Si avvicina a grandi passi un nuovo SantAmbrogio ed è il caso di prepararsi
a ricevere come si meritano i barbari che minacciano di mettere l’Italia a
ferro&fuoco (alludo a gentaglia tipo Juncker, Moscovici, Dombrovskis e
compari mangiapaneatradimento, hahaha!) Ma noi siamo pronti a sfidarli a piè fermo con i
nostri eroici Foresto Di Maio, Ezio Salvini e Odabella Raggi, spalleggiati dal catto-comunista Leone Francesco I.
(A pensarci bene, un assaggio di invasione di Unni l’abbiamo avuto pochi giorni fa, quando un loro - per la verità ultra-vegliardo - condottiero ci ha tenuto in scacco con la sua musica... scusate il politically-incorrect.)
(A pensarci bene, un assaggio di invasione di Unni l’abbiamo avuto pochi giorni fa, quando un loro - per la verità ultra-vegliardo - condottiero ci ha tenuto in scacco con la sua musica... scusate il politically-incorrect.)
___
Per il 2018 Riccardo Chailly ha scelto, dopo la Giovanna del 2015 e prima del Macbeth
del 2019 (?) questo Attila,
che rappresenterebbe (a suo parere) la seconda delle tre pietre miliari
dell’evoluzione artistica del giovine Verdi, dopo Nabucco e verso Rigoletto.
(Della serie: ognuno si inventa i pretesti più bizzarri per giustificare le proprie
scelte...)
Personalmente sono un fanatico di quest’opera, dove Verdi (altro che vanga) sembra usare la ruspa... e vedere all'opera (!) una ruspa (qui ogni riferimento al Salvini è del tutto casuale) è cosa spesso eccitante, se ai comandi c’è uno che ci sa fare. Che invece siano queste tre opere quelle che più spiccatamente caratterizzano la produzione verdiana dei cosiddetti anni di galera, lo pensa il Direttore musicale, ma non è vangelo. Infatti, secondo più di un critico, la stessa Giovanna fu un chiaro passo indietro rispetto (come minimo) a Ernani e Foscari; e una certa Luisa Miller meriterebbe di entrare in questa compagnia...
Personalmente sono un fanatico di quest’opera, dove Verdi (altro che vanga) sembra usare la ruspa... e vedere all'opera (!) una ruspa (qui ogni riferimento al Salvini è del tutto casuale) è cosa spesso eccitante, se ai comandi c’è uno che ci sa fare. Che invece siano queste tre opere quelle che più spiccatamente caratterizzano la produzione verdiana dei cosiddetti anni di galera, lo pensa il Direttore musicale, ma non è vangelo. Infatti, secondo più di un critico, la stessa Giovanna fu un chiaro passo indietro rispetto (come minimo) a Ernani e Foscari; e una certa Luisa Miller meriterebbe di entrare in questa compagnia...
Non
parliamo poi di Massimo Mila, che nel
suo simpatico (quanto dotto) libretto Le
opere “brutte” di Giuseppe Verdi elenca proprio - in compagnia
di Alzira, Masnadieri, Corsaro e Legnano - la Giovanna e l’Attila! E su
quest’ultima cita i giudizi non certo lusinghieri di Abbiati, Roncaglia,
Casamorata, Gerigk, Holl. Poi critica il Preludio, di fattura fine, ad un’opera che già da subito
scatena cori truculenti di unni, eruli, ostrogoti, ecc... Quindi fa dell’ironia
sul Verdi che, proprio con Attila, aveva pubblicamente ripudiato (come una provincialata) l’impiego della banda in scena, per poi - all’arrivo del
protagonista - abbandonarsi ad una vera
orgia di ritmo puntato. E non manca di sottolineare ad ogni ricomparsa la
stucchevole sospensione sulla settima di dominante impiegata per preparare il
numero successivo, che a sua volta è molto spesso (lo aggiungo io) una cabaletta in ritmo di polacca. E aggiungo ancora che serve un
numero a due cifre per censire le ricorrenze nello spartito dell’abusata
sequenza discendente dominante-sottodominante-sopratonica
(quella - per intenderci - dell’Amami
Alfredo...)
