Dopo una sola settimana torna sul podio Wayne Marshall con un programma tutto americano. Che (purtroppo) è stato modificato rispetto alla locandina originale, che prevedeva la recente Swing Symphony di Wynton Marsalis, rimpiazzata da più tradizionali e familiari opere di George Gershwin.
Resta per fortuna l'interessante proposta di The Age of Anxiety di Leonard Bernstein. Una composizione (del 1949, dedicata al mentore Koussevitsky, poi rivista nel 1965 con aggiunte alla parte pianistica del finale) che assomma in sé diverse caratteristiche (o nessuna di esse?) È intitolata Sinfonia e prevede un pianoforte solista, ma non è un concerto… È fornita di un preciso programma letterario, eppure il suo autore sostiene di aver voluto comporre musica pura, che quel programma ha semplicemente evocato, musica nella quale egli avrebbe introdotto quasi inconsciamente riferimenti diretti al programma medesimo. Mah… personalmente credo che qualunque ascoltatore, anche il più musicalmente preparato, fatichi assai a raccapezzarsi in quest'opera se non ne conosce – e pure dettagliatamente – il programma esterno. Peraltro, con un minimo di conoscenza dello stesso, l’opera si lascia apprezzare… pur non potendosi chiamare un capolavoro.
Il programma letterario è un lungo poema di pari titolo – scritto fra il 1944 e il 1947 - di Wystan Hugh Auden, poeta britannico trasferitosi in USA nel 1939, in pratica disertando proprio alla vigilia della guerra. Poema scritto in arcaica rima allitterativa, che risente degli effetti traumatici degli eventi bellici e descrive lo stato di straniamento, di sradicamento e di impotenza di tanta parte dell'umanità, vittima di meccanismi e di forze cui non si può opporre. È strutturato – come precisamente sarà la Sinfonia di Lenny – in sei parti: il prologo, in cui tre maschi (Malin, ufficiale dell'intelligence medica dell'aviazione canadese, Quant, impiegato in un ufficio di spedizioni, nauseato dal mondo ed Emble, una recluta della Marina) e una femmina (Rosetta, impiegata all'ufficio acquisti di un supermercato) – nessuno di loro originario di NewYork, quindi tutti a loro modo piuttosto sradicati - si incontrano per caso in un bar di Manhattan in piena guerra; le sette età, in cui i quattro si raccontano le proprie esperienze di vita, suddivisa appunto in sette fasi, dall'infanzia alla morte; i sette stadi, in cui i quattro immaginano (senza peraltro cavare un ragno dal buco) come ritrovare, attraverso viaggi in onirici paesaggi, una vita serena, lo stadio preistorico di felicità e la fede in Dio; il lamento per la mancanza di un grande condottiero che indichi loro la via da percorrere; la mascherata, che si svolge nell'appartamento di Rosetta, dove tutti (i maschi soprattutto) si ubriacano definitivamente, finchè i due più anziani se ne vanno a casa e il giovane Emble finisce spossato… nel letto di Rosetta; l'epilogo, in cui l'alba riporta ciascuno al proprio quotidiano tran-tran, in cerca di… una fede che pare impossibile da mettere in pratica.
Ma che secondo Bernstein è raggiungibile, nel suo finale, in cui pare di sentire nobili echi mahleriani. La Sinfonia è suddivisa in due parti, di tre sezioni ciascuna: la prima consta delle tre scene nel bar di Manhattan; la seconda contiene la sezione del lamento (mentre i quattro sono su un taxi che li porta verso l'appartamento di Rosetta) e le due sezioni conclusive. Tutta la prima parte potrebbe vagamente essere considerata il primo tempo di una sinfonia (tema e variazioni); poi c'è il movimento lento, ancora una cosa simile ad uno scherzo e quindi il finale.
Nella sua prefazione alla partitura Bernstein, dopo aver ammesso di essere rimasto letteralmente affascinato dal poema di Auden (che invece considerò la Sinfonia una cosa estranea ad esso!) spiega come la parte pianistica rappresenti autobiograficamente se stesso, totalmente immedesimatosi nel poema, che si specchia nell'orchestra (indifferente, se non proprio ostile) come nel mondo circostante. Seguiamo le sue concise note didascaliche per orizzontarci nel gran ginepraio della partitura, aiutati da una minuziosa analisi fatta da una musicofila presso l'Università di Rochester.
