apparentamenti

consulta e zecche rosse

08 dicembre, 2008

Un altro con idee chiarissime...


“...ognuno degl’interpreti, fatta salva la Zajick e in parte il basso Furlanetto, ...canta la sua parte come stesse leggendo l’elenco telefonico”

Un simpatico modo per dire che Neill, la Cedolins e Jenis (si, caro Paolo, Jenus sull’elenco telefonico non si trova, ...ma certo la colpa è del tipografo) hanno dato i numeri?

6 commenti:

mozart2006 ha detto...

Beh,stavolta Isotta ha perfettamente ragione,ed é stato anche abbastanza signore da non infierire.E´verissimo che l´unica critica da scrivere sarebbe."Ottimo l´assolo del violoncello".

mozart2006 ha detto...

Posso solo aggiungere che qui a Stoccarda abbiamo almeno cinque o sei baritoni e bassi molto migliori di Furlanetto e di quel tal Jenis.Solo che qui una poltrona si paga al massimo 80 Euro!

daland ha detto...

Gianguido,
cosa vuoi, noi invece qui siamo speciali in tutto, a partire dal primo cittadino!
(ma la simpatica Angela come lo descrive ai suoi nipotini?)

gabacca ha detto...

A leggere i principali quotidiani di oggi, Lissner e Daniele Gatti hanno incassato senza batter ciglio l'accusa di essere dei mafiosi lanciata dall'ineffabile Isotta sul Corriere di ieri. L'apologo sul negoziante del Sud paragonato a Filianoti non si presta a dubbi interpretativi: alla Scala comandano dei mafiosi.
Mi aspettavo una querela a tamburo battente o un divieto a frequentare il teatro come giornalista (come cittadino può sempre comprarsi i biglietti).
Ma quello che mi sconcerta sempre di più è il direttore Paolo Mieli che si tiene un simile figuro, arrivato al punto di ipotizzare un accordo tra Alban Berg e il nazismo se fosse sopravvissuto oltre il 1935, a capo della critica musicale del Corriere.
So che ho poche probabilità di essere letto dagli interessati, ma agli intimi ci tenevo a sottolineare il fatto.
Sul Don Carlo scriverò domani dopo averlo sentito e visto in teatro. Della radio non ci si può fidare più di tanto. Dell'Otello di Muti e del Don Carlo hanno fatto due trasmissioni tecnicamente completamente diverse: l'orchestra di Muti era in sottofondo, mentre quella di Gatti no. Meglio toccare con mano.

sarastro ha detto...

Io ho visto la generale con il secondo cast e Neill come protagonista; devo dire che dal punto di vista scenografico e registico è stata una delusione tremenda.
Il secondo cast non mi è piaciuto per niente, salvo solo la Carosi.
A me Gatti è piaciuto, non ha il temperamento di Muti, per me interprete di riferimento per Verdi, ma il suo Don Carlo è sicuramente buono.
Questa sera sarò in teatro per il primo cast. Speriamo...

gabacca ha detto...

Finalmente ieri sera si è sentito Don Carlo senza le isterie e la gazzarra premeditata di Sant'Ambrogio.
Dico subito che il protagonista assoluto della serata è stato Daniele Gatti, con una direzione tesa, cupa nei colori come è tutta l'opera, di grande energia nei momenti dovuti (es. autodafé), ma al tempo stesso di raffinato e tragico lirismo come nel preludio atto III e nell'accompagnamento della scena e cantabile di Filippo II o negli accordi finali "in morendo" disturbati dal solito precoce applauso del pubblico.
Continua anche l'estrema attenzione alle esigenze di accompagnamento dei singoli cantanti. L'orchestra ha assecondato Gatti in modo stupefacente, dopo le deludenti performance degli ultimi mesi. L'attacco dei corni nel preludio perfetto anche nei pianissimi! L'assolo del violoncello commovente. Possente anche la prestazione del Coro guidato dall'ottimo maestro Casoni, che penso abbia preparato anche i sei magnifici Deputati fiamminghi. Peccato che la voce dall'alto fosse chissà dove negli spazi iperuranii del palcoscenico Botta.
Della compagnia si può dire che veramente nella parte erano Furlanetto, che ha dato vita a un Filippo tormentato e struggente, reso a mio avviso erroneamente decrepito dalla regia; la Cedolins, che forse si è un po' risparmiata nella prima parte in attesa delle grandi difficoltà del terzo e quarto atto: "Tu che le vanità" è stato attaccato nella prima strofa con una leggera forzatura, poi corretta in un canto di grande dolorosa dolcezza, continuato in modo mirabile anche nel duetto finale con Don Carlo; Dolora Zajick, disturbata da un tutore al braccio infortunato durante le prove, nella grande scena del III atto (nei precedenti c'era un che di volgarotto nel suo canto comunque possente); il Frate da elogiare incondizionatamente. Degli altri, a mio avviso assolutamente incompatibili con il canto verdiano per fraseggio, intonazione, intensità espressiva il pur grande Kotcherga come Grande Inquisitore e il (non)baritono Jenis. Il tenore un po' baritoneggiante (quando duettava con Posa non si capiva chi era il tenore e chi il baritono) Stuart Neill, che sosteneva il ruolo del titolo, è dotato di voce imponente ed estesa, pari alla mole corporea, ma di scarsa mobilità timbrica ed espressiva, salvo nel duetto finale in cui ha cantato molto bene insieme alla Cedolins, di cui si è già detto.
Molte perplessità mi ha destato l'allestimento scenico. Braunschweig e anche Gatti avevano detto alla radio che la scelta dell'edizione italiana in 4 atti era volta a mettere in risalto il conflitto politico-religioso e la solitudine di Filippo. Ma allora perché infiorettare una scena poverissima con i ragazzini, doppi di Carlo, Rodrigo ed Elisabetta, che ricordano l'atto omesso di Fontainebeau, l'amicizia infantile di Carlo e Rodrigo (che è presente nel dramma di Schiller ma non nell'opera di Verdi), l'età adolescenziale dei due amanti repressi, che corrisponde alla datazione storica, ma non alla drammaturgia né schilleriana né verdiana? Perché il Carlo bambino si lega a uno dei pali dei condannati, per volare in cielo all'inizio dei rogo?
Non mi ha scandalizzato il look anni trenta del coro: in fondo l'alleanza reazionaria tra il potere politico e la chiesa durava in Spagna anche alla fine di quegli anni, soprabiti d'ordinanza a parte. E ancora: Filippo ed Elisabetta sono entrambi personaggi di assoluta linearità di comportamento e di grande tormento interiore: spietato il primo, di assoluta integrità morale la seconda, ma Filippo, sia pure pentito, che coccola Elisabetta svenuta finché lei rinviene e inizia la scena con Eboli, proprio non me lo aspettavo. L'autodafé non aveva nulla della festa popolare che all'epoca, ahimé, rappresentava ed è stato risolto con una rudimentale luce rossa di fondo, così come rudimentale era il pavimento verde dei giardini della Regina nell'incontro Carlo-Eboli. Inguardabile infine il finale con una balena stesa in mezzo al proscenio sul sarcofago di Carlo V, che lo nasconde agli astanti, ma non al pubblico, con un'ala nera da pipistrello; bastava riguardarsi il filmato del finale viscontiano di Roma (quello con la Callas) per trovare uno spunto plausibile per il bislacco finale dell'opera. Insomma, ho rimpianto la essenziale linearità della Jenufa di Brauschweig di due anni fa.
Ma la direzione di Gatti da sola, con quell'orchestra e quel coro, valeva la serata.