La chiusura
della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano è affidata
a Wayne Marshall per il podio e a Maurice Ravel per i contenuti
del programma. Programma assai simile a quello che lo stesso
Marshall presentò il 21 novembre 2014, con l’unica differenza costituita dal
Bolero che oggi rimpiazza Daphnis.
Il pezzo di apertura è quindi Alborada del gracioso (generalmente tradotto come serenata mattutina del giullare, ma che forse sarebbe più corretto definire del gaudente…) quarto dei 5 Miroirs per pianoforte composti nel 1905 e trascritto per orchestra nel 1918.
Questa di Ravel è una Spagna immaginaria perché… immaginata (forse sulla base dei racconti della madre) ma non per questo meno suggestiva ed accattivante. Si tratta di un brano tripartito, nel quale con un minimo di immaginazione possiamo distinguere: a) una classica festa (Assez vif) che si protrae per buona parte della notte, con classiche sonorità spagnoleggianti, chitarra, castagnette e ritmo di seguidilla; b) seguita dal sonnacchioso risveglio (Plus lent) del gaudente che vi aveva danzato e cantato (cui dà voce il fagotto); c) e che ne rievoca quindi (Au mouvement) le spensierate atmosfere.
Ecco quindi Kirill
Gerstein, 43enne russo emigrato in USA e residente a Berlino (eh, la
globalizzazione…) presentarsi per interpretare, uno dopo l’altro, i due
concerti pianistici composti quasi contemporaneamente, a cavallo del 1930,
quindi nell’ultimo periodo della produzione di Ravel.
Per la verità
Ravel stava già lavorando al suo Concerto in SOL, un lavoro improntato
ad ottimismo e serenità, con ampio spazio dedicato alla musica d’oltreoceano,
con la quale era venuto in stretto contatto grazie alle tournée americane. Ma
nel bel mezzo della composizione arrivò la commissione dello sfortunato quanto ricco pianista Paul
Wittgenstein, tornato anni addietro dal fronte ukraino della Grande Guerra
(e dalla conseguente prigionia in Siberia) con il solo braccio sinistro…
La decisione di imbarcarsi nell’avventura di comporre un pezzo per la sola mano sinistra (là dove avevano fatto cilecca Strauss, Prokofiev e Britten, tanto per far dei nomi illustri) deve averlo costretto per forza di cose a immaginare un soggetto assai diverso da quello sul quale stava lavorando. Un po’ come capitò a Beethoven che, componendo quasi contemporaneamente la sua 5a e la sua 6a (eseguite in prima nello stesso concerto del 22 dicembre 1808!) si vide praticamente obbligato a indirizzarsi su due contenuti contrastanti: uno drammatico e l’altro pastorale.
Per qualche plausibile ragione Gerstein ha affrontato per primo il lavoro che impegna… entrambe le mani, il Concerto in SOL. Come detto, il lavoro fa tesoro della lunga esperienza americana di Ravel, che aveva girato gli USA in lungo e in largo ed era quindi venuto a contatto diretto con la musica di laggiù (quantunque il jazz fosse già ampiamente di moda anche a Parigi) passando anche diverso tempo con Gershwin. E ascoltando il clarinetto piccolo esporre il motivo in FA# uno non può non pensare appunto a Gershwin e all’attacco della Rapsody in Blue.
Tutto il concerto (a parte l’Adagio) mostra chiare influenze jazzistiche, con ampio uso di ritmi sincopati; nell’iniziale Allegramente sentiamo anche del blues, mentre il lungo centrale Adagio assai è noto per aver impegnato Ravel fino alla consunzione fisica (parole sue). Una vera perla il lungo, bellissimo intervento del corno inglese.
Il breve Presto conclusivo è una palestra di virtuosismo, e non solo per il pianista. Ad esempio, i due fagotti sono chiamati, nella sezione centrale, ad autentiche acrobazie, con inebrianti volate di semicrome, e lo stesso avviene verso la fine per tutti gli strumentini.
Dal punto di vista tecnico, Ravel ha cercato in tutti i modi di dissimulare la presenza di una sola mano, con una scrittura davvero innovativa che – impegnando il solista al massimo – dà l’impressione che il suono provenga da tasti percossi da entrambi gli arti, cosa che per molti osservatori e interpreti ha quasi del miracoloso!
