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19 maggio, 2010

A Bologna una Carmen havanera


Ieri a Bologna la Carmen con il secondo (?) cast. In realtà la parte del protagonista, come annunciato a inizio-recita, resta sulle spalle del titolare Andrew Richard, invece che su quelle della riserva Raffaele Sepe.
Allestimento proveniente dall'est (Lituania) regìa di Andreys Žagars e ambientazione a Cuba, come lascia intendere da subito il pre-sipario dipinto con gli inconfondibili colori della bandiera di quel Paese. Visto che, a proposito della recente Carmen scaligera, Barenboim aveva richiamato un triangolo (Spagna-Africa-Cuba) viene spontaneo fare della dietrologia e immaginare qui un triangolo rosso: Riga-Bologna-Havana... ai tempi di Brezhnev (?)
Vedremo poi – sembra incredibile – come questa paradossale ambientazione sia assai meno deformante, rispetto all'originale, di quella pretenziosa, cervellotica e incompetente che ci è stata di recente propinata da sua maestà il Teatro alla Scala. E sarei pronto a scommettere che sia costata una piccola frazione del capitale speso da Lissner, fornendo nel complesso un risultato migliore: secondo i sedicenti parametri virtuosi di Bondi, a Bologna dovrebbero andare in proporzione il doppio dei fondi che a Milano! Altra nota positiva: la partecipazione del pubblico. Il Comunale di Bologna sarà pure un teatrino, ma ieri sera era praticamente colmo, proprio come se il pubblico volesse stringersi attorno a chi quel teatro fa vivere per fargli sentire il suo sostegno, in tempi assai grami.
Allora, a Cuba! La manifattura, sullo sfondo, con un gran lider-maximo imbracciante un mitra dipinto sulla facciata, ornata di scritta patriottica (cadente); volantini che scendono con slogan inneggianti il socialismo, gente abbigliata di conseguenza ed anche qualche filo spinato a ricordarci che non è tutto oro ciò che luccica. Micaëla arriva in bicicletta e José, invece che alla sua spilletta, è indaffarato attorno ad un antidiluviano sidecar militare made-in-DDR. Nel secondo atto saremo al Bar-Sevilla (per ricordarci qualcosa?) con foto del Che in bella vista. Nel terzo vedremo in scena un catorcio tipo Buick degli anni di Batista che servirà da mezzo di locomozione (e da alcova, vero Dancaïre?) ai contrabbandieri (e saremo sul molo dell'Avana, invece che sui monti andalusi). Nel quarto atto saremo fuori da un malandato impianto sportivo del regime, dove Escamillo (che è un pugile, datosi che a Cuba la corrida è da tempo proibita, mentre la boxe è sport nazionale) si prepara a trionfare sul ring.
Orbene, se si esclude la bizzarrìa di questa ambientazione, per il resto la regìa è quanto di più rispettoso si possa immaginare dello spirito dell'opera (libretto e musica). A partire dalla scena iniziale, illuminatissima e ben rappresentante l'atmosfera descritta da Meilhac-Halévy e splendidamente musicata da Bizet: una piazza dove regna una sana e ordinaria confusione. La taverna di Pastia del secondo atto è precisamente un bar piuttosto popolare, dove troviamo allegria e gioia di vivere, frammisti ai traffici piuttosto loschi del Dancaïre e soci.
I personaggi si muovono in modo naturale, senza eccessiva affettazione, se si esclude forse la Micaëla, qui presentata all'inizio come un poco sbarazzina e un poco stupidella (ma sempre meglio che bigotta o santarellina) che però si riscatta nel drammatico intervento nel terzo atto. Carmen ha quella giusta dose di volgarità che si addice ad una gitana (che non è certo una professionista di flamenco) e quell'ostinazione viscerale e fatalistica che la portano alla rovina. Ben centrato anche José, un ragazzo apparentemente maturo, che invece passa dall'iniziale serenità dei buoni propostiti alla totale catastrofe determinata dalla sua infatuazione per la gitana. Escamillo è sì un tipo spavaldo, ma che mai eccede in gratuite spacconerie. Gli altri personaggi sono ben calati nei rispettivi ruoli.