Tutta l'analisi di Mila è una lunga
elencazione di debolezze, banalità, volgarità, scadente qualità musicale (persino dell’alba sulla laguna, fatta di macchinosi congegni orchestrali, un po’
arrugginiti e cigolanti...) Insomma, una serie interminabile di vorrei, ma non posso. Va detto che, in
parziale accordo con Chailly, Mila riconosce comunque ad Attila perlomeno alcuni
caratteri di innovazione, quali la drastica riduzione dei recitativi o lo
sfrondamento dei numeri musicali da orpelli e lungaggini estranei all’azione e nocivi al dramma.
Il maestro riconosciuto degli esegeti verdiani, Julian Budden, così chiude il suo saggio sull’Attila:
Ecco, a questi luminari io personalmente dò ragione, sul piano freddamente razionale e musicologico, però rivendico anche il diritto di dichiarare che poche opere come questa mi danno letteralmente la scossa: la mia sarà pure una reazione animalesca, ma - perlomeno - in questo caso la bestia che c’è in me non viene sollecitata a buttar bombe o a bestemmiare contro il mondo-ladro (ogni riferimento a recenti prime mondiali è puramente voluto...) bensì a provare entusiasmo e appagamento. E tutto ciò grazie esclusivamente alla musica, per quanto (o forse proprio perchè...) barbara e, appunto, quasi animalesca. Mi auguro proprio che Chailly così ce la trasmetta, evitando edulcorazioni, ammorbidimenti, smussamenti o liricizzazioni fuori luogo.
___
Ma sulle
stranezze del libretto (oltre che su qualche contenuto musicale) mi sono peraltro
già dilungato abbastanza in occasione della precedente apparizione dell’opera
alla Scala, nell’ormai lontana estate del 2011, e quindi rimando i curiosi a
quel commento.
___
Chailly ha anche deciso (come spesso accade, per giustificare il suo stipendio) di lasciare le sue pisciatine di cane (!) sulla partitura, annunciando non una ma ben due primizie: la prima comporta la sostituzione della romanza di Foresto all’inizio dell'Atto III (Che non avrebbe il misero) con quella (Oh dolore! Ed io vivea) scritta per Napoleone Moriani e per la Scala (dicembre 1846): sì perchè la Scala non è mica la Fenice, sia chiaro. Un’altra aria sostitutiva - Sventurato! alla mia vita - era stata composta, su raccomandazione di Rossini, per Mykola Kuz'myč Ivanov per una recita di Attila a Trieste. Dato che oggi è passata da mani private (dove era inaccessibile) a mani pubbliche, Chailly potrebbe chiedere il permesso di metterla in scena in una sua prossima rivisitazione dell’opera (!?!) Ecco qui i testi delle tre versioni:
Però Chailly, sostituendo la romanza, non si deve essere accorto di aver gettato alle ortiche un importante (secondo me) connessione drammaturgica e musicale/tematica che esiste fra detta romanza e la cavatina di Foresto del Prologo (Ella in poter del barbaro) e precisamente fra i versi Io ti vedrei fra gl'angeli (cavatina) e Perché fai pari agli angeli (romanza). Nobbuono!
La seconda trovata è l’esecuzione di 5 (in lettere: cinque) battute musicali composte nientemeno che da Rossini per un happening in casa sua a Parigi e che da allora nessuno aveva mai più potuto udire, collocate prima del terzetto (Odabella-Foresto-Ezio) aperto da Odabella (Te sol, te sol quest’anima):
In ogni caso mi sento di stigmatizzare questa pratica pseudo-filologica, che evidentemente contagia - a mo’ di sindrome da onnipotenza - molti direttori, smaniosi di differenziarsi dalla massa proponendo novità inedite o versioni desuete di brani o intere opere. Mi tornano alla mente, restando in ambito scaligero e sempre riguardo a Chailly: la Butterfly-1904 presentata a SantAmbrogio2016 e le diverse versioni della Fanciulla di pochi mesi prima. Ma anche Barenboim non aveva scherzato, aprendo spudoratamente il Fidelio-2014 con la Leonore-2 (!) E che dire del Gatti-2008 che ci offrì la primizia del Lacrymosa dentro il suo Don Carlo...
