In attesa della prima in TV, quando si materializzerà
compiutamente l’allestimento di Davide
Livermore, si può intanto fare qualche considerazione sul soggetto di Tosca
in relazione alle possibili scelte di rappresentazione.
Per ben più di mezzo
secolo a partire dalla sua comparsa (1900) era generalmente, per non dire
sistematicamente, invalsa la tendenza a considerare l’opera come legata a
doppio filo allo scenario spazio-temporale della Roma del 1800: troppi essendo
i riferimenti minuziosi (a volte maniacalmente minuziosi) a luoghi, accadimenti
e personaggi della città eterna o ad essa strettamente legati. Innumerevoli poi
i riferimenti religiosi, contenuti non solo nel testo cantato (Angelus, TeDeum) e nelle didascalie di scena (chiesa, cappella,
acquasantiera, sagrestia, chierichetti, crocifissi, campane, cardinali, guardie
svizzere, ...) ma chiaramente presenti nella musica, ricca di motivi costruiti con tecnologia ecclesiastica (scale modali e a toni interi). Insomma, un’ambientazione
spazio-temporale diversa da quella fissata dal libretto sembrava del tutto da
escludersi, dato che avrebbe necessariamente comportato troppe e pesanti
incongruenze con testo e musica cantati e suonati.
Poi però il teatro di regìa ha pian piano fatto la
sua... breccia di Porta Pia (!!) Una delle prime
trasposizioni (o attualizzazioni) del soggetto fu quella operata a Firenze nel
1986 da Jonathan Miller, che ambientò
l’opera (in una Roma per nulla oleografica, peraltro) alla fine del ventennio
fascista. La cosa fece abbastanza scalpore, ma tutto sommato e a mente fredda ci
si rese conto che in fondo tra il regime fascista - peggiorato se possibile dall’occupazione
nazista - del 1943, a noi assai vicino, e quello papalino - peggiorato dalla
tutela borbonica - del 1800 non c’erano poi così tante differenze, almeno
guardando alla sostanza politico-religiosa-culturale del soggetto.
E probabilmente molti degli
spettatori del Maggio fiorentino che avevano ancora vivido il ricordo degli
ultimi anni del fascismo non faticarono ad apprezzare l’appropriatezza
dell’accostamento delle note di Puccini a quello scenario ancor fresco nella
loro memoria. Questo prezioso video di
mamma-RAI ci mostra le prove di quello spettacolo con Zubin Mehta che dirige e il regista che ci
spiega la sua concezione e le ragioni che lo spinsero ad operare quell’attualizzazione del soggetto; e poi
mostra la sua grande cura per i dettagli di recitazione.
Se guardiamo agli
ingredienti del dramma, è pacifico elencare: religione, politica, sentimenti e
comportamenti. Tutti piani che si intersecano e che si influenzano
vicendevolmente. L’immediata spina dorsale del soggetto è la politica: la
repressione di ogni forma di opposizione al potere, da poco restaurato. Il
quale, nella fattispecie, è anche potere religioso. Ispirati alla religione e
al rispetto della relativa autorità sono i sentimenti della protagonista,
Tosca, che però tiene comportamenti che lei stessa ammette essere peccaminosi.
Altri protagonisti (Cavaradossi, Angelotti) professano sentimenti e tengono
comportamenti laici e in aperta o coperta opposizione all’autorità
politico-religiosa. Uno, Scarpia, espressione massima del potere (politico-religioso)
professa sentimenti religiosi ma tiene comportamenti criminali (schiavo com’è
delle sue libidini) perchè protetto dal potere praticamente assoluto che
concentra nelle proprie mani. Ed è proprio Scarpia il centro dell’opera: che si
apre sui suoi accordi, sinistri quanto retorici, volgari e - nelle sfumature
ecclesiastiche - quasi blasfemi; e la cui figura (musicale!) incombe
di continuo e anche dopo che Tosca l’ha spedito all’aldilà...