Ecco, in definitiva, una regìa affatto propensa ad interpretazioni cervellotiche (Cuba a parte); né ad introdurre elementi estranei all'originale. Insomma, ci presenta (quasi) esattamente ciò che leggiamo sul libretto! Capìta l'antifona, cari Dante&Peduzzi?
La prestazione musicale mi è parsa di livello più che dignitoso. La versione impiegata era quella di Oeser, quindi non la più moderna, ma pur sempre materia prima originale e non adulterata (tipo Guiraud, per intenderci). Recitativi peraltro decimati, forse più del solito, cosa tale da far perdere il senso dell'azione, in un paio di momenti, a chi non ha perfettamente in testa la vicenda. Sul fronte delle note, oltre all'iniziale pantomime, che ormai sembra essere considerata come un refuso, altri tagli più o meno giustificati, come la prima strofa - quella che si sente da lontanissimo - dell'arrivo di José nel secondo atto, con annesso recitativo. E a proposito di Mariotti, per me si merita comunque un bel 7+ per la cura con cui ha sempre condotto l'orchestra in funzione del canto; il modo poi con cui ha affrontato alcuni particolari, oltre che i quattro preludi, testimonia di una grande sensibilità e profondità di lettura. Efficacissimo il suo crescendo nella chanson bohème, dove Bizet prescrive un metronomo accelerante da 100 semiminime (andantino) a 108 (sul primo tra-la-la-la) poi a 126 (animato, sul secondo tra-la-la-la) quindi a 138 (plus vite) e infine a 152 (presto) per l'orgiastica conclusione. Insomma, un Kapellmeister che – a 31 anni – promette assai bene. L'orchestra lo ha seguito benissimo, in specie gli strumentini, che hanno parti fondamentali in quest'opera (perdoneremo un paio di stecchine degli ottoni).
Carmen era Nora Sarouzian (che a dispetto del nome orientaleggiante è franco-canadese): già sentita qui nella Salome, in una parte minore ma non banale (il Paggio) ha mostrato una voce assai potente, anche se come Carmen dovrà ancora crescere (ma avrà occasione di farlo con i suoi prossimi impegni) in specie nell'espressività, oggi ancora così-così, oltre che nella precisione di certi attacchi, dove è parsa talvolta un po' calante.
José, come detto, ancora il titolare Andrew Richards. Voce stentorea, da tenore eroico-verista, che lascia un po' a desiderare nei difficili passaggi del duetto con Micaëla, mentre pare più sicuro ed efficace nei momenti più drammatici. Una prestazione comunque da apprezzare.
Escamillo era il bulgaro Deyan Vatchkov. Fisico e presenza davvero notevoli, gli perdoneremo la pronuncia non impeccabile (vedi toreiador…) a fronte di una prestazione di tutto rispetto. Migliorabile, soprattutto nei suoni alti, un po' forzati, ma insomma, non canta tanto peggio di gente che si vede sulle copertine patinate di riviste glamour!
La Micaëla di Beatriz Diaz è stata, come detto, forse troppo caricaturata dal regista (nel primo atto). Vocalmente se l'è cavata in modo dignitoso, sia nel duetto del primo atto, ma soprattutto nella sua esternazione del terzo.
Frasquita e Mercedes (Anna Marìa Sarra e Giuseppina Bridelli) hanno assolto bene il loro compito: negli interventi del secondo atto e – soprattutto – nella scena delle carte del terzo (dove compare, sui parlez-parlez, una citazione - involontaria? - delle Allegre comari di Nicolai).
Efficaci, vocalmente e senicamente, Mattia Campetti e Antonio Feltraccio nei ruoli del Dancaïre e del Remendado. Bravi, insieme alle tre gitane, nel difficile concertato del secondo atto. Come pure Alexey Yakimov (Zuniga) e Benjamin Werth (Morales) che hanno parti secondarie, ma per nulla irrilevanti.
Bravissimi i piccoli del coro di Silvia Rossi nei due difficili interventi (primo e quarto atto) e sempre all'altezza i grandi di Paolo Vero.
Applausi a scena aperta dopo le principali arie, e gran trionfo per tutti alla fine, col palco invaso anche dagli orchestrali e sul quale è sceso, e da tutti additato, l'articolo della nostra Costituzione che reclama più rispetto da Bondi&C.

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