Secondo me si tratta di iniziative tollerabili, o magari anche apprezzabili, se proposte nell’ambito di manifestazioni particolari, tipo i festival, oppure se producono degli allegati, in un CD. Ma scommetto che il pubblico competente del 7 dicembre sarà... attentissimo a queste straordinarie novità.
Poi Chailly trova da ridire (al Verdi non ancora abbastanza... maturo, evidentemente) sulle ultime battute dell’opera, dove Foresto, Ezio e il coro cantano Appien sono vendicati Dio, popoli e re!!! Secondo il Direttore Musicale, concentrare in una sola battuta (anzi in 3 semiminime) e in tempo Allegro ancora più animato, come fa Verdi (e come quasi tutti, ad esempio Muti) i tre riferimenti a Dio, popoli e re è cosa imperdonabile e irrispettosa: così lui prescriverà a voci e strumenti un allargando proprio su quelle battute, per restituire a quei riferimenti l’importanza che si meritano (?!?) Cosa che però ha già inventato il sommo Paolo Carignani (Macerata, 1996).
___
Il maestro riconosciuto degli esegeti verdiani, Julian Budden, così chiude il suo saggio sull’Attila:
L’Attila è la più rumorosa di tutte le opere risorgimentali, brusca
nello stile, impiastricciata di densi e sgargianti colori, piena di effetti
teatrali senza profondità e dotata di un numero maggiore del giusto di
impetuose cabalette. (...) Nonostante una genuina potenza costruttiva, gran
parte dell’opera rimane, non meno dell’Alzira,
sul piano del banale vigore.
|
Ecco, a questi luminari io personalmente dò ragione, sul piano freddamente razionale e musicologico, però rivendico anche il diritto di dichiarare che poche opere come questa mi danno letteralmente la scossa: la mia sarà pure una reazione animalesca, ma - perlomeno - in questo caso la bestia che c’è in me non viene sollecitata a buttar bombe o a bestemmiare contro il mondo-ladro (ogni riferimento a recenti prime mondiali è puramente voluto...) bensì a provare entusiasmo e appagamento. E tutto ciò grazie esclusivamente alla musica, per quanto (o forse proprio perchè...) barbara e, appunto, quasi animalesca. Mi auguro proprio che Chailly così ce la trasmetta, evitando edulcorazioni, ammorbidimenti, smussamenti o liricizzazioni fuori luogo.
___
Il soggetto fu suggerito dallo stesso
Verdi al Solera (ma anche Piave ci mise poi lo zampino) per farci il libretto
dell’opera, e viene dal dramma di Friedrich
Ludwig Zacharias Werner dei primi anni dell’800. Verdi ne
aveva avuto notizia leggendo lo scritto (pag. 323) De l’Allemagne
di Madame de Staël, dove il testo di Werner viene riassunto con grandi
apprezzamenti.
In realtà si
tratta di un
polpettone inverosimile che mescola storia (poca) e moltissima fantasia, a
cominciare dall’invenzione dell’arrivo di Attila a Roma; e poi e soprattutto del
personaggio di Ildegonda, principessa burgunda che Werner presenta come moglie
di Attila e sua assassina per vendetta contro l’uccisione del promesso sposo e di
altri suoi congiunti e compatrioti da parte del condottiero unno.
La
vicenda dell’ammazzamento di Attila da parte di Ildegonda, che Werner ambienta gratuitamente
vicino alla Roma cinta d’assedio dagli Unni, viene in realtà da saghe e
leggende teutoniche e nordiche (si va dal Nibelungenlied
alla Völsungasaga,
divenute tanto care a Wagner pochi anni più tardi) che la collocano però nel
territorio dei Burgundi, lassù lungo il Reno, collegandola nientemeno che alle mitologiche
imprese di Siegfried (!) Protagonista
è Gudrun/Kriemhild, sorella di Hagen, che viene trucidato da Atli (Attila) desideroso di impadronirsi
del tesoro nibelungico. E lei sposa Atli solo per poter poi ammazzare prima i due
figli avuti da lui e quindi lui medesimo.
