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11 dicembre, 2021

Il Macbeth distopico

 

Livermore parte come se dovesse proporci un Macbeth di... Livermore (tipo la sua personale versione mafiosa dei Vespri siciliani) ambientato nel mondo della criminalità organizzata: è precisamente ciò che ci mostra proprio nelle prime sequenze dell’opera: due eroi salvatori della patria (hanno appena sbaragliato gli sbifidi cugini annessionisti inglesi) trasformati in due sicari alle prese con ceffi della cosca rivale! Apperò!

Certo, a parte i suoi Vespri, di trasposizioni di vicende che comportano scontri fra poteri (o fra uomini di potere) in squallide faide fra mafie e camorre ne abbiam viste a josa e non ce ne stupiamo più. Resta il fatto che trattasi di trasposizioni solo apparentemente intelligenti, in realtà superficiali e volte a stupire a buon mercato lo spettatore. Perchè, per quanto autoritari, assoluti, dispotici, sanguinari e ospiti di trame oscure per la conquista del potere, ambienti come la Corte di Scozia e quella d’Inghilterra hanno pur sempre lo status di istituzioni pubbliche: le mafie sono cose ben diverse e rispondono a tutt’altre regole.

Anche il castello di Macbeth è arredato pericolosamente in stile Casamonica, ma poi l’arrivo del Re e il suo indirizzo ai notabili sembrano rimettere un po’ le cose a posto, come se il regista fosse rinsavito (magari dietro consigli amichevoli) e così da lì in poi siamo tornati (quasi) a Shakespeare e ad una sana e corretta (si fa per dire, ma queste - come argutamente ci ricorda la Lady - erano le medievali usanze che noi scafati del terzo millennio non esitiamo a perpetuare) lotta per il potere. Però che il nuovo Re venga mostrato mentre personalmente organizza nei dettagli l’agguato a Banquo è cosa ridicola sia nei palazzi del potere che in quelli delle cosche: Piave e Verdi ci avevano spiegato tutto assai chiaramente poco prima, senza bisogno di queste didascaliche trovate del regista.   

Non ci scandalizziamo comunque se i costumi sono moderni (le armi un po’ meno, a dir la verità, ma d’altronde sostituire gli spadoni con pistole con silenziatore manderebbe in vacca mezza trama, vedi la visita della Lady sul luogo del delitto e soprattutto la sua aria del sonnambulismo, dove lei si gratterebbe... i residui di polvere da sparo) e se le scalate al potere (e conseguenti ricadute) avvengono in ascensori ottocenteschi.

Macbeth è un’opera che tratta di archetipi, non di banali storie medievali, quindi per definizione attualizzabile all’oggi. E sul versante, diciamo, politico, l’attualizzazione di Livermore è addirittura fulminante: la scena dell’esodo dei poveri Scots pare presa da un telegiornale di questi giorni che ci manda le immagini dal confine bielorusso-ukraino!

Peccato che invece Livermore non abbia pensato ad un parallelo altrettanto fulminante fra la creduloneria di Macbeth e consorte e quella di certi no-vax nostrani che si fidano di moderni stregoni... restando pedestremente fedele alle medievali streghe di Shakespeare.

L’opulenza dei mezzi impiegati ha garantito uno spettacolo epidermicamente godibile, ma in teatro assai meno che in TV (questo forse spiega i buh della prima... ieri il regista ha preferito non esporsi.) Ma del resto il grosso degli incassi di questa produzione è previsto arrivi dai diritti TV, dalla vendita di DVD e soprattutto da generose elargizioni degli sponsor, non certo dal botteghino dei teatri!

