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31 gennaio, 2011

Parsifal al Regio di Torino



 
Dopo il Boris, questo Parsifal è l'altro (per me) grande appuntamento della stagione del Regio di Torino. L'allestimento – con qualche variante - è quello presentato nel 2007 al SanCarlo: regìa di Federico Tiezzi e scene di Guido Paolini.

 
La ripresa radiofonica della prima del 26 scorso aveva lasciato davvero un'impressione sontuosa, che è stata pienamente confermata dalla rappresentazione di ieri pomeriggio.

 
Non saprei come aggettivare la prestazione di Kwangchul Youn, tale è stato il livello di assoluta nobiltà raggiunto dal basso coreano: chissà, forse sono proprio le sue origini orientali a permettergli di calarsi tanto profondamente nello spirito (ma anche nel fisico, proprio da ieratico monaco nepalese) del personaggio di Gurnemanz e dell'opera. Semplicemente grandioso!

 
Christopher Ventris ci ha portato qui Parsifal direttamente dalla sua Betlemme di Bayreuth, e dono migliore non ci poteva fare: non una smagliatura in un'interpretazione impeccabile.

 
Christine Goerke è stata una straordinaria Kundry: riuscire a cambiare letteralmente la voce – non soltanto gli abiti – per portarci le sue diverse reincarnazioni è cosa riservata solo a poche, e lei è da annoverare di diritto nel novero di quelle poche.

 
Jochen Schmeckenbecher è un Amfortas più che dignitoso, e del resto nessuno può pretendere che tutto e tutti siano perfetti. È soltanto la (quasi) perfezione dei tre protagonisti succitati che ce lo fa apparire un filino al di sotto!

 
Lo sbifido Klingsor era Mark Doss, beniamino del pubblico torinese. Valgono per lui le considerazioni fatte per Amfortas.

 
Il navigato Kurt Rydl ha interpretato da par suo la parte breve ma impegnativa del vegliardo Titurel (uno che abita direttamente in un sarcofago, così, tanto per facilitare le operazioni al suo funerale, smile!)

 
Non elencherò nei dettagli cavalieri, scudieri, fanciulle-fiore e voce dall'alto. Non per fargli uno sgarbo (la locandina è doverosamente linkata) ma perché cumulativamente li associo in un bravi! Insieme ai diversi cori guidati da Claudio Fenoglio, che ha già saldamente in pugno il testimone passatogli da Gabbiani, volato a Roma.

 
Bertrand de Billy, sconosciuto come minimo, e addirittura snobbato da taluni, ha invece fatto ai miei occhi un figurone. Intanto perché tiene tempi non esasperanti (non ha toccato le 4 ore) ma allo stesso tempo non cerca di imitare in velocità il suo connazionale Boulez (smile!) Poi perché mostra di saper padroneggiare questo behemoth – e l'orchestra che lo deve suonare - in modo sicuro e autoritario.

 
Merito ovviamente anche dei professori, che non hanno mostrato neanche una sbavatura in tutto il pomeriggio. Suono sempre pulito e discreto, che arriva proprio come da un altro mondo, mai a coprire le voci sul palco. Così come i cori di fanciulli e ragazzi, che cantano fuori scena, lasciando un effetto emozionante.

 
Un autentico trionfo, a fine degli atti, e un'apoteosi a fine opera. Pubblico a dir poco in delirio (fin troppo, forse, quanto a fretta nell'applaudire).

 
L'allestimento di Tiezzi-Paolini (coadiuvati da Giovanna Buzzi per i costumi e Luigi Saccomandi per le luci) non era una novità, ma ha confermato quanto di buono si era detto e scritto dopo l'esperienza napoletana. Nessun velleitario o fantasioso Konzept, cui adattare, magari distorcendolo, l'originale, ma una visione – per me – assolutamente laica di questo capolavoro, troppo spesso trattato alla stregua di una volgare (mi scuseranno i credenti) messa cantata.

 
Dell'intima natura del Parsifal si sono date mille diverse interpretazioni, e ciascuno di noi può legittimamente prediligere una o l'altra o l'altra ancora. Per me, Parsifal è tutto fuor che una parodia – o un'apologia, come pensò bizzarramente e perfidamente tale Nietzsche - di riti cristiani o addirittura cattolici, né un inno al pietismo e all'ingenuo volemmose-bbene; è tutto fuor che un'apologia razzista dell'antisemitismo; è tutto fuor che un libello contro l'omosessualità e la prostituzione. Io credo (e cerco di sviluppare questa tesi più compiutamente in appendice a questo post) che Parsifal ponga - in modo (per Wagner) definitivo - la questione del ruolo dell'Arte e dell'Artista all'interno dell'umana società, sempre più straniata fra una religione autoreferenziale e una scienza tracotante.