Part I
a. Prologue. Presenta l'incontro dei quattro personaggi nel bar della Terza Avenue, dove cercano scampo, bevendo, dai loro quotidiani problemi esistenziali. È una sezione assai breve, che consiste nella malinconica improvvisazione di due clarinetti (in echotone) seguita da una scala discendente che fa da ponte verso l'inconscio in cui si svolge poi il resto della storia.
Sono soltanto 28 battute (Lento moderato, poi Poco più andante) in cui i due clarinetti, con suono appena udibile (l’echotone in pratica fa assomigliare il suono a quello di uno zufolo, forse in omaggio al carattere di egloga del poema di Auden) ci introducono un'atmosfera di tristezza, e pure di inquietudine, come testimonia il tritono (RE-LAb) già nella prima battuta:
seguiti dal primo flauto che – su un sottofondo di timpani, con arpa e violoncelli che suonano accordi di quarte sovrapposte - intona una lunga scala discendente (dal RE# acuto a quello due ottave sotto) alla fine della quale il secondo flauto ricorda il primo tema:
b. The Seven Ages (Variations I-VII). Bernstein spiega che quelle che seguono non sono classiche variazioni su un tema predeterminato, bensì ciascuna varia la (e/o risponde alla) precedente, analogamente al flusso dei discorsi dei quattro personaggi che raccontano le loro esperienze.
È il pianoforte solo ad aprire la prima variazione (sole 15 battute) che rappresenta l'infanzia e ricorda dapprima il tema discendente e subito dopo l'incipit del tema dei clarinetti nel prologo. Poi entra l'arpa ed espone, raddoppiate all'ottava, su un tremolo delle quarte dei violoncelli con sordina divisi in tre parti, le sedici note discendenti udite dal flauto poco prima:
La seconda variazione (l'adolescenza) è più corposa e vi è protagonista il pianoforte, che suona continuamente e sviluppa un frammento del tema discendente udito in precedenza:
Gli strumentini espongono un nuovo motivo – due quarte ascendenti seguite da una terza minore discendente - che verrà impiegato nelle successive variazioni:
Questa variazione (Più mosso, rubato, come si addice alla turbolenza adolescenziale) è composta da due sezioni (la seconda in effetti è una… variazione della prima) con frequenti esplosioni di semicrome, fino ad adagiarsi (Quasi lento) sulla…
Terza variazione (Largamente) che rappresenta la prima maturità, dove il pianoforte tace e sono violini e corno inglese ad esporre maestosamente il motivo degli strumentini nella precedente variazione:
Si noti il frammento di seconda maggiore ascendente seguito da una quinta giusta discendente, poiché darà l'appiglio alla variazione successiva. Il motivo principale è ripetuto dai corni, con flauto e oboe, prima che il violino solo, in una nuova breve sezione, ne esponga uno specchio:
L’arpa
e gli archi accompagnano il tema, ripetuto due volte, più la terza variata, con
un ritmo quasi marziale, a sottolineare la determinazione, caratteristica di
questa età dello sviluppo umano.
Nella quarta variazione si manifesta l'accettazione della dura realtà della vita. Sul tempo sghembo di 5/8, è dominata dal pianoforte, che ne espone l'idea principale, derivata dall'inciso della variazione precedente (qui è
una seconda minore seguita da una quinta discendente):
Negli archi (e terza tromba) torna il motivo esposto originariamente nella seconda variazione:
La prima tromba vi espone infine un motivo da cui germinerà la quinta variazione:
Il tempo mosso e le agitate semicrome del pianoforte accentuano il senso di smarrimento e depressione di questo stato dell'esistenza.
