Seconda ieri sera alla
Scala – vergognosamente ricca di poltrone e palchi vuoti - della ranocchia
bavarese, accolta trionfalmente (col minimo sindacale di buu…) all’esordio di domenica. (Oh, quel minimo sindacale si
riferiva ai Musikanten, chè il Regisseur se ne beccò invece una razione
direttamente proporzionale alla sua parcella, smile!)
La Frau – sappiamo - è opera complessa, dalle mille e una notte
sfaccettature: simboli, allusioni, allegorie, esoterismo, surrealismo e
psicanalisi spuntano fuori da ogni dove in questa specie di fiaba a sfondo
moraleggiante, socialista, femminista, antifemminista, bigotto… e chi più ne
ha, più ne aggiunga. Ho riletto per l’occasione uno spassosissimo – oltre che
eruditissimo – saggio di Alberto Arbasino,
comparso sul programma di sala per la (travagliata, ahinoi) Frau del Maggio fiorentino di quasi 2 anni
orsono: una vera miniera d’oro per un regista che voglia trovare spunti per
chiavi di lettura originali di questo mezzo-capolavoro (intero, per la parte di
competenza di Strauss).
La cui trama è - di conseguenza – assai
intricata: se il personaggio centrale è abbastanza facilmente individuabile
(nella figura dell’Imperatrice) e il
percorso fondamentale è più o meno chiaramente tracciato (come progressiva
assunzione di responsabilità della ragazza-gazzella, che muove da una beata
ingenuità animalesca per raggiungere la consapevolezza del proprio ruolo nell’umana
società) non altrettanto chiari, comprensibili, logici e spiegabili sono i
mille avvenimenti che passano sotto i nostri occhi. Molti dei quali sono del
tutto irrazionali, effetti senza causa, eventi miracolosi procurati da forze
sconosciute e soprattutto senza alcun presupposto plausibile.
Quindi,
pur nel doveroso rispetto dovuto al genio di Hugo von Hofmannsthal, mille sono le domande che sorgono nella
mente del lettore del testo: perché mai una colpa della donna, l’Imperatrice (ammesso che di colpa si
tratti, quella di non avere ombra, simbolo di infertilità) deve per forza
ricadere anche sul marito, l’Imperatore
- che oltretutto si impegna allo spasimo, tutte le sacrosante notti, come un
coniglietto infaticabile (smile!) nel
suo dovere di fecondatore - al punto
da comportarne la condanna alla pietrificazione? E come è sostenibile la
presentazione della crisi di un ménage familiare (in casa Barak) quando
sentiamo l’uomo chiedere alla donna di dargli finalmente dei figli (il che
implicherebbe che da parte sua venga onorata una regolare, sia pure noiosa,
routine sessuale) e la moglie che invece ribalta su di lui la responsabilità
della mancanza di prole, accusandolo apertamente (e non m’hai resa una madre) di aver dimenticato il suo principale
dovere coniugale?
E giù in casa Barak, dove sta completando la sua opera di corruzione della moglie del tintore con le classiche armi di seduzione (oro, gioielli e vestiti, più un Giovinetto amante) e l'ha convinta (L'anima mia è sazia ormai della maternità, ancor prima d'averla gustata) a rinunciare definitivamente alla sua ombra e ad infischiarsene dei figli mancati (Rinunciare col gesto del disprezzo ai tediosi che qui non son nati!) come mai la perfida Nutrice scompare sul più bello (la ritroviamo solo nell'atto successivo!) mentre si manifesta un sortilegio (il pianto di quei cinque bambini mai nati, proprio in concomitanza col friggere dei cinque pesciolini in padella!) che rischia di avere sulla Tintora l'effetto precisamente opposto a quello desiderato dalla Nutrice? (A proposito dei pesciolini/feti-to-be, pare che Strauss fosse inorridito all'idea che Barak si mangiasse i suoi mancati figli, e che HvH dovette porre ripiego facendo mangiare al tintore solo un tozzo di pane… però intanto il fritto era stato fritto, smile!)
