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18 febbraio, 2011

Stagione dell’OrchestraVerdi - 23


La Nona di Mahler va in scena questa settimana all'Auditorium. La dirige lo yankee John Axelrod, già visto e udito da queste parti più volte (e sempre con alto gradimento). Qualche settimana fa aveva diretto questo autentico testamento mahleriano con l'Orchestra Nazionale RAI e – almeno all'ascolto radio – mi aveva fatto un'ottima impressione (a parte un attacco anticipato di una battuta dato al flauto piccolo nella coda del finale…)

 
Prima del concerto, la consueta conferenza di presentazione delle sinfonie mahleriane, ieri affidata al venerabile Quirino Principe. Ascoltando il quale non si può non restare ammirati da tanta sapienza…

 
Una curiosità: forse H.L. de La Grange esagera un poco, ma se oggi abbiamo la Nona, è grazie al rifiuto che Mahler oppose ad un'allettante offerta del Teatro Colon di Buenos Aires, che lo aveva invitato laggiù per la stagione invernale (15 maggio – 15 agosto 1908). Mahler invece scelse di passare l'estate a Toblach e lì, nella sua Häuschen, mentre componeva il Lied, buttò giù i primi schizzi della sua ultima (completata) sinfonia.

 
Ascoltare questo capolavoro è sempre un'impresa, per cervello e cuore, credo altrettanto dura quanto quella di eseguirla e di dirigerla. Per questo non è consigliabile eccedere: personalmente avevo ascoltato per l'ultima volta la Nona quasi un anno fa (8 marzo 2010, alla Scala, con Salonen) e ancora ne avevo lo straordinario ricordo. Perché davvero, cuore e cervello ne escono ripagati con gli interessi!

 
Spesso si considera questa sinfonia come opera di un individuo distrutto e morente, che vi scrive il proprio epitaffio. Le cose stanno in modo un tantino diverso: Mahler era stato sì raggiunto, nel 1907, dai tre colpi del destino (diagnosi della disfunzione cardiaca, morte della piccola Putzi e abbandono della Hofoper) come figurativamente anticipato – ma soltanto nell'immaginazione a-posteriori di Alma – nel finale della Sesta, e di certo aveva preso coscienza che la fine avrebbe potuto ormai bussare alla sua porta in qualunque momento, ma non era affatto un uomo sfiduciato, era anzi un artista che si manteneva in buona efficienza e piena attività. Caso mai la sua Nona – così come il Lied e i frammenti della Decima – ci mostrano la sua intima convinzione che, pur sulle macerie lasciate da quei terremoti, ci fosse ancora la prospettiva di una nuova vita, sia pure da viversi nella consapevolezza della sua precarietà.

 
A me pare che il Mahler post-1907 sia un artista che, di punto in bianco, scopre dentro di sé tutti i problemi esistenziali (e materiali) che fino a quel momento aveva avvertito - e mirabilmente rappresentato in musica – soltanto al di fuori della sua propria persona. Ed è la sua stessa produzione artistica a chiarircelo: l'Ottava sinfonia (1906) chiude il ciclo della produzione del Mahler testimone del mondo; da lì in avanti, la sua musica sarà quella del testimone di se stesso, naturalmente in rapporto al mondo e all'aldilà.

 
E John Axelrod, come ce l'ha proposta, questa testimonianza? Con grande energia, direi, accentuando i contrasti di tempo, sia quelli macro (fra i movimenti esterni e interni) che quelli micro (all'interno dei singoli movimenti, paradigmatico il Rondò). Forse qualche eccesso negli schianti dei timpani, per il resto un'esecuzione tecnicamente dignitosa, non esente da piccole pecche, magari dovute anche alla disposizione inusuale dei contrabbassi (schierati frontalmente fra percussioni e ottoni). Pecche di certo eliminabili nelle prossime repliche, e che non hanno comunque influito sul giudizio del pubblico, che ha tributato – dopo il lungo silenzio seguito al morendo degli archi - un grande trionfo a direttore e professori.

 
Il prossimo appuntamento qui è col grande Lenny.
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