Dopo essere stato al centro dell'inaugurazione di stagione a Bologna, questo Tannhäuser (quasi) tutto tedesco è approdato al Valli di Reggio Emilia. Ieri sera seconda e ultima recita, dopo quelle di Bologna, accolte abbastanza tiepidamente (ad essere magnanimi…) E chissà se questa fama non proprio eccelsa non sia responsabile del desolante numero di vuoti che si notavano in platea e soprattutto nei palchi (unica consolazione: parecchi i volti giovani).
Apro con qualche considerazione superficiale e – come ama dire Amfortas – semiseria. È ciò che magari si può pensare a prima vista di questa produzione. Intanto, Guy Montavon firma la regìa dell'opera: per intenderci, è come se Lissner in persona mettesse in scena, che so, la prossima Tosca alla Scala (smile!) O come se Moratti si mettesse a fare anche l'allenatore dell'Inter (ri-smile!) Montavon è svizzero trapiantato in Turingia e Tannhäuser è ambientato proprio lì, guarda caso. Peccato che il buon Guy abbia perso l'orientamento, confondendo est con ovest. E così, stando ad Erfurt, invece di guardare a 40Km di distanza a occidente, verso Eisenach, la Wartburg e l'Hörselberg, si è mosso, sempre di 40 Km, verso est, traslocando poeta, trovatori e femmine assortite in quel di Weimar, vicino e dentro la biblioteca mezzo distrutta dall'incendio di 7 anni fa. E chi se ne frega? si dirà… sempre in Turingia siamo e poi: Padrissa non ha per caso teletrasportato tutto e tutti a Bollywood?
Nel fare contemporaneamente il sovrintendente e il regista c'è però qualche vantaggio, apprezzabile nei momenti di crisi: se il manager si accorge che i quattrini scarseggiano, l'artista provvede seduta stante a tagliare i costi della produzione, a cominciare da quelli della scenografia (e magari a quelli del suo doppio-stipendio?) Ecco quindi che sul palco non c'è quasi nulla, e quel poco che c'è è roba che pare recuperata in discarica. Qualche filmato o diapositiva da proiettare su lenzuola e zanzariere, e il gioco è fatto. Se poi la genialità della regìa comporta la presenza di qualche comparsa straordinaria, basta usare il personale (già pagato comunque) dei servizi logistici del teatro, come pompieri e affini.
Certo, messa così, farebbe cadere le braccia, diciamocelo pure. Invece, dietro questa facciata poco promettente, c'è pure qualcosa (per non dire molto) di buono!
La presenza di biblioteca (nel secondo atto) e libretti vari (da subito) indirizza l'attenzione verso una delle problematiche fondamentali (anche se non unica) dell'opera Tannhäuser e della produzione wagneriana in generale: il ruolo di arte e artista nella società. E la scelta della versione da eseguire – quella di Dresda, quindi senza baccanale – mette del tutto in secondo piano le problematiche di natura strettamente religiosa o etico-morale, come il rapporto sesso-religione e carne-spirito.
Il libretto rosso che Tannhäuser si porta dietro è una specie di diario, di brogliaccio di appunti (Beethoven pare ne avesse sempre uno con sé, e Wagner… pure) dove l'artista segna gli spunti e le idee per le sue opere. Venus ne strappa le pagine su cui l'artista ha appuntato il suo anelito alla libertà (dalla claustrofobia del Venusberg, ma in fondo da se stesso e dal proprio auto-isolamento). Pure Elisabeth si porta dietro un libretto (giallo) che è a sua volta un diario, ma non dell'artista, bensì di una sua fan, di una che è stata colpita dalle prime opere dell'artista e le ha documentate, insieme alle sue reazioni. Se ne libera, consegnandolo proprio all'artista, perché lei è adesso irresistibilmente attirata dai contenuti del libretto rosso (che peraltro mai aprirà, custodendolo quasi come una reliquia, dopo la cacciata di Tannhäuser, allo scopo di riconsegnarglielo al suo ritorno da Roma) E altri libretti vengono consegnati ai cantori perché vi appuntino le idee per le rispettive composizioni per la tenzone. La quale tenzone avviene nella biblioteca di Weimar, distrutta dal rogo di libri, che è l'immagine della Wartburg rimasta orfana delle opere dei cantori e di Heinrich in particolare. E nella quale un secondo rogo vorrebbe distruggere il libretto rosso, simbolo dell'arte depravata di Tannhäuser; libretto che invece Elisabeth, appunto, si incarica di conservare. E che, non vedendo tornare Tannhäuser, consegnerà addirittura a Wolfram, quasi a investire il nobile e innamorato cantore della missione di perpetuare la nuova arte che tanto l'ha colpita e portata in uno stato di contraddizione spirituale che si risolverà solo con il sacrificio. Wolfram non saprà che farsene, e sarà ancora Heinrich a riprenderselo nel suo vaneggiamento finale. Ma proprio mentre il sipario cala (sulla doccia scozzese che purifica l'artista) scopriremo che quel libretto rosso è oggi conservato in un moderno scaffale, e viene preso da un ragazzino che mostra di interessarsene più che ad una bella palla colorata!
Ecco un Konzept che – a mio modestissimo avviso – centra nel modo più convincente l'intima essenza di questo dramma wagneriano. Che per il resto è sufficientemente contorto… e sofferto, come dimostrano ampiamente i mille rimaneggiamenti cui Wagner lo sottopose, mai trovandosene soddisfatto. A cominciare dalla ricerca del nesso causa-effetti riguardo al protagonista. Alla fine del secondo atto, dopo lo scoppio dello scandalo, Montavon ci presenta un fondale con la gigantografia – scattata dopo il rogo - dell'interno della Herzogin Anna Amalia Bibliothek; a fianco, una scritta, invero capitale: Il Poeta non appartiene né al mondo degli dei, nè al mondo degli uomini.