E all'inizio del second'atto perché mai la medesima Nutrice, che avrebbe bisogno di quanto più tempo possibile a disposizione, al fine di veder consumato il peccato di adulterio della sua corrompenda, invita invece Barak a tornare presto dal mercato, cosa che avviene con una puntualità quantomeno sospetta? Col risultato di guastare la festa non solo alla moglie, ormai ben orientata sulla strada del tradimento, ma soprattutto alla coppia delle corruttrici? E come spiegare il siparietto notturno dell'Imperatore presso la casa del falconiere reale? Quand'è che l'Imperatrice ha vergato il messaggio di convocazione per lui, come lo ha recapitato al Messo, e quale sarebbe lo scopo dell'incontro? E quale logica c'è dietro l'improvviso odio per lei che assale l'Imperatore – che è pur sempre un umano, per quanto del rango più alto – al solo fiutare l'odore di umano da cui è avvolta la ragazza? E di chi sarebbe il respiro umano che la segue, se con lei c'è solo la Nutrice, che lui ospita in casa da quando ha catturato la gazzella?
Ma ancora più ermetico – qualcuno potrebbe dire strampalato - è il seguito del secondo atto (le tre parti della terza scena): dapprima il nuovo tentativo della Nutrice di indurre in tentazione la Tintora, che reagisce in modo quanto meno schizofrenico, fra disprezzo per la corruttrice e confessioni di desideri di tradimento; fra ostentata indifferenza verso il bel Giovinetto che la Nutrice le fa miracolosamente ricomparire davanti e terrore al contatto con la mano di lui; dal rifugiarsi nella protezione del marito all'abbandonarlo subito dopo per uscir di casa (con chi? ma con la sua corruttrice, accipicchia!)
Qui poi abbiamo l'altro siparietto con l'Imperatrice nella casa del falconiere, completamente fuori-tempo-luogo-azione (a differenza del precedente, che godeva almeno di una vaga plausibilità temporale, questo si cala irrazionalmente nel bel mezzo di un'azione in pieno svolgimento, nella casa di Barak, in cui è presente l'Imperatrice medesima) con le visioni oniriche della giovane, che devono servire a mostrarci l'antefatto di ciò che vedremo più avanti (l'Imperatore pietrificato!)
Chiude l’atto un altro scenario a dir poco bizzarro, con la falsa auto-accusa della Tintora (che chissà perché le provoca comunque la perdita dell’ombra!) la reazione violenta di Barak, i sortilegi della Nutrice che fa oscurare il cielo e mette in mano a Barak una luccicante spada che poi però svanisce nel nulla a fronte della preghiera dell’Imperatrice, che ha rifiutato di vestire l’ombra lasciata libera dalla Tintora… Mentre la Tintora medesima ritratta in fretta e furia la confessione appena fatta, mettendoci però anche un tocco di freudiana quanto ricattatoria carogneria, quando, dopo aver proclamato Non l’ho fatto! aggiunge e precisa: Non l’ho fatto ancora! Ecco infine un provvidenziale quanto gratuito cataclisma, con tanto di esondazione fluviale, che spedisce sottoterra Barak e consorte (ma l’ombra che fine ha fatto? smile! sappiamo che la cosa fece passare notti insonni a Strauss) separando l’uno dall’altra ed entrambi dall’Imperatrice e dalla sua tata. (!?!)
L'atto conclusivo - aperto da quella genialata straordinaria dei due umani che si dichiarano amore e fedeltà in contemporanea, pur essendo ciascuno in totale isolamento - è perlomeno più abbordabile, se non altro per l'aperta similitudine con la Zauberflöte. Della quale ripropone anche l'ambiguo ruolo di Keikobad-Sarastro, che soltanto alla fine si chiarisce in modo positivo.
Certo che per qualunque regista mettere in scena un simile amba-aradam rappresenta un problema non da poco (il che, insieme al fabbisogno esagerato di Musikanten, spiega perché l'opera si rappresenti col misurino, anche in territorio crucco). Rispettare alla lettera le indicazioni del libretto fa effettivamente correre il rischio di proporre uno spettacolo del tutto incomprensibile allo spettatore medio (e forse anche agli esperti) come del resto avevano paventato sin da subito HvH-RS, se è vero come è vero che pensarono addirittura di predisporre un bigino esplicativo dell'opera, da distribuire in anticipo al pubblico!
