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11 giugno, 2016

Iván Fischer e la sua Budapest incantano Ravenna


Ieri il Ravenna Festival ha ospitato nel palazzone De Andrè (occupato peraltro a non più del 70% della capienza) una delle Orchestre europee che più si son messe in luce negli ultimi anni, la Budapest Festival Orchestra, guidata da uno dei suoi fondatori, Iván Fischer (famiglia di direttori, come il fratello Adam).

Il programma – lo stesso offerto appena la sera precedente al Marinsky di SanPietroburgo! cambiava solo il solista – spaziava dalla Russia (occidentalizzata) di Stravinski alla Boemia di Dvořák, passando per l’Ungheria di Liszt.

Concerto aperto dalle musiche per il balletto Jeu de cartes del 1936, tre mani a poker (Stravinski andava pazzo per quel gioco) dove i danzatori impersonano appunto le carte: fra essi c’è una specie di dittatore (il joker) che vince le prime due mani, ma viene detronizzato in quella decisiva da una scalareale di cuori. La musica, che contiene numerosi richiami e citazioni (ad esempio al Pipistrello, all’ottava beethoveniana, al Barbiere...) si fa apprezzare ovviamente anche senza i danzatori, qui grazie alla bravura dei singoli (ottoni e strumentini) e dell’orchestra (la straordinaria compattezza degli archi).

Orchestra che Fischer ha schierato alla tedesca (violini secondi al proscenio) dislocando però i contrabbassi (4, poi 6 per Dvořák) proprio in alto, alle spalle di tutti, insieme a grancassa e timpani, dietro le (sole) due file di fiati. Scelta forse dettata dalla particolare (e certo non straordinaria) acustica di un palazzo dello sport.

Poi un altro magiaro, il bravissimo 48enne Dénes Várjon ha interpretato il Secondo concerto (se proprio lo si vuol chiamare così...) di Liszt, sfoderando grande tecnica nei passaggi più protervi della partitura, ma anche grande sensibilità di tocco nelle liquide cascate di note che costellano l’opera. Un paio di (mi è parso di percepire) note false non intaccano l’eccellenza della sua prestazione, accolta calorosamente (con speciali applausi per la violoncellista Monika Leskovar) e seguita dallo schumanniano Von fremden Ländern und Menschen.

Ecco infine (ma ci saranno altre... fini) l’Ottava del boemo. Qui l’orchestra deve proprio trovarsi a casa: il pacchetto dei violoncelli è straordinario, splendido il flauto della Gabriella Pivon e impeccabile la tromba di Zsolt Czegledi, per citare solo i principali artefici della trascinante esecuzione.

Fischer non si nega a un bis, e ci riserva – a dimostrazione che la sua orchestra è proprio una famiglia (il che da solo spiega l’eccellenza dei risultati) - una sorpresa davvero impensabile: il nutrito gruppo in quota rosa si trasforma in uno splendido coro per proporci, con l’accompagnamento degli archi dei maschietti, Hoře (Dolore) un duetto dall’op.38, sempre di Dvořák. 

Ma non è ancora finita: da ultimo il saluto e la buonanotte con le Danze rumene di Bartók.

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