 
Ecco perché sono stato da subito piacevolmente colpito dall'ambientazione, che sembra indirizzarci verso questa prospettiva di fruizione del Parsifal: il sipario trasparente già ci introduce a geometrie e prospettive del pensiero (la curvatura dello spazio?) e poi si solleva proprio su un luogo dove convivono Arte e Scienza (statue e libri) in casa della Religione. E dove le imprese di Parsifal sono da subito e visibilmente rappresentate come opere di un artista: il cigno morente è letteralmente incorniciato, a suggerire che le azioni di Parsifal sono, appunto, intimamente di natura artistica (Al volo io colgo, ciò che vola).

 
L'agape al termine del primo atto non ci presenta vino e pane, ma… tomi e lo stesso Gral è una struttura composta da tre cornici di quadro disposte a formare un vuoto poliedro, che reca al suo interno il simbolo del tempo (una clessidra).

 
Nel secondo atto la Scienza ci viene presentata come astronomia: dapprima i pianeti che campeggiano sopra Klingsor, al momento per lui di risvegliare Kundry, alla fine come una galassia, o un pulviscolo stellare, o una supernova che prende il posto del castello, neutralizzato dalla presa di coscienza di Parsifal. Ma anche come primordiale scoperta dei quattro elementi fondamentali, rappresentati sulle quattro porte nidificate che incorniciano l'ingresso di Kundry. L'Arte compare nelle vesti e nelle aggraziate movenze delle fanciulle-fiore. E nel velo colorato con cui Kundry, la musa ispiratrice (dell'arte degenerata, che cerca di contrabbandare il meretricio come amor materno) avvolge Parsifal per attirarlo nella sua trappola.

 
Nel terzo atto, dopo la scena dell'Incantesimo (essenziale, luminosa, emozionante fino al groppo in gola) vediamo inizialmente l'Arte deturpata, dimenticata (piedistalli senza statue) o ridotta a puro segno (le colonne disegnate sullo sfondo) cui fa da contraltare la Religione decaduta ad oscurantismo: i cavalieri che si coprono gli occhi, pur in un ambiente scarsamente illuminato, e letteralmente minacciano Amfortas perché ripeta ancora la vuota liturgia. Poi, all'arrivo di Parsifal, torna anche l'Arte (colonne vere che scendono dall'alto) e anche la Scienza (libri che finalmente si riaprono). Amfortas letteralmente si auto-trafigge con la Lancia, proprio ad uccidere, e definitivamente esorcizzare, quella religione oscurantista, mentre Kundry si addormenta posando il capo sulle sue ginocchia, in un gesto emozionante di riconciliazione universale. E torna soprattutto la luce, quella della Ragione e dell'Arte, che nessuno più teme, ora che il Gral è scoperto per sempre e per tutti.

 
Così ho visto, ascoltato e vissuto io questo Parsifal. Altri l'avranno vissuto diversamente, e ciascuno per le sue ottime ragioni. Io cerco adesso di spiegare le mie.


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Appendice

 
Wagner era (soprattutto era convinto lui stesso di essere) un vero artista; nella sua concezione, l'arte, quindi l'artista, è investito di una ben precisa missione: procurare all'Uomo adeguati e nobili strumenti di contrasto contro le sue ossessioni esistenziali.

 
Ludwig Feuerbach, con la cui filosofia Wagner aveva preso dimestichezza ai tempi di Dresda e della rivoluzione, e che poi studierà a fondo – prima di imbattersi nella capitale figura di Schopenhauer - negli anni dell'esilio (durante i quali – è bene ricordarlo – getterà le fondamenta di tutta la sua futura produzione artistica, già del resto messa in cantiere a partire dal 1845) assegna all'Arte un ruolo paritetico e potenzialmente sostitutivo a quello della Religione. Secondo il filosofo, la Religione altro non è se non il prodotto dell'inventiva e della fantasia umane (a loro volta rese possibili grazie alle facoltà intellettive, prerogativa peculiare dell'animale Uomo). La capacità di razionalizzare l'esperienza ha portato l'Uomo a constatare, assieme alle proprie grandi qualità e capacità, anche i propri limiti e le proprie deficienze, prima fra tutte la propria mortalità. Allo stesso tempo l'Uomo ha preso atto che la Natura - assieme a molti lati consolanti – presenta anche aspetti negativi, dolorosi, ripugnanti e, in definitiva, insopportabili.

