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19 dicembre, 2016

Werther a Bologna. 2


Ieri pomeriggio terza recita del nuovo Werther bolognese. Bibbiena piacevolmente affollato e, lo dico subito, entusiasta dello spettacolo, guidato in scena da Rosetta Cucchi e in buca da Michele Mariotti.

Occhi (orecchi, soprattutto) puntati sul mitico JDF, che non ha tradito le attese, anche se in questo repertorio dà l’impressione di essere un pesce fuor d’acqua: non certo perchè canti male, ma per la forse eccessiva assuefazione che abbiamo noi, suoi ascoltatori, ad aspettarci sempre da lui i mirabolanti virtuosismi rossiniani, che il tardo-romanticismo ha irrimediabilmente mandato in soffitta. Insomma, il problema non è suo, ma nostro! Dopodichè stabilire graduatorie (meglio Kraus? Kaufmann?) è esercizio che lascio volentieri agli specialisti (o millantati tali): a me personalmente è piaciuto abbastanza come cantante e un po’ meno come attore, sempre impacciato e poco credibile.

I suoi fan non hanno perso l’occasione per osannarlo dopo Pourquoi me réveiller che, essendo l’unica aria dell’opera degna di questo nome, da sempre viene usata per celebrare il tenore di turno: fatto sta che quell’applauso prolungato rovina irrimediabilmente la drammaticità della scena (Massenet in quel punto non prevede alcuna pausa, arpa e archi bassi devono continuare a suonare, gli strumentini riprendono subito la melodia). Ma si sa, certo pubblico è lì per il fenomeno da baraccone, mica per il dramma! E ieri l’insistenza è stata tale da convincere JDF al bis. Così, quasi per vendetta, il destino ha voluto che il dramma, cacciato dal palcoscenico, si sia trasferito in platea, dove una persona è stata colta da malore proprio durante le rumorose richieste di bis: chissà se per l’emozione provocatale dal canto di JDF o per lo spavento dovuto a tutto quel baccano. Sta di fatto che sono dovuti intervenire gli addetti alla sicurezza per trasportare la vittima fuori dalla sala, passando dall’uscita di emergenza posta proprio a lato della buca. Mariotti ha visto, ma si è girato per attaccare il bis: insomma, una scena assai poco edificante!

Isabel Leonard veste i panni, ma soprattutto dà la voce a Charlotte e devo dire che se l’è cavata più che bene, mostrando belle qualità vocali in tutta la gamma e restituendoci efficacemente tutta l’ambiguità di cui Massenet (al contrario di Goethe) riveste il personaggio. Interessante, con lei, anche la sorellina, la Sophie di Ruth Iniesta, voce ben impostata e robusta, sempre a suo agio in questa parte leggera e scanzonata.

Albert è interpretato da Jean-François Lapointe: senza infamia e senza lode la sua prestazione, davvero in linea con la grigiosità (?!) del personaggio. Da dimenticare il borgomastro di Luca Gallo, vociferante invece che cantante. Bravi invece Alessandro Luciano, Lorenzo Malagola Barbieri, Tommaso Caramia e Aloisa Aisemberg nelle parti di contorno. Encomiabili i sei piccoli fratellini di Alhambra Superchi.  

Michele Mariotti non si scopre oggi: sapiente la sua direzione, che ha esaltato le raffinatezze dell’orchestrazione di Massenet; sempre precisi ed efficaci gli attacchi ai cantanti; fracassi mai esagerati e invadenti.

Complessivamente mi è parsa una prestazione più che accettabile.
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Rosetta Cucchi (coadiuvata da Tiziano Santi per le non mirabili scene, Claudia Pernigotti per i costumi anonimi e Daniele Naldi per le luci, molto efficaci) ha proposto un’idea allo stesso tempo interessante e abusata: il protagonista appare sin dal preludio seduto su una sedia al proscenio, dalla quale osserva gli avvenimenti in una specie di flashback, che però è anche flashforth, visto che Werther prevede anche il futuro ménage Charlotte-Albert con tanto di figlioletto (... mah).

Questa idea dell’osservatore fuori-scena viene sapientemente sfruttata dalla regista alla fine del terz’atto: lei deve essersi resa conto che quel finale è - nel libretto e contrariamente a Goethe – quanto di meno plausibile si possa immaginare, con quell’accavallarsi di avvenimenti nel giro di pochi secondi; così ha ideato un’autentica genialata: niente domestico di Werther a recare il messaggio delle pistole, ma il biglietto lo lascia sul tavolino direttamente Werther prima di andarsene. Però ci si chiede: come faranno adesso le pistole ad arrivare in mano all'aspirante-suicida? Semplice: è la stesa Charlotte che, invece di consegnarle al domestico, le deposita direttamente sulla poltrona al proscenio dalla quale Werther ha osservato in flashback-and-forth gli avvenimenti, e sulla quale lei lo troverà poi già sparato!

Ambientazione di inizio ‘900, come conferma l’etichetta 1919 della bottiglia di grappa che il Werther, osservatore di passato e futuro, sorseggia seduto sulla poltrona in proscenio (il libretto non fa cenno, contrariamente a Goethe, alle attitudini libatorie del protagonista). Tutto ciò forse in omaggio all’epoca di massimo sviluppo delle teorie di Freud, anticipate da Goethe già a fine ’700. Suppellettili e costumi adeguati all’epoca. Il clavicembalo di Charlotte si trasforma in un minuscolo carillon, così anche il libretto viene adattato alla bisogna: Werther canta (e il display lo conferma) Voilà le carillon, al posto dell’originale Voilà le clavecin. I libri posti sul tavolino di casa si trasformano nel terz’atto in un’enorme libreria occupata da lussuosi tomi rilegati in pelle, mentre Ossian è relegato a paginette di un’agendina tascabile di Werther. Ma insomma, piccolezze.  

La Natura, tanto adorata da Werther, è rappresentata da foglietti di cartavelina che cadono dall’alto e da due altissimi alberi, che poi si riducono ad uno soltanto e di cui infine non resta che un tronco di... tronco, radici all’aria. 

Tutto sommato, pochi danni e va bene così. Anche per il pubblico!

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