Chissà se è una frase (ad effetto) scritta dal megalomane Wagner in qualche suo libello (potrebbe benissimo trovarsi in Comunicazione ai miei amici) o confidata – che so – a un Liszt o a Mathilde, in un momento di particolare esaltazione… Sta di fatto che ben rappresenta il destino del povero Tannhäuser (e del Wagner anni-40?) che non riesce ad integrarsi da nessuna parte (né a Parigi, né a Dresda). Ma è colpa solo della società? Perché, nel prevalente MI del Venusberg, lui canta in REb, poi in RE e poi in MIb; e in compenso, nel prevalente MIb degli inni di Wolfram&C, se ne esce con un blasfemo MI naturale! Insomma, una specie di bastian-contrario, un artista maledetto che potrà trovare pace solo al cimitero, insieme alla sua ammiratrice e redentrice, la santa Elisabeth. (Quanto all'artista Wagner, dovrebbe spiegarci lui perché l'Ouverture presenta da subito il coro dei pellegrini in MI naturale, che pare una bestemmia se rapportato al MIb impiegato allo scopo nell'Opera: che sia così solo per meglio raccordarsi con il Venusberg su cui si apre il sipario, è spiegazione troppo banale.) Insomma, di strada per arrivare a Parsifal, Wagner ne dovrà fare ancora tanta…
A proposito di rimaneggiamenti, è interessante la soluzione che Montavon ha dato al finale, presentandoci una specie di misto fra quello che oggi è di fatto lo standard-di-Dresda (comparsa fisica di Venere e funerale di Elisabeth) e l'assetto dell'Ur-Tannhäuser, dove il Venusberg è solo un'allucinazione di Heinrich e di Elisabeth si ha solo un lontano riferimento alle stanze della Wartburg, illuminate per la sua camera ardente. Qui in teatro Venus soprattutto si sente (qualcuno può anche intravederla, dato che lei canta – spartito sul leggìo! - nel palco di barcaccia di sinistra) mentre delle esequie di Elisabeth resta solo il canto del coro, che ne tesse il necrologio.
Detto dell'allestimento minimalista, vengo agli interpreti, dove le note (smile!) non sono magari altrettanto liete, pur se non mi sento assolutamente di parlare di fallimento.
Intanto Reck: il 50enne direttore ha dato una lettura asciutta e… minimalista (smile!) della partitura, evitando enfasi e fracassi (salvo, ma doverosamente, nella scena corale del secondo atto). I suoi tempi, a partire dall'Ouverture, mi son parsi abbastanza vicini a quanto Wagner prescrive (in Tannhäuser ci sono minuziose indicazioni metronomiche). Mai ha coperto le voci, e già questa non è qualità da poco. L'Orchestra ha risposto assai bene, sia nella buca, che dietro le quinte.
Il Coro, diretto qui da Lorenzo Fantini, ha confermato la sua preparazione: eccellente sia nei piano dei pellegrini, che nei fortissimo dei nobili di Turingia.
Tannhäuser era Richard Decker: la voce non è proprio male (ricorda vagamente, anche nell'espressione, Domingo) ma francamente è parso in difficoltà (proprio di intonazione, credo) nella scena iniziale, chiusa con un Maria non propriamente da ricordare, il che ha fatto temere il peggio. Si è invece poi progressivamente ripreso ed ha concluso senza danni anche l'ultimo, tremendo sforzo del racconto di Roma. Assieme ad applausi, ha ricevuto un paio di buh (da un'unica fonte in platea, peraltro) che mi son parsi un pochino eccessivi.
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La Venus di Patrizia Orciani è stata molto applaudita, anche se non è andata esente da qualche pecca (da urletto) negli acuti.
Chi non si meritava i due fischi (sempre dallo stesso punto della platea) in mezzo ad un mare di applausi, era Orla Boylan, interprete di Elizabeth. Per me, una prestazione più che degna, se non proprio eccellente.
Mattatore della serata Martin Gantner, davvero un grande Wolfram, voce calda ma chiara e luminosa, proprio come si addice al leggendario Minnesanger.
Dignitosa la prova di Enzo Capuano, nei panni del Langravio, e notevole – pur nella limitata estensione – quella del pastorello, la davvero brava Guanqun Yu.
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Insomma, direi che – per quanto visto e sentito ieri – certe critiche seguite alle precedenti recite mi paiono immeritate. L'unica che mi sento di fare io è all'orario di inizio. Va bene che la Marcegaglia ha ormai bisogno di sfruttare anche i nostri minuti (smile!) ma cominciare alle 18, invece che alle 20, non credo avrebbe fatto precipitare il nostro PIL.
2 commenti:
Accidenti, avevo lasciato un commento articolato e blogger l'ha inghiottito!
A questo punto mi limito a segnalare come Lorenzo Fratini sia un gran acquisto per il Teatro Comunale di Bologna, è un grande M° del Coro e, tra l'altro, pure ottimo direttore d'orchestra.
Mi spiace per il pubblico scarso, per il resto fortunato te che ti sei visto un Parsifal e un Tannhäuser in meno di una settimana.
Ciao!
@Amfortas
Il mio prossimo Wagner (live) sarà il Rheingold alla Fenice.
Ciao!
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