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20 gennaio, 2018

Il Pipistrello è arrivato a Milano


La Scala ha ospitato ier sera la prima (assoluta, attenzione, non stagionale!) di Die Fledermaus, in una nuova produzione pensata proprio per questo evento più-unico-che-raro. Che però non è andato esente dai colpi della sfiga, materializzatasi sotto forma di forfait del mitico Direttore che doveva garantirne il sicuro successo. Pazienza, a Mehta facciamo sinceri auguri di tornare presto, e tanto basta. 

Prima dell’inizio le maestranze del Teatro hanno voluto sollevare l’attenzione del pubblico - chiedendo un minuto di silenzio - sui recenti casi di morti sul lavoro, fatti accaduti in questi giorni proprio qui a Milano e a Brescia. Che purtroppo ci danno la prova che ancor oggi il mondo reale è assai lontano da quello da cartolina illustrata che ci viene proposto sul palcoscenico.
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La prima curiosità che sorge quando si parla di quest’operettaopera è il taglio che il regista (in combutta con il concertatore, per la verità) sceglie di darle: ambientazione generale e particolari scelte di dettagli più o meno rilevanti.

Il 49enne viennese Cornelius Obonya, che col Pipistrello ha una certa familiarità - avendo una volta interpretato, sulle orme del grande Otto Schenk, il ruolo parlato di Frosch – ha deciso di spostare l’ambientazione spazio-temporale del soggetto (attenzione, luogo e tempo indicati addirittura sul frontespizio del libretto, e non semplicemente citati nelle note-di-regìa!) trasferendone i luoghi da una località termale nei pressi di Vienna ad un lussuoso ed esclusivo resort di una stazione sciistica delle Alpi austriache, e l’epoca dal 1874 (anno di nascita dell’opera) all’altroieri mattina. Heike Scheele ha all’uopo allestito scene lussuose (atto terzo escluso, va da sè) e disegnato costumi elegantissimi.   

Quanto ai dettagli, Obonya ha scelto l’edizione a suo tempo predisposta per Londra dal suo maestro Gerhard Bronner, che comporta la presentazione in lingua locale (quindi qui in italiano) di una buona parte dei dialoghi parlati. Un paio di libertà registiche riguardano la mutazione di sesso del principe Orlofsky (che diventa l'oligarca Orlofskaya, ragion per cui il mezzosoprano che la interpreta cessa di essere en-travesti) e poi l’entrata in scena fuori tempo di Falke (nel terz’atto). Un discorso tutto speciale riguarda la figura di Frosch, guardiano della prigione, tradizionalmente impersonato da attori (più o meno seri o da avanspettacolo) che si esibisce in sproloqui che toccano l’attualità e la cronaca quotidiana. Qui è simpaticamente interpretato da Paolo Rossi, che intanto appare già nel primo atto (senza dire una parola) al seguito di Frank e che nel terzo si dilunga in un monologo di satira politica e di costume, chiudendolo cantando una canzoncina irriverente.

Sul piano musicale abbiamo una discrepanza rispetto al libretto pubblicato: nel second’atto, al momento dei balletti, niente polka Marianka, ma la più famosa e inflazionata Unter Donner und Blitz, che dà modo al Corpo di Ballo scaligero di sciorinare le sue qualità, grazie alle coreografie di Heinz Spoerli. Non mancano ovviamente reminiscenze di musiche e arie famose: nel primo atto Alfred canta Sì, rivederti Amelia e poi Eisenstein, al posto del wagneriano Addio di Wotan (indicato nel libretto) e in omaggio alla Scala, canta il pucciniano Addio fiorito asilConfermata invece la discrepanza fra il libretto impiegato qui e quello originale, rispetto ai due Couplets di Orlofsky, che qui invece di apparire in sequenza vengono separati (come a Londra) con l’anticipo del primo, eseguito ben prima dell’arrivo di Eisenstein.  

Tutto sommato un allestimento gradevole, dove l’ambientazione moderna non reca troppi danni a quell’atmosfera così speciale e davvero unica che caratterizza la straussiana Vienna-di-fine-800.
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Cornelius Meister è ormai uno specialista, ha mandato tutta la musica a memoria e la dirige con grande brio e (forse eccessivo) entusiasmo, il che lo porta talvolta ad eccedere, coprendo le voci dei cantanti. L’Orchestra ha forse scarsa dimestichezza con questo genere di musica, ma mi pare abbia risposto più che dignitosamente.  

Tornando alle voci, spiccano quelle maschili: prima fra tutte quella del consumato Werba (un impeccabile Falke); ma anche quelle dell’ottimo Berrugi (Alfred) e del protagonista Sonn; bene anche il Frank di Kraus e il Blind di Spicer.

Qualche perplessità invece mi hanno lasciato le voci femminili: la Mei ha fatto (per me) bene soltanto nella czarda (che forse, essendo il brano più famoso e difficile, lei ha preparato meglio); per il resto ha mostrato evidenti problemi di intonazione e acuti non proprio edificanti. (Che avesse perennemente gli occhi puntati verso il podio non è un buon segno.) La Fally è stata un’Adele cui do un buon voto, che sarebbe ancor migliore se lei avesse qualche decibel in più (qui però anche Meister ha avuto le sue colpe nel coprirla più di una volta). La Maximova (Orlofskaya) ha un gran vocione che passa anche sopra orchestra e coro, forse da meglio disciplinare, ecco. L’accademica Capitelli ha fatto bene la sua piccola parte di Ida.

Sempre all’altezza il Coro di Casoni

Bene, uno spettacolo che mi ha ampiamente soddisfatto; cosa che a quanto pare vale anche per il folto pubblico, che ha riservato lunghi minuti di applausi per tutti.

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