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01 luglio, 2010

Un gratuito Faust alla Scala

La seconda recita del Faust (quinta in calendario, ma arrivata dopo tre annullamenti causa sciopero) è stata gentilmente offerta al pubblico dalla Direzione del Teatro. Che rimborserà il prezzo del biglietto, a risarcimento del danno provocato al livello artistico della rappresentazione dalle agitazioni delle maestranze, che anche ieri sera – pur non scioperando – hanno manifestato contro il decreto (anzi ormai la Legge-Bondi) presentandosi (orchestrali e coro) in abiti borghesi. Gesto – questo di Lissner - tanto squisito quanto eccessivo, datosi che il casual ai professori d'orchestra può addirittura far bene, lasciandoli più liberi nei movimenti (personalmente non avrei nulla in contrario che vestissero così anche a SantAmbrogio) e – non lo avessero annunciato nel pistolotto in apertura di spettacolo – forse nessuno si sarebbe accorto che il coro era in borghese, vista la totale improbabilità dei costumi di tutto il resto della compagnia.

Piuttosto, se un motivo per il risarcimento esiste, è da individuarsi nell'intollerabile sequela di lungaggini che ha esasperato un pubblico (assai scarso in platea e palchi, per la verità) costretto a sorbirsi 5 minuti di ritardo iniziale, cui se ne sono aggiunti almeno altrettanti per il proclama sindacale, accolto da applausi, ma anche da vivaci rimostranze (certo che il gradimento di Berlusconi fra il pubblico scaligero dev'essere un filino più basso del 68% sbandierato dal nostro PM ad ogni piè sospinto… forse è per questo che lui alla Scala non ci mette piede?) e poi addirittura 40 minuti di secondo intervallo, roba che neanche a Bayreuth! Col risultato di far abbassare l'ultimo sipario 10 minuti dopo mezzanotte, con gente che da un po' se ne andava alla spicciolata, per non perdere l'ultimo metrò.

Peccato, perché in fin dei conti questo Faust non è peggio di altre disdicevoli imprese di questa stagione scaligera. Nekrosius propone una regia piuttosto strampalata e piena di simboli ed ammiccamenti (vuoi bambineschi, vuoi ridicoli) ma con qualche spunto intelligente, e soprattutto non si sogna di inventarsi un Konzept che stravolga la sostanza dell'originale (messaggio per tali Dante e Padrissa, tanto per non far nomi, ma cognomi): insomma, ci presenta passabilmente il Faust di Barbier-Carré-Gounod, almeno nello spirito, se non proprio nella lettera. E la compagnia di canto (Kapellmeister incluso) sarà pure di livello modesto (per le pretese della Scala) ma non certo peggio di altre, anche assai più titolate, che hanno allietato le serate di questa stagione.

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Si comincia con il sipario che si alza poco dopo l'inizio dell'Introduction, mostrandoci Faust in un ambiente che presenta due vie di fuga, delimitate da strutture di legno: lui è effettivamente ad un bivio della sua esistenza: libri aperti cosparsi in giro sul pavimento, ed un grosso macigno (il fardello degli anni e della sapienza?) che il nostro cerca di spostare con gran fatica. Peccato che proprio mentre lui è curvo sotto il peso del pietrone, l'orchestra abbia ormai esaurito il suo tema cromatico e oscuro, e presenti quello dolce, in FA maggiore (quello dell'aria di Valentin) che francamente stride con ciò che lo spettatore vede. Due comparse abbigliate da rondoni (con le ali che paiono a volte delle stampelle!) si aggirano nell'ambiente (torneranno anche più avanti) forse a impersonare il destino (ma perché non sono direttamente dei corvi?)

Dopo le irruzioni di ragazze e contadini, che sviano l'attenzione di Faust dall'ampolla del veleno, arriva Méphistophélès: tutto nero come un pipistrello e con attrezzo atletico in spalla, un'asta che serve evidentemente a superare ostacoli apparentemente impossibili. Al seguito un piccolo marinaretto, che gli fa da aiutante, o da remora, tanto per movimentare la scena.

La visione di Marguerite è proposta tramite riciclaggio delle prefiche della Emma Dante, che accompagnano la ragazza (e che poi torneranno via via nel corso del dramma): un simbolo non proprio fuori posto, poiché – a differenza di Carmen – qui è già chiaro fin dall'inizio che tutta la faccenda puzza di …bruciato. Certo che la scena resta piuttosto poco poetica, a dispetto delle quattro battute con cui Gounod chiude il MI maggiore della visione, citando esplicitamente il Sogno mendelssohniano!

