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24 giugno, 2011

Alla scala Capuleti e Montecchi secondo Gounod



Ieri sera ultima rappresentazione alla Scala del capolavoro di Charles Gounod, che vi mancava da pochissimo tempo (in fin dei conti, cosa volete che siano 77 anni, in confronto all'eternità?)

Come è capitato in altri casi, anche Roméo et Juliette ha subìto vicissitudini più o meno tormentate, a fronte delle quali esistono diverse versioni dell'opera, oltre ai soliti tagli storicamente praticati con l'approvazione, o la tolleranza, dell'Autore. Cosa che dà modo a registi e direttori di inventarsi ogni volta una nuova presentazione. In questo caso è stata presa come base la versione del 1888 (che Gounod approntò per l'esordio all'Opéra) alla quale sono stati apportati alcuni tagli, sia tradizionali (balletti) che non; in compenso riaprendone altri. Insomma, non siamo proprio in una situazione caotica tipo Boris, ma poco ci manca.

Un primo taglio è nel finale I, la proposta di Tybalt di inseguire i rivali, l'altolà di Capulet e il coro che inneggia alla festa: francamente è un taglio quasi usuale e non ci priva né di grande musica, né di pathos drammatico. Poi è accorciato il duetto del finale II (dove Juliette vorrebbe Roméo legato con un filo di seta, come un uccellino che un bambino riporta a sé quando si allontana troppo). Effettivamente questo scorcio si porta dietro anche ripetizioni (eccessive?) di cose già dette e ripetute, ma il taglio pare effettivamente ingiustificato e oltretutto mai accettato di buon grado dall'Autore. Poi ancora nel quartetto dell'atto IV sono tagliate 16 battute (4 versi) cantate da Capulet (L'autel est préparé): taglio davvero cervellotico, non fosse che per la dimensione esigua (di tagli del genere se ne potrebbero fare allora decine e decine). Sempre nell'atto IV è tagliata gran parte della cerimonia nuziale: nulla da dire per quanto riguarda i balletti (sappiamo fossero un immancabile quanto insensato debito alle regole del GrandOpéra) però i tagli del corteo nuziale e dell'Epithalame paiono meno giustificati (anche se non nuovi, ovviamente). Infine nell'atto V sono tagliati l'Entr'acte e la scena fra Laurent e Jean: probabilmente il secondo taglio (più che ammissibile, chè il breve scambio di parole fra i due frati ci dovrebbe solo rendere edotti del fatto che Roméo non conosce lo stratagemma della finta morte di Juliette, cosa che però ci verrà da lui stesso chiarita in seguito) ha imposto anche quello dell'Entr'acte, per evitare la concatenazione con un secondo preludio, qual è in effetti il successivo Sommeil de Juliette, con cui quindi si apre l'atto in questa produzione. Invece è stato – giustamente, perché grande musica – eseguito Amour, ranime mon courage dell'atto IV, che Gounod fece tagliare addirittura alla prima del 1867 e per molti e molti anni non fu eseguito.
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Dalle circa tre ore (nette) di musica dell'originale siamo quindi passati a poco più di 2 ore e mezza e ciò ha consigliato di proporre i cinque atti in due soli spezzoni, con un unico intervallo. Posto in corrispondenza della cesura fra i due quadri del terzo atto, cioè dopo il matrimonio segreto e prima della rissa fra le due tifoserie. Scelta tutto sommato condivisibile, dato che in pratica crea uno spartiacque fra il versante ascendente del dramma (l'amore che nasce, si consolida e si concretizza in uno scenario di un promettente futuro) e quello discendente (gli omicidi, la condanna di Roméo, il patetico-pazzesco stratagemma di Laurent e il precipitare verso la tragica-nobile fine dei due amanti).
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La regìa di Bartlett Sher è piuttosto tradizionalista nell'ambientazione (del resto di versioni del dramma portate ai giorni nostri ce n'è anche di autentiche e originali, con tanto di parole e musica appositamente composte, vedi West Side Story… per giustificare allestimenti in chiave contemporanea) ma abbastanza gradevole nel complesso, pur con qualche trovata fra il velleitario e il gratuito: come la scena di stupro durante il prologo, oppure i petardi che scoppiano addosso a Juliette al suo ingresso o alcuni gesti immotivatamente bruschi (Tybalt con Juliette e Gertrude con Tybalt). Poi nel duello Roméo-Tybalt casca dall'alto un enorme lenzuolo bianco, che scopriremo solo più tardi servire da maxi-copriletto per il maxi-letto di Juliette e poi ancora come strascico dell'abito nuziale della protagonista. A