Chailly ha anche deciso (come spesso accade, per giustificare il suo stipendio) di lasciare le sue pisciatine di cane (!) sulla partitura, annunciando non una ma ben due primizie: la prima comporta la sostituzione della romanza di Foresto all’inizio dell'Atto III (Che non avrebbe il misero) con quella (Oh dolore! Ed io vivea) scritta per Napoleone Moriani e per la Scala (dicembre 1846): sì perchè la Scala non è mica la Fenice, sia chiaro. Un’altra aria sostitutiva - Sventurato! alla mia vita - era stata composta, su raccomandazione di Rossini, per Mykola Kuz'myč Ivanov per una recita di Attila a Trieste. Dato che oggi è passata da mani private (dove era inaccessibile) a mani pubbliche, Chailly potrebbe chiedere il permesso di metterla in scena in una sua prossima rivisitazione dell’opera (!?!) Ecco qui i testi delle tre versioni:
originale (Venezia, 17/3/1846)
|
Ivanov (Trieste, 28/9/1846)
|
Moriani (Milano, 26/12/1846)
|
DO
minore - 4/4
|
DO
minore - 4/4
|
DO minore - 4/4
|
Infida!
Il dì che brami
è questo:
Vedrai come
ritorni a te Foresto!
|
Infida!...
Fatta certezza è il dubbio... I giuri suoi smentiva!... oh tradimento! Straziata dal dolor l'alma mi sento!... |
(come originale)
|
DO
minore-maggiore - 4/4
|
LAb
minore-maggiore - 3/4
|
REb
maggiore - 4/4
|
Che non avrebbe
il misero
Per Odabella
offerto?
Fino, deh, ciel,
perdonami,
Fin l’immortal
tuo serto.
Perché sul viso
ai perfidi
Diffondi il tuo
seren?…
Perché fai pari
agli angeli
Chi sì malvagio
ha il sen?
|
Sventurato! alla mia vita
Sol conforto era l'amor! Sventurato! or disparita Ogni gioia è dal mio cor!
Ah!.. perché le diede il
cielo
Tanto fiore di beltà; Se ad un cor dovea far velo Nido reo d'infedeltà. |
Oh dolore! ed io vivea
Sol pensando alla spergiura
Fin l’esiglio a me parea
Men deserto e men crudel.
Ogni colpo di sventura
Mi feria ma non nel core.
Fui beato in quell'amore
Come un angelo nel ciel.
|
Però Chailly, sostituendo la romanza, non si deve essere accorto di aver gettato alle ortiche un importante (secondo me) connessione drammaturgica e musicale/tematica che esiste fra detta romanza e la cavatina di Foresto del Prologo (Ella in poter del barbaro) e precisamente fra i versi Io ti vedrei fra gl'angeli (cavatina) e Perché fai pari agli angeli (romanza). Nobbuono!
La seconda trovata è l’esecuzione di 5 (in lettere: cinque) battute musicali composte nientemeno che da Rossini per un happening in casa sua a Parigi e che da allora nessuno aveva mai più potuto udire, collocate prima del terzetto (Odabella-Foresto-Ezio) aperto da Odabella (Te sol, te sol quest’anima):
In ogni caso mi sento di stigmatizzare questa pratica pseudo-filologica, che evidentemente contagia - a mo’ di sindrome da onnipotenza - molti direttori, smaniosi di differenziarsi dalla massa proponendo novità inedite o versioni desuete di brani o intere opere. Mi tornano alla mente, restando in ambito scaligero e sempre riguardo a Chailly: la Butterfly-1904 presentata a SantAmbrogio2016 e le diverse versioni della Fanciulla di pochi mesi prima. Ma anche Barenboim non aveva scherzato, aprendo spudoratamente il Fidelio-2014 con la Leonore-2 (!) E che dire del Gatti-2008 che ci offrì la primizia del Lacrymosa dentro il suo Don Carlo...
