Zhang
Xian
si ripesenta sul podio dell’Auditorium per il terz’ultimo
concerto
della stagione, che è anche il suo penultimo da Direttora Musicale de laVERDI. Il programma affianca due Rachmaninov (assai diversi fra loro) al Beethoven rampante dei primi
dell’800.
Si apre con un brano piuttosto
sconosciuto, quasi un’opera prima, La
roccia, che Rachmaninov
compose nel 1893, a 20 anni, appena diplomatosi al Conservatorio di Mosca.
Lavoro per la verità dalla forma abbastanza indecifrabile: Fantasia (come recita il frontespizio della partitura) ma anche Poema sinfonico, come dimostrerebbero le
due (neanche una) fonti di ispirazione citate dal compositore medesimo: un gran
nuvolone dorato che si posa di notte sul fianco di una roccia (versi di Mikhail Lermontov); ma anche un racconto di Cechov (Sulla strada) che
narra di un vecchio e una ragazza che si incontrano in una notte di tempesta,
prima che le loro strade si dividano...
La struttura del brano è – grosso modo –
tripartita: si apre con l’esposizione di tre gruppi tematici, che vengono
quindi ri-esposti (e sviluppati); il primo e il terzo occupano poi la sezione
conclusiva del brano. L’armatura di chiave presenta 4 diesis, ma il MI emerge
faticosamente, in mezzo a continue modulazioni. Proviamo a decifrarne il
contenuto seguendo l’intrepretazione di un venerabile direttore russo: Evgeny
Svetlanov.
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Sono gli archi bassi (con breve
intervento dei fagotti) a presentare – in tempo Adagio sostenuto - un primo tema
A dal carattere piuttosto
lugubre, che si innalza (dal pianissimo
verso il forte) per poi degradare (tornando
a pianissimo) verso il MI grave:
Possiamo immaginare – se proprio
vogliamo seguire il riferimento extra-musicale – che questo motivo evochi la
mole imponente della roccia che ci
sta di fronte.
A 48” un tremolo degli
archi alti - sul quale si innestano due incisi del secondo corno che richiamano
il picco (DO-SI) raggiunto nell’esposizione del tema A – prelude alla
presentazione nel primo flauto (Più vivo,
1’07”)
del tema B, in MI maggiore, che dovrebbe richiamare le soffici forme
della nuvola che avvolge la roccia:
Nuvola che successivamente (1’31”)
si arricchisce di nuove evoluzioni, rappresentate da tre ascese nei legni
(sostenute dal tremolo degli archi) ciascuna seguita da altrettante ricomparse
del tema B nei legni arrichito ora (nei primi due ritorni) da ampi
svolazzi dell’arpa (la brezza che muove i nembi?)
Ecco a 2’18” comparire in flauto
e oboe il tema C, di carattere languido e dolente (potrebbe forse evocare lo
stato d’animo non proprio sereno di un osservatore di fronte a quello spettacolo naturale...):
È esposto inizialmente nel modo minore di SI (dominante del MI di impianto) con i violini a sostenerlo con RE tenuto (i primi) e a crome sforzate (i secondi): si noti la dissonanza creata da questi RE con il DO# del terzo tempo della battuta, un segno di modernità e quasi di sfrontatezza del giovane compositore.
È esposto inizialmente nel modo minore di SI (dominante del MI di impianto) con i violini a sostenerlo con RE tenuto (i primi) e a crome sforzate (i secondi): si noti la dissonanza creata da questi RE con il DO# del terzo tempo della battuta, un segno di modernità e quasi di sfrontatezza del giovane compositore.
Il tema viene ampiamente
sviluppato da clarinetto e fagotti fino a sfociare, dopo una reiterazione in accelerando in corno e oboe, in una sua vigorosa
riproposizione (Allegro molto, 3’00”)
in SI minore, poi (3’14”) MI minore, quindi (3’20”) in SOL minore, e infine (3’27”)
ancora in SI minore di tutta l’orchestra. Ecco quindi un rallentando generale che ci porta (3’38”, Moderato) alla chiusura dell’esposizione, con la comparsa di un ponte
che introduce quello che di fatto si può definire uno sviluppo dei temi or ora presentati.
Siamo in effetti arrivati alla
sezione finale del brano: sono 14 battute sul tema A che riaffiora
negli archi bassi e porta, con un progressivo diminuendo (10’28”, Meno mosso) all’intervento di violini e viole che ripropongono il tema A
in modo sempre più insistente, fino ad un lungo e strascicato crescendo che ci conduce ad un’esplosione
(11’51”,
Allegro
moderato) dove il tema si dilata a dismisura, negli ottoni, per poi
degradare ancora verso il MI grave.
Qui (12’37”, Moderato) un tremolo degli archi con l’arpa in armonici ci conduce (12’44”)
ad una riapparizione, nel corno, del tema
C che sbocca (13’04”)
in un gran tonfo dell’orchestra, che si ripete ancora poco dopo (13’42”)
per lasciar spazio ad un reiterato succedersi di MI e infine (14’20”)
a due ultimi respiri del tema A, prima
della sommessa conclusione sull MI grave degli archi bassi, accompagnato da
sommessi rintocchi del timpano.
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Che dire, sarà
pure un Rachmaninov ancora acerbo, ma le promesse per un futuro di innovazione
c’erano tutte. La successiva Prima
Sinfonia in fondo confermava quel trend,
ma digraziatamente fu demolita già all’esordio da un’esecuzione (Glazunov sul
podio) a dir poco scandalosa, e così il povero Sergei rischiò addirittura la...
pelle e quando risorse a nuova vita era semplicemente un altro, ecco.
L’op.43, Rapsodia su un tema di Paganini,
arriva ben 40 anni dopo, nell’ultimo periodo di vita di Rachmaninov, caratterizzato
da un impegno sempre più rarefatto nella composizione. A proporcela (a quasi 4
anni di distanza dall’apprezzata interpretazione della Zilberstein)
è un ragazzino, il non ancora 24enne tulipano Lucas Jussen, che ha un fratellino di 20, Arthur, pure lui pianista.
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Si chiude con Beethoven e la sua Seconda: come la altre pari è spesso trattata alla stregua di un’opera
di transizione, se non di riflusso. Nulla di più errato, poichè invece ci si
trovano spunti di innovazione assolutamente rilevanti. La sua stessa durata (eseguendo
i da-capo) è inferiore soltanto a
quelle della nona e della terza ed uguaglia sesta e settima, tanto per
considerare un parametro magari non estetico, ma che testimonia della serietà con
la quale Beethoven affrontò questo impegno.
Ma le novità della sinfonia
non finiscono qui: a partire dal movimento iniziale, che apre à la Haydn, ma poi si prende grandi
libertà nei confronti della forma-sonata,
tanto come deviazioni dalla tonalità di base (RE) che per la ricapitolazione, che pare un secondo sviluppo.
E poi c’è una cosa che deve
aver fatto rizzare i capelli in testa non solo all’establishment, ma anche alla maggioranza
silenziosa dei frequentatori dei concerti: nel cesso il vecchio, nobile, caro,
innocente e pudico menuetto,
sostituito da un volgare, impertinente, plebeo e blasfemo scherzo!
E a proposito di cessi, è
leggenda metropolitana che il finale sia stato ispirato da... disturbi gastro-intestinali,
dei quali Beethoven soffriva assai (come non bastasse l’incipiente sordità) quando
componeva la sinfonia.
Insomma, senza esagerare
troppo si potrebbe dire che questa sia la prima eroica del nostro!
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