Foresto e Coro sull’ultimo verso dell’opera (Appien sono vendicati Dio, popoli e re!!!) La cosa, oltre ad essere del tutto arbitraria (sono quelle che chiamo pisciatine di cane sulla partitura...) ha ottenuto per me un effetto assai discutibile. Insomma, è stata il degno suggello ad una direzione pulita e precisa, curatissima nei dettagli, ma troppo - sempre secondo me - cerebrale e, in termini musicali, eccessivamente sostenuta. Così facendo Chailly ci ha restituito un Attila in guanti gialli e in punta di piedi: insomma, troppo fioretto e poca vanga! Ma Attila non è Boccanegra nè Otello...

Ildar Abdrazakov si è confermato un solido Attila, scenicamente e vocalmente (anche se le note gravi non sono proprio il suo forte). Lunghissimo e meritato l’applauso a scena aperta dopo Oh miei prodi!

La Odabella di Saioa Hernández ha confermato alle mie orecchie ciò che di buono ricordavo di lei. Voce corposa e penetrante, ha tratteggiato degnamente il personaggio, sia nelle sortite eroiche che nelle esternazioni più liriche (Oh! Nel fuggente nuvolo).

Sufficiente ma non di più l’Ezio di George Petean, che ha una voce poco... ehm, verdiana; oltretutto quella stupidaggine di fare il SIb acuto sul piangerà - un vero obbrobrio - davvero se la (e ce la) poteva risparmiare (uno come Muti, per dire, lo avrebbe minacciato di licenziamento in tronco!) Ancora non ci si spiega la ragione del suo subentro al posto dell’annunciato Piazzola (che pure non è un marziano, sia chiaro) che difficilmente avrebbe fatto di peggio.

Fabio Sartori è ormai un abitué del ruolo di Foresto, che padroneggia con molto mestiere, senza pecche ma anche senza mai lasciare il segno, ecco. Fossi in lui, mi riterrei discriminato dal Direttore, per aver dovuto cantare la romanza di Moriani (degna di un Nemorino qualunque, haha!)

Francesco Pittari (Uldino) e Gianluca Buratto (Leone) hanno fatto ben più del minimo sindacale, e per questo si meritano ampio riconoscimento.

Sui suoi alti livelli il Coro di Casoni (inclusi i piccoli) giustamente ovazionato alla fine. Pubblico caloroso e prodigo di applausi e bravi! per tutti.

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