Già da queste
constatazioni si potrebbe avanzare qualche dubbio sull’imprescindibilità
dell’ambientazione a Roma-1800 del dramma. A Parigi (vedi Chénier) in quegli stessi anni gli oppositori del potere o le menti
libere non se la passavano tanto meglio rispetto ad Angelotti e Cavaradossi...
e anche ai giorni nostri non mancano regimi teocratici o ipocritamente laici
che soffocano (anche nel sangue) ogni opposizione (nulla di nuovo sotto il
sole...) Ma poi, se è vero, come è vero, che il centro dell’opera, quasi e più
che Tosca, è Scarpia, ecco che allora gli ingredienti fondamentali del dramma diventano
i sentimenti e i comportamenti. Di uomini e donne sotto tutte le latitudini e
in ogni tempo. E così in questi ultimi anni si sono moltiplicate le regìe che
hanno fatto tranquillamente a meno di Roma e magari anche della religione, e
hanno ambientato l’opera in uno spazio-tempo astratto, estrapolandone quasi
esclusivamente gli aspetti relativi al rapporto fra l’individuo e il potere (normalmente
corrotto e abietto): cioè Scarpia al vertice di un triangolo, a sovrastare gli
altri due angoli, Tosca e Cavaradossi. Basterà ricordare al proposito gli
allestimenti di Lehnhoff (Amsterdam,
1998, guarda caso con Chailly!) o di Bieito
(Oslo, 2017).
Altri temi che si possono
estrapolare dal soggetto e che sono già stati al centro di interpretazioni dell’opera
(Carsen, Anversa, 1991) riguardano la
posizione dell’artista nella società: in particolare quella di Tosca, portata
professionalmente a recitare sempre,
scambiando la realtà per il palcoscenico e rimanendone stritolata. Ma anche quella
di Cavaradossi, vittima di utopie, di infatuazioni ideali, e in fin dei conti della
propria irresponsabilità.
Personalmente non ho nulla
contro ri-ambientazioni o trasposizioni, purchè non snaturino il soggetto
originale, o lo distorcano esaltando solamente una delle sue componenti mentre trascurano
o ignorano le altre: purtroppo invece è tipico di molte regìe moderne prendere
uno degli aspetti (a volte, ma non sempre, il più vistoso o importante) del
soggetto ed amplificarlo e dilatarlo fino a far scomparire tutti gli altri. È
come se, dovendo presentare una cattedrale, si focalizzasse l’intera
presentazione sull’altar maggiore, mostrandone ogni minimo dettaglio e ogni
preziosità, ma dimenticando le navate, i rosoni, l’esterno della facciata e
tutto il resto della costruzione. Tradotto con una battuta: Tosca non è Lulu... anche se la contiene.
Naturalmente qualcuno ha
continuato a inscenare Tosca con la più assoluta fedeltà alla lettera del testo.
Manco a dirlo, Franco Zeffirelli, che
ormai quasi vent’anni fa fu chiamato a Roma per celebrare i 100 anni di Tosca,
e sfornò questo gran maritozzo! (Invece noi a Milano recentemente abbiamo dovuto soffrire - e
per due stagioni! - l’inqualificabile allestimento di Bondy, un vero affronto all’intelligenza, oltre che a Puccini e al
suo capolavoro.)
Per concludere, molto
sommariamente si possono distinguere due approcci di fondo all’interpretazione
di Tosca: quello (tradizionale) che considera l’opera come un tipo, dalle caratteristiche uniche e irripetibili,
quindi da rappresentare così come prevede la lettera del libretto; l’altro (più moderno, quanto meno perchè più
vicino temporalmente a noi) che tende invece a vedere in Tosca un archetipo, quindi potenzialmente rappresentabile
prescindendo dall’involucro contingente del quale è stato rivestito dagli Autori.
Quindi, staremo a vedere
cosa ci propina Livermore. In
questa sua esternazione pubblicata sul sito del Teatro il regista racconta
molte cose interessanti e qualche ovvietà. Ma una cosa pare chiara: lui vede Tosca
come un tipo (“quella storia lì!”) e non come un archetipo. Cioè... Zeffirelli (?!?)
(3. continua)
(3. continua)
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