Secondo me si tratta di iniziative tollerabili, o magari anche apprezzabili, se proposte nell’ambito di manifestazioni particolari, tipo i festival, oppure se producono degli allegati, in un CD. Ma scommetto che il pubblico competente del 7 dicembre sarà... attentissimo a queste straordinarie novità.
Poi Chailly trova da ridire (al Verdi non ancora abbastanza... maturo, evidentemente) sulle ultime battute dell’opera, dove Foresto, Ezio e il coro cantano Appien sono vendicati Dio, popoli e re!!! Secondo il Direttore Musicale, concentrare in una sola battuta (anzi in 3 semiminime) e in tempo Allegro ancora più animato, come fa Verdi (e come quasi tutti, ad esempio Muti) i tre riferimenti a Dio, popoli e re è cosa imperdonabile e irrispettosa: così lui prescriverà a voci e strumenti un allargando proprio su quelle battute, per restituire a quei riferimenti l’importanza che si meritano (?!?) Cosa che però ha già inventato il sommo Paolo Carignani (Macerata, 1996).
___
Quanto agli
interpreti, il protagonista sarà l‘imponente ldar Abdrazakov, del quale possiamo farci un’idea attilica (per me assai convincente) in questa recita del 2012 al Mariinsky con Gergiev (nello stesso 2012 il basso russo fu assai apprezzato anche
a Roma con Muti).
Hildiko/Ildegonda...
oh pardon, Odabella, sarà impersonata da Saioa
Hernández, che esordisce nel ruolo: personalmente l’ho sentita una sola
volta, lo scorso anno nella Wally, e ne trassi una positiva impressione,
proprio per le caratteristiche di potenza e corposità della voce, che dovrebbe
quindi bene adattarsi al ruolo della ruvida amazzone di Aquileia.
L’eroico
Foresto resta quello del 2011, Fabio
Sartori, che ha ormai raggiunto le dimensioni di Pavarotti e la voce...
quasi, ecco; ma speriamo bene, visto che lui ha poi vestito quei panni altre
volte, come qui a Bologna nel 2016 con Mariotti.
L'ambiguo Ezio (patriota o doppiogiochista?) annunciato a maggio per Simone Piazzola avrà invece la voce di George Petean, il baritono rumeno che
già nel 2016 ha fatto coppia con Abdrazakov nell’Attila a Montecarlo.
Francesco Pittari (Uldino) e Gianluca
Buratto (Leone) completano il cast. Molto ci aspettiamo dal coro di Casoni, che qui ha un ruolo primario.
___
L’allestimento
è affidato a Davide Livermore, al suo
terzo impegno scaligero, dopo il mitico
Tamerlano e il buffo DonPasquale,
due spettacoli di tutto rispetto anche se non esenti da qualche pecca. Vedremo
come il regista(ex-tenore) torinese interpreta per noi questa vicenda
pseudo-storica: io spero solo che non la carichi di contenuti eccessivamente
politico-ideologici di attualità, come gli accadde anni fa per i Vespri torinesi (magari tirando in ballo
proprio Di Maio, Salvini e Raggi - o Appendino, nel suo caso!)
A parte le battute, il regista ci fa sapere cosa pensa dell’opera in questa esternazione comparsa
sul sito web del Teatro. Subito Livermore sottolinea le debolezze (micro-ingenuità!) del libretto,
riscattate però dalla potenza e dalla straordinaria
vitalità della musica di Verdi. E fin qui non potrei essere più d’accordo
con lui (!)