proposito del duello, anziché con la spada, Roméo ferisce Tybalt in modo poco sportivo, per così dire: lo aggredisce alle spalle mentre è disarmato e lo accoltella con un pugnale. E questo pugnale sarà poi quello che Juliette impiegherà nel finale, dove peraltro arriverà in modo assai contorto: non già nascosto da Juliette sotto la veste prima di svenire e quindi ritrovato al cessare dell'effetto della droga di Laurent (come ci informa il libretto originale) ma abbandonato sul terreno al momento della finta morte e miracolosamente ricomparso sul catafalco, accanto al corpo di Juliette al suo risveglio. Ma insomma, un regista che segua pedissequamente le didascalie originali oggi ci farebbe la figura del pirla, quindi qualche invenzione bisogna pur proporla al pubblico che esige novità.
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Gounod con quest'opera realizza una specie di sincretismo fra diversi generi e tendenze musicali. Non pretende di rivoluzionare nulla: siamo sempre ai numeri (più o meno) chiusi, collegati da recitativi accompagnati, ma vi fa capolino anche Wagner, quello giovane, che si sente distintamente e immediatamente all'attacco dell'Ouverture (quasi copiato da quello dell'Holländer, con la base di RE minore - quinte vuote - sostenuta dagli archi) e poi in alcune transizioni che ricordano Lohengrin. Ma anche in uno sfumato tristanismo che emerge qua e là. Nulla di wagneriano invece nella trattazione dei Leit-motive, dove Gounod si limita a pochi – anche se mirabili – richiami tematici in alcuni momenti topici del dramma. In un passo di Frère Laurent pare anche di sentire Sarastro nel finale del Flauto. Singolare – e difficilmente casuale – la citazione quasi alla lettera del tema del Concerto per violoncello di Schumann che udiamo nell'atto IV, all'attacco del N° 17 (scena e aria di Juliette Dieu! Quel frisson court dans mes veines?):
Quanto al contenuto del dramma, sappiamo che Gounod - per quanto colpito da giovane dal finale della Sinfonia Drammatica di Berlioz - allorquando dopo quasi 30 anni si mise a comporre la sua opera pensò bene di divergere da Berlioz-Shakespeare e di avvicinarsi caso mai a Wagner, puntando tutto sui sentimenti e sul privato.
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Sul fronte dei suoi imitatori (per così dire, o ammiratori) troviamo ad esempio il Ciajkovski dell'Onegin (ma non solo). A proposito del compositore russo, era così innamorato dei lirici francesi che li citò più volte anche nella sua produzione strumentale: oltre al Bizet (Carmen) che compare scopertamente nel Concerto per violino e nel primo movimento della Patetica, anche tratti del Romèo si odono nel finale del Concerto per pianoforte e nella stessa Patetica. Ma lo stesso Mahler non ha scherzato nel ricordarsi di alcuni struggenti passaggi dell'opera (ad esempio nel finale della sua prima sinfonia).
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Yannick Nézet-Séguin - di fatto un francese, pur se nordamericano - ha mostrato di calarsi assai bene nello spirito e nelle atmosfere gounodiane: fracassi limitati al minimo indispensabile, per le scene di massa – festose o cruente – fra le fazioni guelfo-ghibelline della Verona rinascimentale; e invece delicatezza di suono e lirismo (appunto) hanno caratterizzato la sua direzione - di un'orchestra abbastanza diligente - assai curata anche nel sostegno dei cantanti.
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I quali han fatto ciò che potevano e sapevano: cioè cose non strepitose, diciamolo francamente. La voce di Pavarotti uno non può inventarsela (vale per Grigolo, che però ha un bel fisico, non c'è che dire, cosa che oggigiorno pare contare più della voce) e però si potrebbe perfezionare ancora, onde superare il livello di semplice sufficienza (questo consiglio è indirizzato anche a quella bella gnocca di nome Nino). È toccato ai comprimari Vinogradov (un Laurent con gran voce e buon portamento) e Braun (apprezzabile la sua Reine Mab) alzare un filino la media, mentre Ferrari (un mediocre Capulet) Burggraaf (poco efficace come Stéphano) e Gatell (un Tybalt piuttosto spento) non hanno propriamente incantato. Gli altri (vedi locandina) hanno fatto il loro dovere. Sempre bene anche il coro di Casoni.
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Successo caloroso per tutti, e adesso, chiusa questa apparizione al Piermarini, a Roméo et Juliette non resta che dire: arrivederci al 2088!
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