La quinta variazione evoca l'improvviso arrivo del successo e l'apparente raggiungimento del benessere esistenziale. Il tempo è agitato, misterioso ed il clarinetto attacca con semicrome che ripetono il motivo della tromba della precedente variazione:
I legni e poi gli archi espongono un secondo motivo:
Dopo una transizione, affidata al pianoforte con intrusioni dell'orchestra - con i corni che letteralmente urlano
- i motivi vengono ripresi, sempre con un ritmo che dà l'idea di una vita che procede da un successo all'altro, fino a… spegnersi su un nuovo motivo del flauto, che caratterizzerà la successiva variazione:
La sesta variazione (poco meno mosso) rappresenta l'invecchiamento e la constatazione della fallacia del successo e l'idea che la felicità si possa trovare solo tornando all'innocenza della fanciullezza. È piuttosto breve (solo 26 battute) ed è il solo pianoforte ad esporla, inizialmente con un motivo derivato da quello appena suonato dal flauto nella variazione precedente, indi richiamando fugacemente il primo motivo del prologo, poi esponendo un nuovo motivo, sempre derivato dal primo, che verrà impiegato nella settima variazione:
La settima variazione rappresenta l'estrema vecchiaia e… la morte. L'oboe espone un motivo derivato dalla variazione precedente, quindi sempre oboe e poi clarinetti espongono il motivo iniziale del prologo:
Infine il pianoforte – con i violoncelli sempre ad accompagnare con quarte sovrapposte - la chiude esponendone il motivo discendente (cui sovrappone il primo) che parte sempre dal RE#, ma questa volta percorre ben quattro ottave discendenti, anzi di più, fino al DO# e finalmente al DO (da cui ripartirà la prossima sezione) come a dipingere il lento cadere della vita nell'abisso del nulla:
Si notino in particolare le quarte dei violoncelli in accompagnamento, poiché sarà da lì che sgorgherà il tema principale della successiva variazione. Flauti
e clarinetti accompagnano mestamente la cerimonia…
c. The Seven Stages (Variations VIII-XIV). Sono altre sette variazioni che evocano gli immaginari viaggi dei protagonisti, singolarmente o a coppie, alla ricerca della perduta e irraggiungibile felicità. Al termine dei quali viaggi (per quanto infruttuosi) i quattro si sentono uniti dall'esperienza comune e cominciano ad agire come un unico organismo.
Il primo stadio (ottava variazione) si riferisce alla constatazione, fatta dai quattro protagonisti dopo aver percorso tutti i panorami, dalla preistoria ad oggi, della costante presenza del dolore nella vita dell'uomo, in tutte le epoche della nostra civiltà. Il tema principale (quarte ascendenti SOL-DO) è esposto inizialmente da corno inglese e viole, mentre il pianoforte presenta un motivo ostinato, che verrà ripreso anche dagli archi, caratterizzando l'intera variazione:
Tutta la variazione è sostenuta dall'ostinato (il cui incipit pare il dies-irae) su cui si innestano i due motivi principali, ripetuti due volte: il tutto crea – fedelmente al soggetto letterario - un'atmosfera di tristezza e rassegnazione.
Nel secondo stadio (nona variazione) i quattro si dividono a coppie (i due giovani, Rosetta ed Emble e i due attempati, Quant e Malin) e partono per un cammino di analisi dei valori della società. Sono le note dell’ostinato a costituire il nerbo della variazione, esposte inizialmente dai violini e poi variate in continuazione (l’ultima figurazione servirà poi a sostenere la variazione successiva):
Infine vediamo riapparire nell’oboe (alterata nel ritmo) l’idea iniziale della variazione precedente:
Il quarto stadio (undicesima variazione) vede i quattro in una moderna città, dalla quale si allontanano avendone toccato con mano la superficialità della cultura e l'infelicità che ne deriva. Il
pianoforte espone il primo motivo, una vaga derivazione da quello con cui era iniziata
la precedente variazione e subito dopo un suo controsoggetto e ancora un altro
motivo, usato poi come accompagnamento:
Nel quinto stadio (dodicesima variazione) i quattro fanno una gara nella speranza di scoprire che l'uomo può vivere felice: vi è rappresentata una grande casa, in cui Rosetta crede di trovare la risposta alle sue aspirazioni (ma ne uscirà profondamente delusa).
È (quasi) il solo pianoforte ad eseguirla, in due sezioni, di cui la prima ripetuta (da-capo). È ancora la figura dell’ostinato a generare la prima idea; la seconda sezione presenta un motivo caratterizzato da quarte (ascendenti e discendenti) che risentiremo poi nella successiva variazione:
È (quasi) il solo pianoforte ad eseguirla, in due sezioni, di cui la prima ripetuta (da-capo). È ancora la figura dell’ostinato a generare la prima idea; la seconda sezione presenta un motivo caratterizzato da quarte (ascendenti e discendenti) che risentiremo poi nella successiva variazione:
Nel sesto stadio (tredicesima variazione) i quattro capitano in un camposanto e meditano sulla morte e sulle impurità che albergano nei propri cuori. Il motivo principale proviene dalla
precedente variazione ed è esposto dal pianoforte, contrappuntato dall’ostinato
di tromboni, tube e controfagotto:
a. The Dirge. I Quattro – in un taxi – piangono la perdita del colossal Dad (il colossale papà). La sezione impiega armonicamente una serie di 12 note da cui evolve il tema principale. Con esso contrasta una sezione centrale, caratterizzata da romanticismo brahmsiano (sic!)
