intime gioje

chiuder la prigione e buttar la chiave

19 settembre, 2024

La farsa di Rota chiude in bellezza il suo ritorno in Scala.

Ieri sera il Piermarini (pubblico non oceanico) ha ospitato l’ultima recita de Il cappello di paglia di Firenze, ritornatovi dopo ben 26 anni (1998, Direttore Campanella, regìa di Pizzi e Florez protagonista).

Questa produzione è affidata all’Accademia scaligera e dà quindi l’opportunità di mettersi in mostra a cantanti, coristi e strumentisti di belle speranze. E la farsa di Rota si adatta perfettamente a questo scenario.

Opera composta nel primo dopoguerra, in piena temperie da Neue Musik, da un musicista 34enne che rimase sempre testardamente legato alla tonalità, diventando quindi beniamino del pubblico normale, e bersaglio di lazzi e sberleffi da parte dei bidelli di Darmstadt. Ma in definitiva il tempo, essendo galantuomo, ha dato ragione a lui!

Donato Renzetti – non per nulla dirige stabilmente la Filarmonica Rossini di Pesaro! – è proprio il Direttore più adatto a cogliere i sotterranei (ma anche espliciti) richiami di Rota alla tradizione sette-ottocentesca, trasmettendoci tutta la freschezza e la poesia di questa partitura. E i ragazzi in buca lo hanno lodevolmente assecondato con una prestazione spumeggiante.

Lo stesso dicasi per il Coro di Salvo Sgrò, super-impegnato nelle folli peregrinazioni per Parigi e dintorni, cui è involontariamente costretto dall’imperativo categorico del povero Fadinard: trovare a qualunque costo il maledetto cappello di paglia!

Il cast vocale (che ha previsto nel corso delle cinque recite sette avvicendamenti, su 12 interpreti) era lo stesso della prima del 4/9 con l’unica eccezione di Anaide. E devo dire che tutti hanno mostrato ottime qualità vocali ed efficace immedesimazione nelle caratteristiche dei personaggi. Merito sicuramente di Renzetti e Acampa. Sarebbe ingeneroso per tutti stilare classifiche e assegnare voti, per cui mi limito – come del resto ha fatto il pubblico entusiasta alla fine dello spettacolo - ad accomunare tutti in un incondizionato elogio.
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L’allestimento di Mario Acampa - coadiuvato dalla scena rotante di Riccardo Sgaramella, assai adatta ai continui mutamenti di ambiente, dai simpatici costumi di Chiara Amaltea Ciarelli, dalle luci di Andrea Giretti e dalle coreografie di Anna Olkhovaya – sposta l’ambientazione in avanti di un secolo, portandoci più o meno all’epoca della prima rappresentazione della farsa (1955).

Inoltre, l’intera vicenda è vissuta come un sogno di Fadinard, povero e bistrattato garzone di bottega nella cappelleria E.Rota&Fils, che deve subire un paio di round di boxe contro il violento Emilio, che, come si dice in gergo, con un paio di cazzotti ben assestati lo manda nel mondo dei sogni! Dal quale si risveglierà proprio sulle ultime battute dell’opera, nelle braccia della sua amata Elena. Tutto ciò ci viene spiegato da Acampa nelle note sul programma di sala, ed esplicitato a scanso di equivoci con una grande scritta su uno striscione issato sopra la scena del ring.

Mah, diamo atto al regista di aver provato a metterci del suo, anche se la ri-ambientazione temporale e la trasposizione onirica sono merce ormai quasi abusata. La prima toglie francamente un po’ di rilevanza proprio all’oggetto del titolo, così centrale nell’ambiente retrivo della nobiltà parigina dell’800, ma francamente trascurabile e ininfluente in quello assai più aperto e disincantato del mondo di 70 anni fa, dove non era certo un cappellino a certificare fedeltà o infedeltà coniugali… Quanto al riferimento onirico, beh, va considerato che il genere farsa (al quale l’opera appartiene in tutto e per tutto) già di per sé comporta aspetti di irrealismo, inverosimiglianza, improbabilità e stranezze, senza doverle necessariamente spiegare con il ricorso al sogno. Insomma, tutto lo spettacolo girerebbe comunque a meraviglia anche senza questa impostazione originale!

E così infatti è stato: un vortice (la scena che si nuove come l’elica di un frullatore) che non dà mai un attimo di respiro e segue alla perfezione lo scorrere caotico di questa pazza giornata parigina. Scena che consente al regista anche di mostrarci dettagli che il libretto lascia solo immaginare, tipo le continue effusioni erotiche dei due amanti peccatori (Emilio-Anaide) mentre stazionano nell’appartamento di Fadinard.

Lascio da ultimo l’epocale diatriba sul famigerato verso È una negra! che il protagonista pronuncia nel terz’atto per convincere il cornificato Beaupertuis che non è sua moglie quella che staziona a casa sua. Ecco, già nella produzione del 1998 la frase era diventata È una scimmia! (il che sarebbe pure quasi peggio); ora abbiamo invece È un fantasma! Insomma, anche in Italia siamo ormai arrivati a ridicole censure…   

Ma in conclusione: una bella festa di giovani promesse della lirica, uno spettacolo godibilissimo e una produzione fra le migliori della stagione.

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