Ieri pomeriggio terza recita del nuovo Werther bolognese.
Bibbiena piacevolmente affollato e, lo dico subito, entusiasta dello
spettacolo, guidato in scena da Rosetta
Cucchi e in buca da Michele Mariotti.
Occhi (orecchi, soprattutto) puntati sul mitico JDF, che non ha tradito le attese,
anche se in questo repertorio dà l’impressione di essere un pesce fuor d’acqua:
non certo perchè canti male, ma per la forse eccessiva assuefazione che abbiamo
noi, suoi ascoltatori, ad aspettarci sempre da lui i mirabolanti virtuosismi
rossiniani, che il tardo-romanticismo ha irrimediabilmente mandato in soffitta.
Insomma, il problema non è suo, ma nostro! Dopodichè stabilire graduatorie (meglio
Kraus? Kaufmann?) è esercizio che lascio volentieri agli specialisti (o
millantati tali): a me personalmente è piaciuto abbastanza come cantante e un
po’ meno come attore, sempre impacciato e poco credibile.
I suoi fan
non hanno perso l’occasione per osannarlo dopo Pourquoi me réveiller che,
essendo l’unica aria dell’opera degna
di questo nome, da sempre viene usata per celebrare il tenore di turno: fatto
sta che quell’applauso prolungato rovina irrimediabilmente la drammaticità
della scena (Massenet in quel punto non prevede alcuna pausa, arpa e archi
bassi devono continuare a suonare, gli strumentini riprendono subito la
melodia). Ma si sa, certo pubblico è lì per il fenomeno da baraccone, mica per
il dramma! E ieri l’insistenza è stata tale da convincere JDF al bis. Così, quasi per vendetta, il destino
ha voluto che il dramma, cacciato dal palcoscenico, si sia trasferito in platea,
dove una persona è stata colta da malore proprio durante le rumorose richieste
di bis: chissà se per l’emozione provocatale
dal canto di JDF o per lo spavento dovuto a tutto quel baccano. Sta di fatto
che sono dovuti intervenire gli addetti alla sicurezza per trasportare la
vittima fuori dalla sala, passando dall’uscita di emergenza posta proprio a lato
della buca. Mariotti ha visto, ma si è girato per attaccare il bis: insomma, una scena assai poco
edificante!
Isabel Leonard veste i panni, ma soprattutto dà la voce a
Charlotte e devo dire che se l’è cavata più che bene, mostrando belle qualità
vocali in tutta la gamma e restituendoci efficacemente tutta l’ambiguità di cui
Massenet (al contrario di Goethe) riveste il personaggio. Interessante, con
lei, anche la sorellina, la Sophie di Ruth
Iniesta, voce ben impostata e robusta, sempre a suo agio in questa parte
leggera e scanzonata.
Albert è interpretato da Jean-François Lapointe: senza infamia e senza lode la sua
prestazione, davvero in linea con la grigiosità (?!) del personaggio. Da
dimenticare il borgomastro di Luca Gallo,
vociferante invece che cantante. Bravi invece Alessandro Luciano, Lorenzo
Malagola Barbieri, Tommaso Caramia
e Aloisa Aisemberg nelle parti di
contorno. Encomiabili i sei piccoli fratellini di Alhambra Superchi.
Michele Mariotti non si scopre oggi:
sapiente la sua direzione, che ha esaltato le raffinatezze dell’orchestrazione
di Massenet; sempre precisi ed efficaci gli attacchi ai cantanti; fracassi mai
esagerati e invadenti.
Complessivamente mi è parsa una prestazione più che
accettabile.
___
Rosetta Cucchi
(coadiuvata da Tiziano Santi per le non
mirabili scene, Claudia Pernigotti per
i costumi anonimi e Daniele Naldi per
le luci, molto efficaci) ha proposto un’idea allo stesso tempo interessante e
abusata: il protagonista appare sin dal preludio seduto su una sedia al
proscenio, dalla quale osserva gli avvenimenti in una specie di flashback, che però è anche flashforth, visto che Werther prevede
anche il futuro ménage Charlotte-Albert con tanto di figlioletto (... mah).
Questa idea
dell’osservatore fuori-scena viene sapientemente sfruttata dalla regista alla
fine del terz’atto: lei deve essersi resa conto che quel finale è - nel
libretto e contrariamente a Goethe – quanto di meno plausibile si possa
immaginare, con quell’accavallarsi di avvenimenti nel giro di pochi secondi;
così ha ideato un’autentica genialata: niente domestico di Werther a recare il messaggio delle pistole, ma il
biglietto lo lascia sul tavolino direttamente Werther prima di andarsene. Però
ci si chiede: come faranno adesso le pistole ad arrivare in mano all'aspirante-suicida? Semplice:
è la stesa Charlotte che, invece di consegnarle al domestico,
le deposita direttamente sulla poltrona al proscenio dalla quale Werther ha
osservato in flashback-and-forth gli avvenimenti,
e sulla quale lei lo troverà poi già sparato!
Ambientazione
di inizio ‘900, come conferma l’etichetta 1919 della bottiglia di grappa che il
Werther, osservatore di passato e futuro, sorseggia seduto sulla poltrona in
proscenio (il libretto non fa cenno, contrariamente a Goethe, alle attitudini
libatorie del protagonista). Tutto ciò forse in omaggio all’epoca di massimo
sviluppo delle teorie di Freud, anticipate da Goethe già a fine ’700. Suppellettili
e costumi adeguati all’epoca. Il clavicembalo di Charlotte si trasforma in un
minuscolo carillon, così anche il libretto viene adattato alla bisogna: Werther
canta (e il display lo conferma) Voilà le
carillon, al posto dell’originale Voilà le clavecin. I libri posti
sul tavolino di casa si trasformano nel terz’atto in un’enorme libreria occupata
da lussuosi tomi rilegati in pelle, mentre Ossian è relegato a paginette di un’agendina
tascabile di Werther. Ma insomma, piccolezze.
La Natura,
tanto adorata da Werther, è rappresentata da foglietti di cartavelina che
cadono dall’alto e da due altissimi alberi, che poi si riducono ad uno soltanto
e di cui infine non resta che un tronco di... tronco, radici all’aria.
Tutto sommato,
pochi danni e va bene così. Anche per il pubblico!
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