Così Claus Guth deve aver scelto una strada che gli rendesse facile la vita, e che allo stesso tempo si attaglia perfettamente alla practice del più classico Regietheater: cavar fuori dal guazzabuglio di ingredienti dell'originale un proprio Konzept e costruirci intorno l'intero allestimento. Purtroppo il rischio che comporta questa scelta è quello (tipico) di prendere una parte dell'originale per innalzarla a tutto. È come se, dovendo presentarci una grande villa settecentesca di 50 locali, con camere, saloni, corridoi, verande, biblioteche e scaloni, tutti ambienti diversi e magari anche poco coerenti fra loro, l'imbonitore ci mostrasse decine di fotografie, filmati, schizzi, disegni e riferimenti del solo letto a baldacchino su cui il marchese passava le notti con le sue favorite e/o vi aveva le sue visioni oniriche. Bellissima ed eccitante presentazione, peccato che della villa nel suo insieme e di tutti gli altri suoi componenti non ci arrivi alcunchè.
Ecco, Guth prende il solo risvolto freudiano-onirico, anzi per la verità solo onirico – importante, nessun dubbio, come lo è il… letto a baldacchino (smile!) – dell'originale e ci costruisce sopra tutta la sua Frau. Che sta a quella di HvH-RS – indovina, indovinello - precisamente come il letto a baldacchino sta alla villa settecentesca.
Dico subito che la sua concezione è realizzata con grande sapienza tecnica ed estetica (e ci mancherebbe anche, con quel che è costata…) ed ha perlomeno il pregio di non costringere lo spettatore a scervellarsi più di tanto, poiché tutti sanno che nei sogni può accadere di tutto, e ancor di più se i sogni sono incubi di una psicopatica (smile!) Peccato però che, se tutto è solo sogno/incubo, allora è fuori dalla realtà e al massimo sarà oggetto di analisi da parte di un qualche dottor Freud di passaggio: bisognerà quindi avvertire il nobile HvH che anche il suo lieto-fine conclusivo, comunque lo si debba interpretare, altro non è che un sogno! Inoltre, datosi che nel libretto compare per davvero un sogno, ecco che assistiamo all’invenzione, dopo il teatro-nel-teatro, del sogno-nel sogno… però, caro Guth, come fa uno poi a distinguere il sogno-funzione dal sogno-derivata-prima?
Per fortuna di noi poveri pirla, c'è sempre la possibilità di passar sopra, o addirittura rimuovere, ciò che l'occhio vede, lasciando tutto lo spazio – piccolo o grande che sia – della testa e del cuore a disposizione dei suoni. Poiché, con buona pace di Guth ma anche del grande HvH, senza la musica del businessman bavarese questa regìa farebbe solo sorridere e il pur geniale libretto troverebbe pochissimi acquirenti.
(Bisognerà che qualcuno inventi – ma non dovrebbe essere difficile, con le tecnologie audio-video-informatiche già disponibili quasi a livello individual – una modalità di rappresentazione di opere come questa in forma di concerto, ma con cantanti e orchestra dislocati sì sul palcoscenico, ma dietro schermi 3D su cui il regista faccia proiettare immagini evocanti ciò che l'orecchio ascolta. Ecco, uso un'iperbole, ma sarei pronto a sacrificare tutte le mie ricchezze di Berlusconi per vedere realizzato questo sogno…)
Tornando alla più prosaica realtà, una volta tanto (in Scala non è davvero poco, di questi tempi) gli addetti all'emissione di voci e suoni sono stati all'altezza del compito. Merito sicuramente di Marc Albrecht, che viene precisamente da quell'ambiente tedesco dove Wagner e Strauss si imparano fin dalla scuola materna (da noi ormai, i Va', pensiero, li scimmiottano solo in via Bellerio…) E dei professori, che forse per puntiglio sembrano dare il meglio di sé quando si trovano di fronte ostacoli impervi, e non il solito zum-pa-pa.
