Il prossimo venerdi (19) alla Scala
andrà in scena - per la prima volta in assoluto, dal lontano 1874! – Die Fledermaus, operina-operetta-singspiel-divertissement-vaudeville,
o come la si voglia definire, del papà (o figlio, ecco) del Walzer, Johann Strauß jr. Come (troppo...)
spesso accade, uno dei protagonisti, forse il principale, dello spettacolo, il
venerabile Zubin Mehta, ha dato
forfait causa convalescenza da un’operazione alla spalla e così Pereira ha
dovuto ripiegare sul (comunque) solido Cornelius
Meister, che speriamo non faccia rimpiangere troppo il grande assente.
Si usa
normalmente attribuire alla straussiana(-bavarese) Rosenkavalier la qualifica e l’onore di opera rappresentante, al
più alto grado, uno spaccato della
società e della vita viennesi a cavallo fra ‘800 e ‘900. Beh, forse sarebbe il
caso di rettificare, almeno in parte, questo giudizio. E non certo perchè lo
straußiano(-viennese) Fledermaus possa pretendere di competere
artisticamente, esteticamente e musicalmente con il capolavoro del grande Richard (il solito Hanslick ne
scrisse come di musichetta...) ma
perchè dipinge e mette alla berlina, con dissacrante e cinica parodia, la
corruzione dei costumi della civiltà viennese dei tempi del Re del Walzer,
mentre il Rosenkavalier, se letto e osservato bene e da vicino, nella lettera
come nello spirito, di quella società presenta e ricorda (e rimpiange, semmai)
le remote, sane ed eroiche origini settecentesche.
Nel Fledermaus non c’è
un solo, ma proprio neanche mezzo, personaggio cui attribuire caratteri
positivi: dal primo all’ultimo, sono tutti gente arida, ipocrita,
approfittatrice, priva di scrupoli e di morale. Vediamo: Eisenstein è un ricco ereditiere (volgarmente:
mangiapaneatradimento) dedito a intrallazzi e a tradire la moglie. La quale (Rosalinde) ha contratto un matrimonio di
pura convenienza, così quando il marito se ne va... in galera lei trova il
tempo (sotto apparenti profferte di fedeltà) di ripagarlo ipocritamente della
stessa moneta con tale Alfred, tenore
e maestro di canto del travestito
Orlofsky, che è un classico rampollo di boiardo russo, verosimilmente un affamatore
di contadini. La servetta di Rosalinde (Adele)
sa benissimo come sfruttare la situazione in quella famiglia di spregevoli
padroni (e poi a casa del russo) e si fa i cazzi propri inventando fandonie in
quantità industriale. Il mefistofelico dottor Falke è degno sodale di intrallazzi e di avventure di Eisenstein,
che non esita a sputtanare – preparandogli un gran trappolone - in risposta
all’esser stato da lui sputtanato tempo addietro, quando fu esposto al pubblico
ludibrio, bardato appunto da pipistrello. Frank
è un direttore di carcere dalla deontologia degna di un camaleonte. Blind (un nome, una certezza!) un
azzeccagarbugli da strapazzo. E fermiamoci pure qui, per pietà degli altri minori.
Il Cavaliere si chiuderà infatti
sull’apertura delle porte di un nuovo mondo (Sophie & Octavian) fatto di sincerità e di libertà di scelte e
sulla stipula di un nuovo, più moderno patto sociale (Marie-Theres’ & Faninal). Nessuna morale seria, in senso
stretto, si può invece cavare dal Pipistrello, dove alla fine della storia (quintessenza
di amoralità e di penuria di sani principii) tutto sembra tornare alla
normalità e quindi... al preesistente degrado di una società senza ideali e perciò
senza futuro. Una società che invece di interrogarsi sulle cause di eventi come
il crack della borsa viennese del
1873, seguito alle ubriacature finanziarie dell’Esposizione Universale, e la contemporanea epidemia di colera,
sperava di dimenticare tutte le sue disgrazie ballando il walzer e brindando a champagne!
Ne
combinano ovviamente di cotte e di crude, meriterebbero tutti, per come si
comportano, di finire in galera, e invece... dalla mattinata trascorsa nei
locali della galera riemergono tutti ipocritamente purificati e riabilitati dai
loro peccati, pronti a riprendere seduta stante la loro normale quanto
spregevole esistenza, dopo un bel brindisi a champagne. Insomma, una storia assai poco edificante, di cui la
brillantezza della musica e le scenette esilaranti finiscono, invece che per
mascherare, per accentuare al contrario tutta la carica negativa.
___
La Scala pare volersi distinguere per
approccio politically-correct, e
così, decidendo di rispettare la volontà dell’Autore riguardo al principe Orlofsky
(mezzosoprano en-travesti) revoca lo status alla cantante, presentandocela
come Princesse Orlofskaya, roba da
bigottismo davvero degno di miglior causa...
Altra curiosità nel cast riguarda l’interprete dell’avvinazzato carceriere Frosch,
figura tradizionalmente affidata a personaggi da avanspettacolo. In origine la
Scala aveva scelto nientedopodomanichè Nino
Frassica, poi ha ripiegato su Paolo
Rossi, come dire... dalla padella nella brace.
Da ultimo non si può non ricordare la
faccenda dei balletti che precedono
la chiusura dell’Atto secondo. Strauß ha previsto una
lunga e cosmopolita sequenza di danze, in omaggio agli invitati stranieri di
Orlofsky (Vienna aveva ospitato per l'appunto l’Esposizione
Universale): peccato che si tratti – stranamente – di musica di ispirazione
miserella, come si può constatare qui, in una registrazione completa dei
balletti eseguita da Karajan nel 1960: Spagna,
Scozia (1’22”), Russia (2’19”), Bohème (3’43”), Ungheria (5’11”,
che riprende la czarda cantata poco
prima da Rosalinde). E così Harnoncourt si limita a presentare le sole
ultime due danze (da 1h41’28” a 1h44’55”). Ecco che allora, già dai
tempi delle prime recite, si preferì l’adozione di musiche, diciamo più...
trascinanti, quali le polke tipo Trisch-Trasch
o Unter Donner und Blitz (qui appunto
quest’ultima, adottata dal sommo Karl
Böhm – che
peraltro fa cantare il diciottenne Orlofsky al venerabile Windgassen... - da 1h32‘33“
a 1h35‘56“).
Più recentemente, in questa recita del 1977 a Londra, diretta manco a farlo apposta da Zubin Mehta, al posto dei 5 balletti originali vengono inseriti (da 1h31’00” a 2h01’53”) addirittura 30 minuti di vero e proprio spettacolo-nello-spettacolo, dove assistiamo (1h31’40”) alla Explosions-Polka; poi (1h34’35”) a Prey che canta il Lagunen-Walzer da Eine nacht in Venedig; quindi (1h38’20”) ad un’esibizione di Barenboim (in Chopin) e poi di Stern (in Mendelssohn, 1h48’55”) prima della chiusura (1h56’05”) con il famoso Frühlingsstimmen. Nell’atto di apertura, con un certo sprezzo del buongusto (cosa non infrequente nello humor albionico...) ci tocca pure di ascoltare (27’26”) l’Addio di Wotan!
Nel
1990, sempre a Londra, ci fu un gala dedicato alla Sutherland, con Pavarotti e Horne. Beh,
vedremo alla Scala con che cosa ci sorprenderanno.
___
(1.
continua)
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