In definitiva, un allestimento che definirei in-significante, nel senso proprio del termine: che non apporta significati (e meno male che non ne apporta di diametralmente opposti rispetto all’originale). Uno spettacolo tutta forma e poco contenuto, applicabile probabilmente al 95% almeno delle opere di teatro musicale, da Rigoletto a Tristan.
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Le scelte filologiche di Chailly (ballabili e arioso finale di Macbeth) devo personalmente censurarle: che sia grande musica è fuor di dubbio, ma i 10 minuti di pantomima a casa delle streghe sono insopportabili come le fermate impreviste dei Frecciarossa in aperta campagna: magari hai di fronte un bel panorama, ma ti scoccia maledettamente di stare immobile (invece di andare a 300 all’ora per arrivare in 3 ore da Roma a Milano) e di farti sorpassare da un intercity scalcinato!

Quanto al Mal per me (ho potuto appurare navigando qua e là che Abbado effettivamente lo fece cantare a Cappuccilli nel 1975 e sul tema rimando i curiosi all’appendice al post) se Verdi nei 36 anni che gli restarono da vivere (dal 1865) mai tornò sulla decisione di reintrodurlo, una ragione ci sarà pure, credo. Ad esempio che non volle dare al personaggio quel risvolto patetico e strappalacrime - tanto melo-drammatico quanto anti-shakespeareiano - che si concede normalmente al tenore che, con la spada ancora conficcata nel petto, si rialza per cantare eroicamente l’ultima aria dell’opera! (Giustamente, invece, Otello quel regalo se lo meriterà...)

A giustificazione di questa scelta, Chailly cita un ritorno motivico fra il Preludio e le ultime battute dell’aria: sul verso Vil corona, vil corona... si odono due schianti orchestrali (FA minore - DO maggiore, tonica-dominante) che vengono dalle battute 24-25 del Preludio, dove separano l’esposizione del primo tema (quello delle Streghe) dal secondo (quello che introduce nel quart’atto il sonnambulismo della Lady). A me pare francamente una motivazione piuttosto debole: quelle due battute hanno una ben precisa funzione sinfonica nel Preludio, indipendentemente dal loro ritornare o meno nel corpo dell’opera.

Sul piano della direzione e concertazione nulla da dire, anzi molto, e tutto in positivo: all’appropriatezza delle agogiche (stacco di tempi) già positivamente giudicabile in TV si aggiunge l’attenzione alle dinamiche che il Direttore gestisce con assoluta cura, bilanciando sempre al meglio il suono della buca con il canto che arriva dal palco. Un lavoro di scavo nei dettagli della partitura che gli fa onore e gli merita l’applauso incondizionato che il pubblico (quasi da tutto-esaurito) gli ha tributato al rientro ed alla fine. Naturalmente è l’Orchestra poi a realizzare praticamente l’approccio interpretativo del Direttore, e anche ieri gli scaligeri hanno dato il meglio di sè: l’oboe di Fabien Thouand e il violoncello di Sandro Laffranchini sono le punte dell’iceberg di una prestazione davvero sontuosa.

Altrettanto dicasi del Coro di Alberto Malazzi, perfetto sia nel padroneggiare i complessi passaggi delle stregonerie che i grandi concertati che costellano la partitura. I piccoli del pensionato Bruno Casoni si sono pure fatti valere. Vengo alle voci, alle quali deve aver giovato l’esperienza della prima, nel senso di mettere ulteriormente a punto i rispettivi ruoli.

Luca Salsi ormai lo conosciamo bene (personalmente ho sentito dal vivo almeno tre suoi Macbeth, incluso quello del 1847) e anche ieri non si è smentito, riempiendo gli ampi spazi del Piermarini con la sua voce calda e penetrante, accompagnata da sapienti sfumature espressive.   

Anna Netrebko, un filino trattenuta a SantAmbrogio, ieri pare essersi liberata di paure e complessi e ha sfoggiato tutta la sua classe: si dice che Verdi volesse un’interprete più teatrale che musicale... beh, ascoltandola ieri forse si sarebbe ricreduto, ecco.

Ildar Abdrazakov ha iniziato, chissà, magari ancora un poco freddo, con un eccessivo vibrato, ma poi è uscito da par suo e ha dato spessore al suo ruolo, per di più facendo anche (come pretendeva Verdi) il morto che cammina (e, nella pantomima, si trascina pure il pargoletto attaccato al piede!)