 
Per sfuggire a questa autentica ossessione, l'Uomo ha creato prima gli dei e poi Dio (che rappresenta la quintessenza idealizzata delle migliori qualità umane) e l'aldilà, che rappresenta l'ideale di un mondo perfetto, soprannaturale e metafisico in cui poter, anzi dover credere: tutto un insieme di valori codificati dalla Religione, che ha fatto assurgere a sistema assoluto (in cui aver fede dogmaticamente) ciò che in realtà era sbocciato dall'immaginazione e dalla fantasia umane.

 
Immaginazione e fantasia che sono, anche, i motori della produzione artistica dell'Uomo. E l'Arte altro non è se non un diverso (dalla Religione) strumento che l'Uomo si è dato per combattere le sue ossessioni e l'insopportabile constatazione della propria mortalità; in definitiva, uno strumento di evasione dalla miseria della propria condizione, e di elevazione spirituale, insomma: una religione laica.

 
Altra considerazione capitale: dato che l'intelletto consente all'Uomo di esplorare, e sempre più in profondità, la natura, la materia (organica e inorganica) che lo circonda, ma anche la propria stessa identità e la propria stessa mente, ecco nascere il pericolo mortale per la Religione: essere smentita dalle conquiste della Ragione (tramite la Scienza) e perdere ogni rilevanza, con ciò privando l'Uomo di quello strumento auto-consolatorio che si era così faticosamente costruito, e precipitandolo, in ultima analisi, in uno stato di gelida, spettrale, e in fin dei conti disperata condizione.

 
Religione ed Arte sono andate quasi sempre a braccetto: basti pensare a quanta Arte si è ispirata alla Religione e quanto la Religione si sia servita dell'Arte per edificare i suoi luoghi di culto e per nobilitare le sue liturgie. Diverso invece il rapporto che la Religione ha avuto con la Scienza, rapporto spesso, se non quasi sempre, conflittuale. Interessante è analizzare il rapporto fra Scienza ed Arte, dove si scopre, per fare un esempio perfettamente in tema, la grande affinità fra la Scienza dei Numeri e l'Arte dei suoni. Non a caso Wagner fu definito, da Thomas Mann, come l'Artista in grado di poetizzare l'intelletto! E nessun Artista più e meglio di Wagner seppe avere, e tradurre in parole e musica – i suoi drammi – intuizioni che la Scienza razionalizzerà e strutturerà molto tempo dopo: basti pensare alla psicanalisi (Freud) e alla teoria della relatività (Einstein).

 
Orbene, Wagner, interpretando Feuerbach (cui significativamente dedica, nel 1849, il suo fondamentale scritto L'Opera d'Arte dell'Avvenire) arriva a concludere che - scomparsa fatalmente la Religione sotto i colpi della Ragione - l'unico strumento di salvezza per l'Uomo non potrà essere che l'Arte. Domanda: perché l'Arte, i cui prodotti nascono pur sempre, come la Religione, da fantasia e immaginazione umane, quindi al di fuori della realtà razionalmente sperimentabile, può essere dall'Uomo accettata (come strumento auto-consolatorio) in luogo della Religione? Semplicemente perché l'Arte – a differenza della Religione - non pretende di imporre Dogmi, nè di rivelare Verità (dogmi e verità sempre meno accettabili dalla Ragione). Il prodotto artistico si presenta per ciò che è, senza maschere, né inganni: appunto, come un'invenzione della mente umana, volta a procurare all'Uomo non già speranze in una immaginaria e inesistente realtà metafisica, ma piacere estetico e spirituale, da consumarsi nella realtà della nostra mortale esistenza, e in piena armonia con la Natura immanente. Appunto, l'Arte come una religione laica.

