Ieri il Ravenna Festival ha ospitato nel palazzone De Andrè
(occupato peraltro a non più del 70% della capienza) una delle Orchestre
europee che più si son messe in luce negli ultimi anni, la Budapest Festival Orchestra, guidata da uno dei suoi fondatori,
Iván Fischer (famiglia di direttori, come il fratello Adam).
Il programma – lo stesso offerto appena la sera precedente al Marinsky di
SanPietroburgo! cambiava solo il solista – spaziava dalla Russia (occidentalizzata)
di Stravinski alla Boemia di Dvořák, passando per l’Ungheria di Liszt.
Concerto aperto dalle musiche per il balletto Jeu de cartes del 1936, tre mani a poker (Stravinski andava pazzo per quel gioco) dove i danzatori
impersonano appunto le carte: fra essi c’è una specie di dittatore (il joker) che vince le prime due mani, ma
viene detronizzato in quella decisiva da una scalareale di cuori. La musica, che contiene numerosi richiami e
citazioni (ad esempio al Pipistrello, all’ottava beethoveniana, al Barbiere...)
si fa apprezzare ovviamente anche senza i danzatori, qui grazie alla bravura
dei singoli (ottoni e strumentini) e dell’orchestra (la straordinaria
compattezza degli archi).
Orchestra che Fischer ha schierato alla tedesca (violini secondi al
proscenio) dislocando però i contrabbassi (4, poi 6 per Dvořák) proprio in alto, alle spalle di tutti, insieme a grancassa e timpani, dietro le (sole) due file di fiati. Scelta forse dettata
dalla particolare (e certo non straordinaria) acustica di un palazzo dello
sport.
Poi un altro
magiaro, il bravissimo 48enne
Dénes Várjon ha interpretato il Secondo concerto (se proprio lo si
vuol chiamare così...) di Liszt, sfoderando
grande tecnica nei passaggi più protervi della partitura, ma anche grande
sensibilità di tocco nelle liquide cascate di note che costellano l’opera. Un
paio di (mi è parso di percepire) note false non intaccano l’eccellenza della
sua prestazione, accolta calorosamente (con speciali applausi per la violoncellista
Monika Leskovar) e seguita dallo
schumanniano Von fremden Ländern und
Menschen.
Ecco infine (ma ci saranno altre... fini) l’Ottava del boemo. Qui l’orchestra deve proprio trovarsi a casa: il
pacchetto dei violoncelli è straordinario, splendido il flauto della Gabriella Pivon e impeccabile la tromba
di Zsolt Czegledi, per citare solo i principali artefici della trascinante esecuzione.
Fischer non
si nega a un bis, e ci riserva – a dimostrazione
che la sua orchestra è proprio una famiglia (il che da solo spiega l’eccellenza
dei risultati) - una sorpresa davvero impensabile: il nutrito gruppo in quota rosa si trasforma in uno splendido
coro per proporci, con l’accompagnamento degli archi dei maschietti, Hoře (Dolore) un duetto dall’op.38, sempre di Dvořák.
Ma non è ancora finita: da ultimo il saluto e la buonanotte con le Danze rumene di Bartók.
Nessun commento:
Posta un commento