Francesco Meli ha una parte effettivamente concentrata sull’aria e su un paio di concertati: ci ha comunque messo tutto se stesso, dando il suo prezioso contributo all’alto livello musicale di questa produzione.

Iván Ayón Rivas (lo sentivo dal vivo per la prima volta) è stato una bella sorpresa e credo che abbia tutte le carte in regola per far molta strada.

Chiara Isotton e Andrea Pellegrini rappresentano altre due perle di questa produzione: che si può permettere due voci così sontuose per due ruoli - sul piano quantitativo, sia chiaro - davvero marginali.

Tutti all’altezza del compito gli altri comprimari.

Che dire in conclusione? Un Macbeth musicalmente al top. Uno spettacolo tutto fumo e poco arrosto. Pubblico prodigo di ovazioni e - per mancanza di... bersagli - niente buh.
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Il giallo della morte di Macbeth in Abbado-Strehler   

Chailly, assistente musicale di Abbado ai tempi delle rappresentazioni scaligere del ’75-‘76, riferendosi alla sua odierna decisione di inserire prima del finale l’aria della morte di Macbeth (Mal per me...) cita proprio il precedente di 46 anni fa. Ma quell’aria fu davvero cantata (da Cappuccilli) sulla scena?

Ovviamente esisteranno molti testimoni oculari-auricolari dentro e fuori dal teatro che potrebbero confermarlo (o meno) ma chi, come il sottoscritto, non ebbe la ventura di assistere a nessuna di quelle rappresentazioni e deve quindi accontentarsi di ciò (moltissimo, ma non tutto) che passa il convento la rete, può interrogare principalmente le seguenti fonti informative: youtube, google-search, archivio storico della Scala e siti internet che vendono registrazioni ufficiali o più o meno rapinate (tipo diffusioni radiofoniche o simili).

L’Archivio storico della Scala ci fornisce intanto le seguenti informazioni ufficiali: la produzione in questione andò in scena nella stagione ’75-’76 (8 rappresentazioni fra dicembre e gennaio più tre a NewYork in tournée a settembre ‘76); poi nella stagione ‘78-‘79 (6 rappresentazioni fra aprile e giugno ’79); infine nella stagione ’84-’85 (7 rappresentazioni a maggio 1985). Un particolare interessante per le successive ricerche riguarda il cast: i tre ruoli principali sono sempre sostenuti da Cappuccilli, Verrett e Ghiaurov, mentre la parte di Macduff nel ’75-’76 (in Scala) fu sostenuta sempre da Franco Tagliavini (a NewYork si succedettero Ottavio Garaventa e Veriano Luchetti) poi nel ’79 il titolare fu sempre Luchetti e nell’85 cantarono Peter Dvorsky e Walter Donati. Altro indizio importante: il libretto dell’opera (verosimilmente parte del programma di sala dal ’75 in poi) non comprende l’aria in questione.

Veniamo ora a youtube: vi si possono vedere o ascoltare due recite: una sedicente (e falsamente, come si vedrà) del gennaio ’76 (trasmessa in video dalla RAI) e una (audio) certamente della ripresa del 1985 (18 maggio). In entrambe l’aria in questione non viene eseguita. Tuttavia scopriamo che il video RAI è erroneamente attribuito a gennaio ’76: ce lo dice la locandina che compare in testa (e poi in coda): Macduff è Veriano Luchetti! Quindi siamo per forza nel 1979, precisamente (come ci confermano sia l’Archivio Scala che la RAI) il 30 giugno (ultima recita).

A questo punto ci rimane il dubbio proprio sulla stagione ’75-’76: possibile che l’aria fosse cantata allora e poi mai più presentata (dallo stesso interprete della stessa produzione originale) nelle due riprese successive?