Dopo aver (comprensibilmente!) esaltato la Scala, Chailly, l’allestimento
e il cast vocale, il regista tratta gli aspetti
politici della produzione verdiana di quegli anni, per sostenere che Attila
non celebri una lotta di liberazione,
ergo non sia un’opera risorgimentale. Qui il ragionamento scricchiola (Budden,
uno per tutti, la pensa all’opposto) anche perchè Livermore fa un po’ di
confusione con le date, postdatando Attila al 1849, quindi dopo i fallimenti dei moti del ’48 e della prima guerra d’indipendenza,
mentre l’opera andò in scena alla Fenice martedi 17 marzo del 1846, in piena temperie rivoluzionaria... Ma il regista motiva la sua convinzione analizzando
le figure di Attila e di Ezio, e in particolare la famosa frase del generale
romano (Avrai tu l’universo, resti l’Italia a me.) considerata una proposta indecente, e concludendo (prendendo a pretesto la sprezzante risposta di Attila) che l’intera opera sia una radiografia dell’Italia
contemporanea (a Verdi, ma anche a... noi!): un Paese senza più principii,
senza senso civico, comunitario e identitario, pronto a svendersi allo straniero per un
piatto di lenticchie; e che Verdi volesse quindi prendere a schiaffoni i suoi
contemporanei (e quindi anche noi, a futura memoria!)
Ecco, a me pare proprio che qui il regista sconfini indebitamente nel
campo della sociologia-un-tanto-al-kilo (e spero non l’abbia messa al centro
del suo Konzept dell’opera). Certo si
può sorridere sul fatto che la rivolta patriottica contro l’invasore sia condotta
da un Papa e da un Generale di ambigue attitudini; e non si può negare che la
figura di Ezio non sia propriamente adamantina, ma così come la si può coprire
di disprezzo (classico caso di doppiogiochismo
all’italiana, sentenzierebbe un crucco di oggidì con i paraocchi, proprio
come Attila) è altrettanto legittimo scorgervi invece un sano approccio di Realpolitik, da parte di un italiano -
ambizioso sì, ma con la testa sulle spalle - che cerca di salvare il salvabile,
lasciando ai barbari il resto del mondo in cambio della salvezza e sicurezza
del proprio Paese! Ma poi - ciò che è più importante, visto che Livermore
afferma di trovare tutti gli spunti nella
partitura - è proprio la musica
cantata da Ezio ad avere (come quella di Attila, effettivamente)
caratteristiche di nobiltà ed eroicità; una musica che si addice ad una figura
di alto spessore, non già ad un meschino traditore della patria. Non sarà un
caso di certo se la melodia di Avrai tu l’universo sia quasi la stessa -
armonizzazione inclusa - che sostiene, nel primo atto, l’accorata implorazione (Oh! Digli tu se anelo...) che Odabella rivolge alla buonanima del defunto padre perchè
convinca Foresto delle sue intenzioni (di far secco Attila).
Insomma, detta con un termine oggi in voga (a proposito di attualizzazione delle opere del
passato): Ezio è - nel bene e nel male - un sovranista
(l’accostamento al Matteo dilagante non era poi così strampalato, vero?)
Livermore
non perde infine l’occasione per esaltare il teatro musicale (lui è un
collaboratore dell’oste, del quale ovviamente deve vantare la qualità del vino)
e l’opera come prodotto artistico e non di entertainment,
come sarebbe secondo lui degenerata solo da 30 anni a questa parte (andiamo a vedere Traviata o a mangiare una
pizza?) Beh, intanto qualcuno potrebbe osservare come da 30 (o magari 50)
anni a questa parte abbia preso piede un’altra degenerazione dell’opera,
divenuta preda di registi iper-creativi, abilissimi nel de-strutturare e
ricomporre lavori a proprio piacimento, ignorando bellamente gli originali. Ma poi
Livermore dovrebbe ricordare come già dal ‘700 e poi nell’800, il teatro
musicale avesse spiccate caratteristiche di entertainment,
come dimostra la prassi tassativamente
imposta (in specie a Parigi) dell’inserimento di balletti all’interno di opere anche seriosissime (e lo stesso Verdi
non esitò ad accettare tali imposizioni!)
___
Dagli
under-30 avremo il 4 le prime reazioni, poi il 7 pomeriggio saranno Radio3 e
RAI1 a portare ad orecchie e occhi lo storico evento. I miei personali sensi
verranno stimolati live pochi giorni
dopo: se non ne resterò tramortito, riferirò...
Nessun commento:
Posta un commento