[I rapporti fra autore ed interprete non furono propriamente idilliaci e finirono nientemeno che con minacce di cause in tribunale: restano un esempio lampante dell’eterna diatriba relativa al rispetto che l’interprete deve alla lettera della composizione così come scritta sulla carta. Dato che Wittgenstein per un’esecuzione privata del Concerto a Vienna (presente Ravel) si era permesso interventi non marginali sulla partitura (modifiche non solo alla parte solistica, tagli e altre libertà) Ravel lo aveva subito apostrofato per lesa-autorità e gli aveva poi chiesto un impegno scritto al rispetto scrupoloso della partitura, pena la revoca della dedica del Concerto e l’intimazione a non eseguirlo mai più. Il pianista rispose con argomentazioni inoppugnabili, del tipo: ma allora, se anche per involontario errore sbagliassi una nota, dovrei per questo essere punito? Insomma, l’interprete rivendicava il diritto, per non dire il dovere, ad eseguire il brano secondo la propria sensibilità. Beh, fortunatamente il contenzioso andò via via depotenziandosi e alla fine i due si ritrovarono insieme, uno sul podio e l’altro alla tastiera, per la prima esecuzione a Parigi, il 17 gennaio del 1933.]
Il Concerto è in un solo movimento, anche se vi si distinguono alcune sezioni (chi dice due, altri più credibilmente tre) in agogica cangiante: la prima (Lento) ha un carattere grave e cupo, con quell’introduzione affidata quasi esclusivamente agli arpeggi dei contrabbassi che preparano la strada al controfagotto nel registro grave, che espone una lunga melopea puntata, per lasciare poi il posto ai corni. Questi espongono un nuovo motivo – siamo in RE minore – dal moto discendente e cedono poi strada ai clarinetti, quindi agli altri fiati e archi, infine ad un progressivo crescendo che sfocia in un accordo generale sulla dominante LA.
Qui una prima (relativa) sorpresa, che pare avesse indispettito lo stesso Wittgenstein: il pianoforte si presenta da solo, direttamente con una lunga cadenza aperta da una poderosa introduzione e poi basata sul motivo puntato, il quale viene successivamente ripreso a piena orchestra e con splendenti sonorità (quasi da musical…)
Nuovo
intervento (Più lento) languido e sognante del pianoforte, che poi (Andante)
dialoga con l’orchestra (in particolare con il corno inglese) sul primo tema fino
a portare alla seconda sezione del concerto, in Allegro.
Sezione
dal piglio decisamente marziale, ostinato (chissà, forse ad evocare la vita del
soldato al fronte). Peraltro vi troviamo elementi di chiara provenienza
jazzistica, un lungo passaggio con interventi del solista e di strumenti
diversi a proporre nuovi motivi di carattere più spensierato, ma anche una triste
melopea del fagotto.
Dopo
una grande accelerazione, dove si sentono quasi degli accenti del Bolero
(scritto solo due anni prima) il tempo torna a calmarsi, e qui orchestra e
solista dialogano accanitamente, in un’atmosfera davvero eroica, finchè si arriva
(Tempo primo) alla virtuosistica cadenza conclusiva del pianoforte, che
ricapitola i vari motivi del Concerto, e alla ripresa orchestrale che conduce
in modo lussureggiante alla chiusa, che arriva su 5 battute di crome
martellanti dell’intera orchestra.
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IIeri sera – a meno che io non stessi sognando o fossi ubriaco - abbiamo ascoltato un Bolero-Abarth! Escludendo che si sia trattato di iniziative spontanee dei ragazzi, devo pensare che sia stato il dissacratore (in senso buono!) Marshall a invitare le prime parti dei fiati, che espongono le melodie dei due temi, ad impreziosirle (per così dire) con personali abbellimenti. Il che ha sortito francamente effetti contrastanti (a volte si aveva la sensazione di… stonature o incespicamenti, ecco). Ma in fondo è un po’ come alla fine di un anno scolastico, dove agli studenti si concede un po’ di meritata libertà.
In ogni caso il trionfo non è mancato e non c’è bisogno di descrivere l’accoglienza delirante del pubblico.
Ora ci si comincia a preparare per la nuova stagione, che si aprirà, come sempre, alla Scala domenica 10 settembre e che – fra fine ottobre e metà novembre – accoglierà l’attesissimo Festival Mahler (Ottava compresa, in Duomo)!
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