E naturalmente dei cantanti, qui di livello eccellente, prima fra tutti - per me - la Elena Pankratova, una Tintora davvero eccezionale, insieme agli altri quattro moschettieri, fra cui hanno brillato particolarmente la protagonista Emily Magee (Imperatrice) e la Michaela Schuster, una Nutrice che finalmente sa coniugare la truculenza con il canto! Johan Botha è un buon Imperatore (non vorrei però essere nei panni del suo cavallo, smile!) mentre il glorioso Falk Struckmann si salva grazie alle rimembranze che suscita di tanti Wotan… Ma tutti gli altri sono all’altezza, a partire dal postino Samuel Youn. I cori di Casoni debbono cantare sempre, o quasi, fuori scena, dislocati chissà dove (spero per loro non nei WC, smile!) per cui si meritano un'indennità speciale.
Resta da dire che quella che si ascolta anche qui è una Fr-o-Sch assai mutilata (Bychkov aveva promesso di farla integrale, poi… si è dato malato, smile!) Da tutti i tagli – peraltro usuali, e a suo tempo perlomeno tollerati dall'Autore – che anche Albrecht ha inferto al corpo mistico di quest'opera. Sono quantitativamente inferiori, per fare un esempio, a quelli apportati dallo straussiano-per-eccellenza Karl Böhm nell'edizione registrata dal vivo, nella notte dei tempi, a Vienna con Nilsson e Berry e tuttora fra le migliori in circolazione. Ma si tratta pur sempre di pagine e pagine di grande musica…
Nel primo atto, verso la fine della prima scena, c'è un unico, ma importante taglio: la strofa della Nutrice che proclama il suo disprezzo per la razza umana e si autodescrive come imbrogliona e la successiva breve esternazione dell'Imperatrice poco prima che le due si incamminino verso il mondo degli uomini.
Nel secondo atto, prima scena, è tagliata una parte del dialogo fra Nutrice e Tintora, dove la prima convince la seconda a chiudere gli occhi e prepararsi all'apparizione del Giovinetto. Altro taglio alla fine della scena, dapprima una parte dell'esternazione risentita della Tintora verso Barak, poi nel concertato (da birreria!) della mangiata-bevuta, le strofe dei fratelli di Barak e la sua risposta, prima dell'implorazione dei ragazzini mendicanti. Nella terza scena manca una strofa della Tintora, che dileggia Barak appena addormentatosi, e poco dopo, alla ricomparsa del Giovinetto, un'altra strofa della stessa Tintora, che disprezza la Nutrice e parte della successiva risposta adulante di quest'ultima. Più avanti un piccolo taglio (Nutrice, Barak, Tintora) al risveglio dell'uomo. Nel secondo episodio alla falconiera, con l'Imperatrice che sogna e poi grida la sua colpa nei confronti di Barak, è tagliato il breve interludio che segue e porta alla visione dell'Imperatore che va a farsi… pietrificare.
Nel terzo atto è tagliata la prima parte del breve recitativo dei violoncelli sulla prima strofa della Tintora, poco dopo l'inizio. Poi tagli corposi nel colloquio fra la Nutrice e l'Imperatrice, allorquando arrivano presso il tempio di Keikobad e la Nutrice cerca di dissuadere la ragazza dal procedere verso l'acqua della vita, promettendole per l'ennesima volta l'ombra. Quindi tagliato completamente il passaggio dove Barak prima e la Tintora poi, vaganti alla ricerca l'uno dell'altra, incontrano la Nutrice, che li inganna indirizzandoli in direzioni opposte. Quindi tagliata l'invocazione della Nutrice a Keikobad e il successivo rimbrotto del Messo come pure le invocazioni di Barak e della Tintora, che si mescolano allo scontro fra Nutrice e Messo (è di fatto uno straordinario concertato). Più avanti, un ampio taglio all'esternazione disperata (e parlata) dell'Imperatrice di fronte all'Imperatore pietrificato. Tagliata anche l'implorazione dell'Imperatrice a Keikobad, sulle disperate invocazioni di Barak e consorte. Infine, tagliati sia la parte finale della strofa dell'Imperatore al suo ritorno in vita che l'intero duetto di Imperatrice e Imperatore, contrappuntato dai bambini non nati e dalle 5 voci in orchestra, subito prima della scena conclusiva con i due umani.
Per chi non vuol privarsi di tanto ben di dio, esiste in commercio almeno un'edizione integrale, cui non manca una sola nota scritta da Strauss, registrata 20 anni fa in studio da Solti con i Wiener, Domingo, Behrens, VanDam, Varady.
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