 
Bene, ai tempi di Wagner, con la Religione che era da un lato messa alla berlina dai vari illuminismi, positivismi, comunismi, ateismi dilaganti in Europa, e dall'altro si andava sempre più trasformando nella parodia di se stessa, schiava delle sue proprie liturgìe, qual'era lo stato dell'arte della produzione artistica (particolarmente del teatro musicale) che alla Religione avrebbe dovuto sostituirsi? Per Wagner: deprimente e penoso. Che questo suo giudizio, più e oltre che da constatazioni oggettive, derivasse dalla sua personale incapacità di penetrare l'establishment di quel mondo (impersonato da Parigi) che mostrava di rifiutarlo, è questione magari secondaria. Sta di fatto che Wagner si vedeva e si sentiva investito della missione di redimere (toh, chi si vede: Parsifal!) l'Arte da quelle che per lui erano degenerazioni prodotte da maghi, stregoni e alchimisti (alla Meyerbeer, per intenderci… o alla Klingsor?) i quali, invece di regalare all'Uomo il tanto necessario ed edificante piacere estetico e spirituale, ne assecondavano le attitudini più abiette e disdicevoli, con prodotti che erano la pura e semplice mercificazione (e prostituzione, quindi) dell'Arte. Duplice compito, quindi, quello che Wagner si assegna: liberare l'Uomo dalla religione, scaduta a mera liturgia (il Gral periodicamente esposto proprio come un feticcio da adorare e usato come pseudo-balsamo per curare l'Uomo delle ferite derivanti dalle sue ossessioni esistenziali) e liberarlo anche dall'arte degradata a turpe e peccaminoso mercimonio (il castello di Klingsor).

 
Ecco, tutta la produzione artistica di Wagner (già a partire, come minimo, dall'Holländer) dapprima in forme e approcci ancora non ben codificati e spesso contraddittori (fino a Lohengrin compreso) ma successivamente in modo chiaro, programmato e strutturato, altro non è se non la rincorsa continua, instancabile – potremmo dire ossessiva (!) - alla propria auto-imposta missione. E non solo, ai drammi che compone, Wagner dà forme e contenuti di altissimo livello estetico, filosofico e spirituale (facendone appunto opere d'Arte nel senso più alto); ma gli stessi protagonisti dei suoi drammi impersonano precisamente le sue convinzioni riguardo l'Arte e la lotta che l'Artista (quello vero e puro, con la A maiuscola!) è chiamato a sostenere per svolgere la sua missione. Missione che si completa con Parsifal, guarda caso. Dove l'Artista Wagner, nell'atto di redimere Religione e Arte, redime anche se stesso (Erlösung dem Erlöser) da tutti i peccati, materiali, spirituali ed anche… artistici, che ha commesso lungo le tappe del suo missionario cammino.

 
Chi incontriamo in Parsifal?

 
Amfortas è il rappresentante, anzi il primo ministro, della Religione che, sentendosi minacciata dall'Arte, decide di combatterla. Ma l'Arte, che ai tempi di Monsalvat come di Wagner, è quella degenerata di Klingsor, lo seduce per tramite di Kundry, provocandogli una ferita insanabile: la perdita della Fede, in effetti. Ferita che la stessa Kundry – nelle sue reincarnazioni pietose (pietose, si badi bene, non compassionevoli!) – cerca invano di sanare.

 
Klingsor è un religioso mancato, per indegnità, che si trasforma in artista degenerato, e che alla purezza e spontaneità della fantasia e dell'immaginazione ha sostituito il trucco, la magìa, l'inganno, auto-castrandosi di tutte le sue potenzialità naturali. Vuole distruggere la Religione, ma non per sostituirla con la vera Arte, bensì per imporre una sua arte-religione depravata e depravante. È un caso forse che il secondo atto di Parsifal sia quasi letteralmente scopiazzato dal terzo atto di Robert le Diable? È il mondo degenerato (agli occhi di Wagner) di Meyerbeer, pieno di fasulle e profumate promesse, quello che l'Artista puro Wagner ci presenta – e con quale sublime maestrìa – per farcelo poi disprezzare e per distruggerlo sotto i nostri occhi, dopo che lui, l'Artista, ha fulmineamente messo a fuoco la verità, cioè il terribile inganno che si cela dietro i colori e i profumi di Klingsor e le dolci carezze di Kundry. (Qualcosa del genere Wagner aveva fatto nel secondo atto di Götterdämmerung, dove ci aveva mirabilmente mostrato – con sguaiati cori da grand-opéra - la degradazione della civiltà ghibicunga, meritevole così di essere travolta da incendi e inondazioni purificatrici!)

