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02 novembre, 2019

Alla Scala è in arrivo una novità assoluta


C’è sempre una prima volta... mai dire mai, insomma. Ecco, dal 6 novembre la Scala ospiterà - a soli 90 anni di distanza dalla sua apparizione sulle scene! - Die ägyptische Helena, la nona opera (decima, contando le due Ariadne) di Richard Strauss, completata a Garmisch sabato 8 ottobre 1927.

Ma prima che di Strauss si deve parlare di Hugo von Hofmannsthal, il geniale letterato viennese che fornì - sesta di sette volte, sempre contando entrambe le Ariadne - al birraio (per parte di madre) bavarese la materia prima poetica da rivestire di sontuose e mirabili note. E da dove il grande Hugo prese a sua volta lo spunto per il suo libretto? Intanto va confermato che sì, questa Helena è precisamente la mitica Elena di Troia. Meno immediato è però spiegare l’attributo che Hofmannsthal le appiccica nel titolo dell’opera: egizia? Egizia poichè il soggetto tratta dell’arrivo forzato e della permanenza di Elena e Menelao sull’isola egiziana di Etra (poi molto più a ovest, alle pendici dell’Atlante, come minimo nell’attuale Tunisia) ospiti dell’omonima principessa, che è accasata con Poseidon(-Nettuno) ed ha doti soprannaturali, oltre a possedere una gigantesca vongola che ha qualità di veggente. Invenzioni di Hofmannsthal? Non proprio. E allora la prendo alla lontanissima...

A scuola abbiamo imparato (oh, parlo di tempi remoti, oggi non saprei dire cosa si insegni nelle aule...) a conoscere Elena dall’Iliade di Omero (che le più precise ricerche ci informano essere vissuto in un breve periodo che va dal 1100 al 700 avanti Cristo!) In realtà l’Iliade tratta solo degli ultimi giorni della guerra di Troia (in particolare dell’ira di Achille contro Agamennone...) e Omero relega il ricordo del motivo scatenante di tale guerra in pochi versi dell’ultimo libro del suo poema. Dove riferisce del rifiuto di Giunone (, Nettuno) e Minerva a restituire ai troiani il corpo del caduto Ettore, rifiuto motivato dal persistente odio verso Troia delle due dee, a suo tempo offese da quel Paride - giudice monocratico al concorso di miss-Olimpo - che a loro aveva preferito Venere, in cambio dell’accesso alla proprietà della donna più bella del creato (oltre che già accasata...)

L’Egitto? Per Omero nell’Iliade non esiste, ma lo si trova nell’Odissea (Libro IV) dove Menelao, tornato a Sparta e riconciliatosi con Elena, racconta a Telemaco (colà in cerca del padre Ulisse) di esser stato costretto - di ritorno da Troia - a far sosta in Egitto e precisamente sull’isola  di Faro, dove regnava Proteo (un dio del mare tirapiedi di Nettuno, capace di trasformarsi in qualunque cosa e dalle qualità divinatorie) e dove una figlia di costui, Eidothea, lo soccorse, aiutandolo poi a carpire al padre il segreto per riprendere il mare e tornare a casa. Questi particolari cominciano a farci capire da dove Hofmannsthal abbia potuto trarre l’idea per il suo soggetto: l’isola di Etra dell’opera sarebbe quindi Faro; l’Etra personaggio può incarnare Eidothea, mentre sullo sfondo appare anche Poseidon. Sono comunque tutti particolari che riguardano il viaggio di ritorno di Elena e Menelao da Troia.

Ma dal libretto dell’opera scopriamo qualcosa che in Omero è del tutto assente: l’esistenza di due Elene, perbacco! Etra rivela a Menelao che la Elena fuggita a Troia con Paride era in realtà un fantasma (eidôlon) creato dagli dei per salvare Menelao dagli effetti del patto scellerato proposto da Venere a Paride: la vera Elena è sempre rimasta lì, addormentata in un palazzo ai piedi dell’Atlante, in attesa di essere risvegliata da Menelao! Di nuovo: invenzioni di Hofmannsthal? Nossignori. Esiodo (700-600 a.c.) poi Stesicoro (600-500 a.c.) e ancora Euripide ed Erodoto (400 a.c.) - per citare solo qualche nome di aedi della mitologia greca - ci hanno raccontato la storia (anzi più storie) delle due Elene. Per farla breve: dopo aver rapito la donna col favore di Venere, Paride si mette in viaggio (quello di andata, per Elena) verso Troia. Finiscono però a Faro, dove Proteo produce l’incantesimo, consegnando a Paride la fake-Elena (l’eidôlon) e trattenendo presso di sè l’Elena genuina.

Ora va detto però che Hofmannsthal non crede una parola di Esiodo, Stesicoro, Euripide ed Erodoto: nel suo libretto c’è una sola Elena, quella reale, quella rapita da Paride e portata a Troia, e poi recuperata da Menelao dopo 10 anni di assedio. La Elena che Menelao, credendola consenziente e offertasi non solo a Paride, ma anche a fratelli ed amici (l’epiteto che oggi affibbiamo alle prostitute non viene forse da lì?) non riesce a perdonare ed è tentato continuamente di uccidere - nella realtà, sulla nave, ma anche nel delirio provocatogli dagli Elfi di Etra - per punirne il tradimento. L’Autore trasforma genialmente la stravagante storia delle due Elene in un’invenzione della maga, che la usa per convincere Menelao che Elena sia rimasta pura e casta come quando gli fu rapita. E per completare l’opera fa bere ad entrambi i coniugi un filtro dell’oblio, prima di metterli comodamente a letto, sul quale li farà volare ai piedi dell’Atlante (fine dell’atto primo) perchè vi trovino l’ambiente adatto per riconciliarsi pienamente. 