Méphistophélès dà a Faust il suo filtro di eterna giovinezza, e in cambio si beve il veleno destinato al professore (questa Nekrosius ce la dovrebbe spiegare). Poi, seguito dal discepolo ringiovanito e rivestito a nuovo (e dal marinaretto-remora) si avvia di rincorsa con la sua asta, a superare ogni ostacolo!

Il secondo atto inizia con la Kermesse, dove si dovrebbe vedere gente agitata e allegra. Qui appare il coro (in borghese, ma pochi se ne accorgerebbero) che resta però piuttosto fermo, lasciando a poche comparse (e alle prefiche ed altri oscuri individui, dei menagramo evidentemente) di mimare siparietti più o meno piccanti e di animare la scena. Questa sarà una costante: il coro sempre fermo, anche quando (valsons!) dovrebbe ballare il walzerone del finale d'atto. Che sia una stranezza della regia, o una forma di sciopero bianco anti-Bondi? C'è poi Wagner, con un gomitolone di spago in mano, il cui significato dovrà esser chiaro al regista e alla sua ristretta cerchia di amici.

Arriva Valentin ad esporre l'aria appositamente scritta da Gounod per un baritono inglese che si sentiva giustamente castrato, in assenza di un proprio pezzo di bravura. È accompagnato da Siébel, su cui val la pena dire un paio di cose. Ora, già ci ha pensato Gounod a prendersi gioco di lui, facendolo interpretare (en-travesti) da un soprano, ma Nekrosius mostra un accanimento degno di miglior causa, affibbiandogli una malformazione congenita, facendone insomma un povero paraplegico che zoppica in modo plateale. Roba da avanspettacolo, aggravata da altre gratuite ed offensive gag: come quella dove Méphistophélès gli infila sotto un piede una zeppa, per… chiudere il dislivello fra le due gambe!

Senza infamia né lode il resto, salvo la mancanza dell'esplicito gesto esorcizzante (le spade incrociate che tutti oppongono a Méphistophélès, e che qui si riducono a due giocattoli impugnati dal marinaretto…) Dopo il walzer che nessuno balla, con l'intermezzo dell'approccio di Faust a Marguerite, che dà modo al tenore di esibire il suo SI acuto, si chiude per il primo intervallo (solo una mezzoretta).

Il terzo atto si apre con un altro gratuito sgarbo del regista al povero Siébel, il cui cofanetto (sic!) colmo di fiori viene trafugato da Méphistophélès, insieme ad una lettera della cui presenza non v'è traccia nel libretto. Poi c'è la cavatina di Faust, col DO acuto della présence, e la presenza di Marguerite si materializza, con lei che avanza fino al proscenio portandosi dietro una sedia (Faust da parte sua ne maneggia un'altra) per poi uscirsene lateralmente (ma quanto lo pagano Nekrosius per queste trovate?)

Nella lunga scena dell'arcolaio, l'arcolaio manca, ma tanto è un dettaglio secondario. Al suo posto Marguerite gioca con una bambola (lei è davvero una bambina ingenua, non c'è che dire) e così canta i suoi recitativi che introducono la canzone del Roi de Thulé e l'aria dei gioielli, di cui la ragazza prende due enormi gocce, mentre si intravedono (ma solo dal loggione) anche montagne di perle dentro la vera e propria cassa del tesoro procurata da Méphistophélès.

La scena successiva (incontro Méphistophélès-Marthe e poi il quartetto a due coppie) si svolge non all'aperto, ma in un ambiente interno, nella casa, dove compaiono ancora prefiche varie, più che altro a distrarre l'attenzione dello spettatore. Poi il duetto fra Faust e Marguerite, introdotto dall'invocazione di Méphistophélès, in DO maggiore, che ricorda – orrore! – nientemeno che quelle di Brangäne nel secondo atto del Tristan. Marguerite, invece che alla finestra, si accomoda su una panca-divano sul proscenio per la sua esternazione, con i due che la spiano in un angolo. Poi Méphistophélès dà un bel pugno in testa a Faust (come dirgli: visto, stupidone?) e lo spedisce fra le braccia della ragazza, poi disteso per terra, accanto al divano su cui giace Marguerite (?!)