In effetti, allora fu cantata. Ne abbiamo due diverse fonti informative: la prima è l’edizione discografica della Deutsche Grammophon, con la quale Abbado aveva l’esclusiva, pure ascoltabile su youtube): stando alle informazioni sul CD, fu rilasciata inizialmente il primo gennaio ’76 (quindi a recite ancora non concluse!) e successivamente rimasterizzata. E qui - apriti sesamo - ecco magicamente comparire, nella penultima traccia del CD, Cappuccilli con il Mal per me!

Sempre dalle note allegate al CD scopriamo però alcuni dettagli interessanti, e pure... inquietanti: per prima cosa si tratta di una registrazione fatta in studio e non in teatro (mancano in effetti gli applausi); il tenore che interpreta Macduff è - ma guarda un po’ - il Topone Domingo! Ma soprattutto, sotto l’elenco degli interpreti troviamo le indicazioni Coro e Orchestra del Teatro alla Scala, Direttore Claudio Abbado e - ma riguarda un po’ - Wiener Philharmoniker!!!

Mammamia, conoscendo ciò che avveniva già allora (e a maggior ragione oggi) nelle sale di incisione e soprattutto nella post-produzione, dove si monta (leggi: taglia e cuci!) il prodotto da mettere in commercio, ci resta il dubbio che al Piermarini l’aria non si fosse proprio sentita, e che Chailly ricordi quindi solo le prove fatte in sala di incisione.

Invece è un sito semi pirata (HouseOfOpera) a portare la pistola fumante, la registrazione radiofonica (di infima qualità, incluso il black-out che taglia fuori metà del second’atto) della prima del SantAmbrogio 1975 dove l’aria è ben presente, contornata dagli applausi del pubblico.

Ma allora una domanda sorge spontanea: perchè nel ’79 (registrazione video RAI) e nell’85 (registrazione audio) l’aria non compare? Forse che Cappuccilli la cantò solo nel ’75-’76? Ma allora com’è che lui la cantò (e questo è certissimo) a Salzburg nel 1984 con Chailly e i Wiener, per poi tornare ad escluderla un anno dopo in Scala? Domande che restano senza risposta, salvo il sospettare che qualche interesse (e qui il sospettato n°1 è la Deutsche Grammophon) non abbia imposto a tutti una specie di copyright - quindi un veto - sulla diffusione di quel brano...  

Ed è ciò che vien da sospettare prendendo ad esempio proprio la registrazione RAI del ’79. Un acuto commentatore del video su youtube ci fa osservare che l’audio della chiusa dell’aria del sonnambulismo (Verrett) sembra in realtà prelevato dal CD della Deutsche Grammophon, e io aggiungo che non vi si sente alcun applauso, cosa semplicemente incredibile! Per di più, uscita la Verrett di scena, l’inquadratura torna su un Abbado che ha tutta l’aria di riprendere a dirigere dopo un po’ di tempo (appunto: gli applausi alla Verrett). Ma quindi, insomma: se il video RAI è stato oggetto di taglia-e-cuci in quel punto, chi ci dice che anche l’aria di Cappuccilli non sia stata tagliata in studio? Torniamo a guardare quel video al momento della zuffa fra Macbeth e Macduff: Cappuccilli e Luchetti vanno a confrontarsi armi in pugno sull’estremo fondo-scena, addirittura scomparendo dentro la foresta (vera o posticcia) di Birnam. A questo punto però l’inquadratura passa sulla buca e su Abbado, che dirige il breve postludio seguito al ferimento di Macbeth. Poi dà un attacco e l’inquadratura torna sulla scena per il finale trionfo. Domanda: chi ci assicura che, durante il citato postludio, Cappuccilli non sia tornato sulla scena per poi cantare l’aria, tagliata in studio?

Ecco, come nel gioco dell’oca, siamo tornati alla casella zero: solo testimoni oculari-auricolari (dentro e fuori dal teatro) potrebbero darci smentite o conferme riguardo le altre 23 rappresentazioni (incluse le 3 di NY) andate in scena dopo la prima di quell’ormai lontano 7/12/75.

1 commento:

Anonimo ha detto...

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