A proposito di incantesimi, Hofmannsthal introduce appunto i due filtri magici di Etra (oblio e ricordo) che paiono a prima vista mutuati da Götterdämmerung. In realtà è ancora Omero, sempre nel Libro IV dell’Odissea, a narrare di filtri dell’oblio e del buonumore versati proprio da Elena nel vino offerto ai suoi visitatori; e poi (Libro IX) a raccontare degli analoghi effetti del loto. Il trattamento che Hofmannsthal fa dei filtri sembra peraltro richiamare in parte anche il Tristan: Menelao (atto secondo) è convinto di bere un filtro di morte, che lo riunirà alla vera Elena, che crede di aver ucciso (atto primo) in preda al delirio; invece - grazie alla coraggiosa decisione della donna di affrontare a viso aperto la realtà - è il filtro del ricordo che ottiene il ritorno e il trionfo dell’amore, suggellato dal ricongiungimento della piccola Ermione con i riappacificati genitori. Un chiaro segno - già esplicitamente emerso dalla FroSch - dell’attenzione degli Autori ai problemi della condizione femminile e del loro riconoscimento del Weibes Wert.

Un’ultima osservazione sul libretto riguarda la presenza sulla scena dei guerrieri di Altair e del giovane Da-ud e la scena di caccia che ne segue. Lo spunto può essere vagamente venuto ad Hofmannsthal dalla lettura di Euripide ed Erodoto, che narrano due (peraltro diverse) storie di scontri di Menelao&C con il popolo di Proteo in Egitto, prima di poter salpare finalmente verso casa. Ma il drammaturgo viennese va assai al di là di questi prosaici dettagli: da un lato la scena gli serve per far rivivere quasi in sogno a Menelao il momento della perdita di Elena (rapitagli mentre lui era fuori a caccia) e i giorni di Troia (Da-ud = Paride); ma anche per proporci una riflessione sulla guerra (...tutti quanti gli altri che per me sono morti senza premio!): non dimentichiamo che Helena nasce proprio a pochi anni dalla fine dell'orrendo massacro della WWI, dalla quale anche i due Autori erano usciti sconfitti...
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Insomma, un libretto mirabile uscito dalla penna (e ovviamente, prima ancora, dalla mente) di un grandissimo letterato; ma un testo difficile da afferrare d’acchito (prova ne sia che i due Autori sentirono il bisogno di produrre sinossi e spiegazioni da distribuire agli spettatori delle prime rappresentazioni) e che può apparire bizzarro, astruso, contorto ed eccessivamente simbolista o... freudiano. Si spiegano forse così le alterne fortune dell’opera, compresa l’indifferenza della quale fu gratificata in Italia, dove arrivò (a Cagliari) solo nel 2001, e ben tagliata!

Un testo che sembra ricalcare - nel consolante finale che riafferma il predominio dell’amore coniugale e dei legami famigliari - le precedenti (e magari più fortunate) esperienze del Rosenkavalier, di Ariadne e della FroSch e in qualche modo anche la successiva Arabella. Concetti che - magari praticati assai più prosaicamente - furono sempre condivisi anche dal compositore.

Ed ecco perciò arrivato il momento di dire due parole sulla musica. Quando l’Helena vide la luce (Dresda, mercoledi 6 giugno 1928) erano passati due anni e mezzo da quel lunedi 14 dicembre 1925 che aveva visto nascere, a Berlino, il Wozzeck di Berg! Per dire quanto duro a morire fu il tardo-romanticismo straussiano, pur minato da ogni parte: dalla tragedia della WWI sul piano dell’attualità dei soggetti da portare in scena, e dalla rivolta espressionista-seriale su quello musicale, che avevano originato, appunto, il Wozzeck. (E Strauss ebbe la forza e la cocciutaggine di mantenersi sempre fedele al modello della sua vita, producendo immortali capolavori anche dopo la nuova tragedia della WWII e il crollo del nazismo, che poco dopo avrebbero aperto la strada alla più masochistica stagione della musica occidentale...)

Nella Helena ritroviamo, si potrebbe dire, il solito Strauss: melodie entusiasmanti costruite col più piatto diatonismo; effetti timbrici straordinari e di grande raffinatezza; orchestrazione lussureggiante senza mai essere opprimente. Insomma, un piacere per l’orecchio, che resta appagato senza dover fare sforzi di comprensione o decifrazione, precisamente il contrario di ciò che si rende necessario riguardo al testo! 

In compenso - e anche questa è di certo una concausa delle non brillanti fortune dell’opera, insieme alle difficoltà di comprensione del soggetto - la partitura richiede la presenza di tre-quattro voci davvero importanti: in particolare poi quelle dei due protagonisti, impegnate allo stremo.

Dell’opera esistono due versioni ufficiali (a parte tutte quelle spurie ottenute tramite tagli dai vari Direttori...): a quella del 1928 Strauss apportò alcune varianti (1933) accogliendo suggerimenti di Clemens Krauss e del regista austro-americano Lothar Wallerstein, che principalmente riguardano il second’atto (cifre 150-162 della partitura). Fra pochi giorni alla Scala i responsabili dello spettacolo saranno Franz Welser-Möst e Sven-Eric Bechtolf, con un cast che si annuncia assai promettente. Stay tuned (...se vi pare).

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