Nel quarto atto cominciano i tagli, prima vittima la scena e recitativo iniziale di Marguerite, che comincia dal Il ne revient pas! Qui si vede una piccola culla che a un certo momento viene letteralmente impalata, per poi precipitare a terra, a significarci la brutta fine che fa il piccolo di Marguerite. Altro taglio non da poco è la scena con Marguerite-Siébel e la romanza di quest'ultimo/a (Si le bonheur) per cui si passa direttamente in chiesa, dove arrivano due enormi croci nere, circondate e movimentate da prefiche, menagrami vari, rondoni e altri spiriti malignazzi, oltre al coro in borghese che canta il suo spurio dies-irae. Una scena davvero impressionante, nulla da dire.

Si torna in piazza, col famoso coro dei soldati e con Siébel che arriva zoppicando col suo immancabile cofano-pedana-sgabello, seguito dal reduce Valentin, ansioso di rivedere la sorellina. Invece arrivano Faust e Méphistophélès che, appeso alla sua asta (sorretta da un paio di prefiche) canta la sua oltraggiosa serenata, il che fa impazzire Valentin. Il successivo duello non esiste, in pratica: Valentin è sopraffatto da forze oscure e preponderanti, cade ferito e poi, come ogni eroe che si rispetti, prima di tirare definitivamente le cuoia ha ancora tempo ed energie per fare il suo pistolotto strappalacrime. Tutto come da copione.

Devastato – come prevedibile, altrimenti si finiva alle due di notte – il quinto atto. In pratica, salvo l'introduzione di Walpurgis e una piccola parte della scena del palazzo di Méphistophélès e della valle di Brocken, si passa direttamente alla prigione di Marguerite, dopo che la ragazza è apparsa a Faust in abito da sposa e in mezzo a bianchi gigli. Quindi niente Choeur des Feux Follets, niente Chant bachique. E - ci mancava pure ! – niente balletti. Faust e Méphistophélès arrivano alla prigione in carrozza chiusa, con asta sul tetto e l'immancabile seguito di marinaretto, prefiche e quant'altro.

La scenografia della prigione ribalta – intelligentemente – quella che aveva accompagnato il resto dell'opera (la doppia via di fuga, la Y, il bivio): qui abbiamo invece una V, un imbuto aperto sul proscenio e chiuso sul fondo: non ci sono e non ci devono essere alternative, né vie di fuga. Marguerite, invece del suo arcolaio, si è portata un tamburello per il punto-e-croce. Solo che – impazzita, poverina! – tiene il tamburello con due mani e manovra l'ago con i denti (grazie Nekrosius!)

Al termine del suo emozionante Anges purs, anges radieux! che sale dal SOL al LA e infine al SI, sul fondo comparirà una cosa bianca, a rappresentare evidentemente il paradiso – Christ est ressuscité, DO maggiore - concesso a Marguerite, che vi si adagia, mentre Méphistophélès cerca ancora di difendere il possesso della sua asta miracolosa.

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Come sono andate le cose sul fronte musicale?

Irina Lungu è stata per me una più che discreta Marguerite: bella voce, forse non potentissima, ma gradevole, senza urla né eccessivo vibrato. E perfettamente calata nella parte, di ragazza ingenua e fragile, facile preda e vittima di tutti i mali e pregiudizi della società. Per lei anche l'unico vero applauso a scena aperta.

A Nino Surguladze va almeno riconosciuto il merito di aver stoicamente sopportato le vessazioni del regista! Senza infamia né lode la sua prestazione, peraltro decapitata della romanza del quarto atto che è la parte forse più importante di questo ruolo.

Sylvie Brunet è stata una Marthe dignitosa, per ciò che la parte prevede. Così come dignitoso è stato Olivier Lallouette, che impersonava Wagner.

Il Valentin di Dalibor Jenis ha avuto luci ed ombre, gli darei una risicata sufficienza. Mi è piaciuto più nella scena della morte che nell'aria del secondo atto, dove mostrava carenze nelle note basse (il MIb di attacco).

Roberto Scandiuzzi mi è piuttosto piaciuto, dico la verità: un Méphistophélès abbastanza autorevole, voce che passa bene – pur se non sempre perfettamente intonata - e grande presenza scenica.

Marcello Giordani era Faust: si è beccato una contestazione, ma io tenderei a dargli una sufficienza chiara. La sua voce si è sempre sentita perfettamente, ha sparato i suoi due acuti in modo pulito, non ha commesso strafalcioni, e di questi tempi è già qualcosa.

Stéphane Denève ha diretto più che discretamente, mai soffocando le voci, neanche negli insiemi fracassoni e l'orchestra – grazie agli abiti casual? – è parsa a suo agio con le delicatezze e i languori di questo Gounod.

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Insomma, un Faust per nulla malvagio che sta – io non ho dubbi – ampiamente sopra la media del livello delle produzioni di questa stagione.

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