 
Kundry – nelle sue re-incarnazioni al servizio di Klingsor – rappresenta appunto la Musa ispiratrice dell'artista. Così si spiega perché lei conosca tutto di Parsifal, anche ciò che lui stesso non conosce di sè. Nei drammi di Wagner c'è sempre una figura femminile che rappresenta la Musa ispiratrice dell'Artista (Wagner) bistrattato e incompreso. Spesso e volentieri è, a differenza di Kundry, una musa nobile. Tanto per fare un esempio, Brünnhilde lo è nei confronti di Siegfried, con questo piccolo particolare aggiuntivo: la musica che Brünnhilde canta a Siegfried sulle parole Ewig war ich, ewig bin ich fu originariamente scritta da Wagner per Cosima, appena divenuta la sua musa ispiratrice, in quel di Starnberg! Ma, come esiste arte degenerata, così esistono le sue muse e Kundry è una di queste: dopo aver irriso la Religione (ridendo del Cristo sul Calvario) si è venduta a Klingsor ed ora è costretta a fare il suo gioco, adescando i nemici del suo padrone. Riesce a far cadere in trappola Amfortas e non Parsifal, poiché Amfortas è accecato dalla religione, e come tale incapace (agli occhi di Wagner) di comprendere la realtà e i suoi subdoli strumenti, mentre Parsifal è ignorante come un oco, ma – da vero naïf, quindi da autentico Artista toccato dalla grazia (come Wagner si autodipingeva, del resto) – sa cogliere l'essenza profonda delle cose e scongiurare così il pericolo di perdersi, acquisendo anzi quella conoscenza che lo mette in grado di redimere l'Umanità.

 
Parsifal è appunto l'Artista (Wagner) che, in cerca di se stesso, della sua identità e della sua missione, ha inizialmente vagato per il mondo, incontrandovi la religione degradata e l'arte corrotta e che finalmente, proprio mentre è sul punto di cadere, irretito dalle lusinghe della falsa arte, prova compassione. Compassione per chi? Ma per tutti gli uomini e le donne vittime di quella degradata religione e di quella falsa arte, fasulli ed abietti strumenti auto-consolatori, ben impersonati dalla cerimonia dell'Agape nel primo atto, che rappresenta mirabilmente la liturgia religiosa, trita, sterilizzante, magica e inafferrabile. L'ingenuo Parsifal nulla ci capisce, anzi l'unica cosa che capisce è che quello dev'essere un ambientino che nuoce gravemente alla salute, almeno a giudicare dalle esternazioni di Amfortas.

 
Questi uomini e donne possono essere redenti se il vero Artista aprirà loro gli occhi: sulla Realtà e sulla Natura (Ecco, ne rende grazie ogni creatura, quante han qui fiore e presto periranno, perché oggi la natura discolpata conquista il giorno della sua innocenza!) La cerimonia conclusiva del dramma è di fatto un funerale, quello della religione e del suo più illustre ministro (Titurel) a cui segue il trionfo della riconquistata conoscenza e dell'elevazione spirituale, prodotto dell'autentica espressione artistica. Elevazione che si potrà perpetuare se, una volta scoperto il Gral, scoperto lo si lascerà per sempre, come cantano le ultime parole di Parsifal.
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4 commenti:

Amfortas ha detto...

Magnifica recensione, innanzitutto, ma non è una novità.
E poi, più prosaicamente, sono proprio contento che la produzione sia stata di livello buono.
Purtroppo per me Torino è lontana, peccato!
Ciao.

daland ha detto...

@Amfortas
Come vedi sono piuttosto refrattario a certi temi, diciamo... liturgici (smile!)
Il livello dello spettacolo mi è proprio parso eccellente.

Ieri, fra scioperi di treni e blocchi di traffico cittadino, non è stato facilissimo arrivare a Torino neanche da Milano, per la verità.
Ciao!

Euryanthe ha detto...

Grazie per la recensione, molto interessante soprattutto riguardo al simbolismo dell'arte. Credo che questo Parsifal mi sarebbe piaciuto!

daland ha detto...

@Elena
Beh, salvo astruserie alla Schlingensief, è difficile che Parsifal non piaccia... almeno a chi non sia visceralmente anti-wagneriano.
Poi, sull'interpretazione "filosofica" si può sempre discutere.

Ciao!