Dopo l’esordio nella scorsa stagione, il
rampante Robert Trevino è tornato sul
podio de laVerdi per il primo dei
suoi due appuntamenti stagionali (il secondo è previsto a maggio con la Sesta mahleriana). Per l’occasione il
giovane yankee ha scelto un
mastodonte sinfonico che peraltro è abbastanza di casa per l’Orchestra: la Settima di Shostakovich. E proprio in occasione
della penultima apparizione di questo lavoro (sotto la bacchetta dello
specialista Caetani) avevo scritto qualche riga poco, ehm... politically-correct su contenuti e
struttura della mappazza.
Che purtroppo, carica di mille
incrostazioni extra-musicali di cui si è ricoperta fin dalla nascita (cioè da
75 anni a questa parte) si fatica sempre ad apprezzare (nel bene e nel male)
come opera di ingegno, intesa come musica di per se stessa. Per i cittadini
russi (e non solo) del 1942 quella musica aveva un significato e un sapore
strettamente legato alle catastrofiche circostanze materiali in cui era venuta
alla luce: nessuno allora si interrogava sui suoi contenuti estetici, poichè la
sentiva soprattutto come una droga utile
a rigenerare le forze spirituali (e pure materiali) con cui affrontare il
nemico invasore (allo stesso modo la musica in modo frigio veniva impiegata fin dall’antichità per aizzare le
truppe in battaglia).
E gli stessi contenuti musicali furono
indubbiamente condizionati dallo scenario esterno: a partire dalla forma dell’opera, che doveva essere
inizialmente un poema sinfonico, poi
divenuto il primo movimento di una sinfonia
in quattro movimenti, tutti peraltro a loro volta sottotitolati (salvo successiva
revoca dei sottotitoli!) in modo più o meno ambiguo... E poi c’è il caso della marcetta continuamente variata,
rappresentante l’invasore, infilata come
corpo totalmente estraneo nel primo movimento, al posto dello sviluppo di una forma-sonata, e poi come
codetta. E così ecco che lo stesso
sottotitolo (Leningrado) - che ancor
oggi compare a definire l’opera, mettendone in primo piano le circostanze che ne
caratterizzarono l’origine – finisce per condizionarcene inevitabimente la
fruizione.
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Devo dire che Trevino ha lodevolmente
provato a farcela digerire senza troppi sforzi, aggiungendovi un po’ di alka-seltzer, sotto forma di alcuni
trucchetti che evidentemente il 33enne texano ha ben assimilato da suoi illustri
predecessori: anticipare di qualche battuta i cambi di agogica, infilare
qualche sapiente rubato qua e là, oltre
che girare sul massimo la manopola del contrasto,
cosa che garantisce sempre il risultato, evitando cali di... concentrazione nel
pubblico.
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