È il pianoforte a presentare la serie di 12 note, cui segue, in arpa e fiati, un altro motivo ostinato, di sette note:
È il pianoforte a presentare la serie di 12 note, cui segue, in arpa e fiati, un altro motivo ostinato, di sette note:
Eccellente la prestazione al pianoforte di Emanuele Arciuli (che per sicurezza, non si sa mai… ha tenuto lo
spartito nella cassa del pianoforte) ben coadiuvato da Marshall e dall’orchestra, dove la band delle percussioni ha fatto faville, insieme alla brava Carlotta Lusa, che si è letteralmente
sdoppiata fra celesta e pianino, facendo per due volte la spola
fra la prima (posta al proscenio, sulla destra) e il secondo, dislocato dietro
la quinta, per meglio rendere l’effetto di distanza (o per mancanza di spazio
sul palco, smile!)
Diverse le chiamate per Arciuli, che ci regala anche un bis debussyano (Ministrels).
Poi tocca a Wayne Marshall esibirsi nel doppio ruolo di direttore e solista, per proporci la celebre Rapsody in Blue di George Gershwin. Il quale ne scrisse nel 1924 la parte del pianoforte, accettando di farsela poi orchestrare da Ferde Grofè, in vista della prima esecuzione a Manhattan. Qui, a parte il pianista, è il clarinettista (nella fattispecie il bravissimo Fausto Ghiazza) a mettersi in mostra subito all’inizio, con il famoso glissando ascendente di 18 note, dal FA grave al SIb due ottave sopra.
Il brano è di quelli dichiaratamente volti a mostrare come fra i diversi generi di musica i confini siano labili: in questo caso è il jazz a compromettersi con il classico (o viceversa!) con risultati francamente apprezzabili.
Marshall ci mette parecchio di suo, introducendovi non una, ma addirittura tre cadenze, le prime due a cavallo del celebre Andantino moderato in MI maggiore, e si guadagna applausi ed ovazioni.
Chiude il concerto l'altrettanto celebre An American in Paris, già eseguito qui (con Zhang Xian) meno di un anno fa.
Ancora un’ottima prova di Marshall e dell’orchestra, eccellenti a far emergere tutta la frizzante verve di questo brano, ma anche i suoi lati patetici e carichi (direbbe un tedesco) di Sehnsucht. In grande evidenza Alessandro Ghidotti, nell’assolo di tromba che nostalgicamente richiama le mille luci di NewYork all’americano vagabondante per la ville-lumière. Alla fine urla e fischi… all’americana da parte di un pubblico finalmente numeroso come si merita laVerdi.
Diverse le chiamate per Arciuli, che ci regala anche un bis debussyano (Ministrels).
Poi tocca a Wayne Marshall esibirsi nel doppio ruolo di direttore e solista, per proporci la celebre Rapsody in Blue di George Gershwin. Il quale ne scrisse nel 1924 la parte del pianoforte, accettando di farsela poi orchestrare da Ferde Grofè, in vista della prima esecuzione a Manhattan. Qui, a parte il pianista, è il clarinettista (nella fattispecie il bravissimo Fausto Ghiazza) a mettersi in mostra subito all’inizio, con il famoso glissando ascendente di 18 note, dal FA grave al SIb due ottave sopra.
Il brano è di quelli dichiaratamente volti a mostrare come fra i diversi generi di musica i confini siano labili: in questo caso è il jazz a compromettersi con il classico (o viceversa!) con risultati francamente apprezzabili.
Marshall ci mette parecchio di suo, introducendovi non una, ma addirittura tre cadenze, le prime due a cavallo del celebre Andantino moderato in MI maggiore, e si guadagna applausi ed ovazioni.
Chiude il concerto l'altrettanto celebre An American in Paris, già eseguito qui (con Zhang Xian) meno di un anno fa.
Ancora un’ottima prova di Marshall e dell’orchestra, eccellenti a far emergere tutta la frizzante verve di questo brano, ma anche i suoi lati patetici e carichi (direbbe un tedesco) di Sehnsucht. In grande evidenza Alessandro Ghidotti, nell’assolo di tromba che nostalgicamente richiama le mille luci di NewYork all’americano vagabondante per la ville-lumière. Alla fine urla e fischi… all’americana da parte di un pubblico finalmente numeroso come si merita laVerdi.
Prossimamente avremo il ritorno di XianZhang con un corposissimo programma e un Mahler poco conosciuto.