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15 marzo, 2018

Dialoghi di convento a Bologna


Il Comunale di Bologna ha in cartellone in questi giorni (ultima recita domani) la più famosa opera di Francis Poulenc, i Dialogues, una produzione franco-belga del 2013 ripresa poche settimane fa anche a Parigi.
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Antoine Quentin Fouquier-Tinville. Chi era costui? Beh, senza volerlo è un personaggio (materialmente in scena o... appostato dietro le quinte) implicato in ben due diverse opere liriche ambientate negli ultimi giorni del terrore rivoluzionario del 1794. Precisamente gli otto giorni che vanno da giovedi 17 luglio (ghigliottinamento delle 16 carmelitane) a venerdi 25 luglio, quando la testa fu separata dal corpo di tale André Chénier.

Il nostro era il Procuratore del Tribunale Rivoluzionario, che in pochi mesi spedì al patibolo qualche migliaio (un’inezia...) di francesi - privati dei diritti di difesa! - fra i quali le 16 carmelitane di Compiègne (esaltate da Bernanos e poi da Poulenc) e subito dopo il poeta immortalato dalla coppia Giordano-Illica.

Per la cronaca già lunedi 28 luglio (tre giorni dopo la sentenza Chénier) la spietata legge del contrappasso reclamò i suoi diritti dal ghigliottinatore Maximilien-François-Marie-Isidore de Robespierre. Ma non molto dopo il contrappasso colpì anche il solerte magistrato, poichè giovedi 7 maggio 1795 toccò alla sua testa rotolare ai piedi dell’affilata lama del dottor Guillotin.

Piccoli dettagli che nulla tolgono alla gloria di quella Rivoluzione che ci ha regalato le meravigliose istituzioni che ancora reggono la nostra convivenza civile, oggi così degnamente illustrate da tipi come Renzi, Berlusconi, Salvini e DiMaio... Evabbè.
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Fra l’ispiratore Bernanos (il suo dramma teatrale è del 1947, rappresentato postumo nel ‘52) e il compositore Poulenc (l’opera venne composta fra il ’53 e il ’57) c’erano differenze quasi abissali sul piano, diciamo così, ideologico-filosofico-politico: il drammaturgo fu un monarchico conservatore (per non dire tout-court un reazionario, ma di quelli di sani principii, che gli impedirono di schierarsi con le dittature) mentre il musicista era un repubblicano sincero democratico. Forse l’unico comun denominatore fra i due era la fede cattolica, il che plausibilmente può spiegare l’innamoramento di Poulenc per il soggetto di Bernanos.

Peraltro l’opera - ancor più che il dramma teatrale - si concentra prevalentemente sugli aspetti controversi e problematici della personalità della protagonista Blanche, che portano in secondo piano quelli legati allo scenario politico in cui è ambientato il soggetto. Blanche è - si può ben dire - figlia della paura, quella che attanagliò sua madre e ne provocò il parto prematuro e fatale. La paura che la rende diffidente della realtà che la circonda e le consiglia il (sicuro?) rifugio in convento. La paura che la coglie di fronte al cadavere della Superiora che è spirata sotto i suoi occhi. La paura che le fa prillare fra le mani il piccolo Re, che cade in frantumi. La paura che la coglie dopo aver pronunciato (ma ne siamo proprio sicuri?) il voto del martirio, e che la fa fuggire verso la vecchia dimora, pur diventata per lei un luogo di schiavitù e non di agiatezza e sicurezza. La paura che alla fine sarà vinta (forse) da una paura ancor più insopportabile: quella di dover continuare a vivere!

Al proposito sono nate scuole di pensiero sulla definizione da dare del sacrificio di Blanche: un eroico gesto di martirio, di professione di fede, di compassione e comunità con le consorelle; oppure un suicidio in piena regola, proprio per sfuggire le proprie responsabilità, e come tale da condannare e non da santificare.

E immancabilmente anche le regìe teatrali non si sono lasciate sfuggire l’occasione. Il colmo è stato raggiunto quando il genio Cherniakov (Monaco 2010) si inventò, ma proprio nel vero senso della parola, un racconto invero strampalato (rispetto al soggetto originale): mostrando le suore come adepte di una sorta di setta satanica che alla fine decide un suicidio collettivo e Blanche che arriva ad impedirlo, per poi morire lei stessa. Per la prima (e credo unica) volta nella storia, organi di giustizia (primo, secondo grado e Cassazione francesi) sono stati chiamati a pronunciarsi sulla legittimità dei contenuti di una regìa di teatro (musicale). L’accusa (degli eredi di Bernanos e Poulenc) era di contraffazione dell’originale, e la pena richiesta era la proibizione della vendita del DVD. Primo grado a favore di Cherniakov (in realtà della BelAir, casa distributrice del DVD). Il secondo grado ribalta la sentenza, dando ragione ai ricorrenti e bandendo la vendita del DVD. La Cassazione (giugno 2017) ripristina la sentenza di primo grado. (Cosa che deve aver fatto felici gli adulteratori di Rolex e Lacoste e i madonnari che spacciano per autentici i loro vanGogh!)
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Il povero Olivier Py non ebbe e non avrà la soddisfazione - e la pubblicità - di subire un triplice grado di giudizio per vilipendio dell’abito monacale e falsificazione di soggetti teatrali, così impara a mettere in scena precisamente ciò che il librettista-musicista ha pensato, scritto e composto (peggio per lui...)

L’allestimento è in effetti quanto di più calato nello spirito (la lettera qui conta davvero poco...) del testo di Bernanos e della musica di Poulenc. Dei quali restituisce la profonda riflessione sulla vita, la morte, l’ossessione esistenziale, il distacco fra l’individuo e il mondo circostante, la fede e la disperazione: semplicemente rendendo visibili quei concetti che il testo e la musica così mirabilmente evocano.

Gli ambienti spogli e prevalentemente bui, illuminati da lame di luce taglienti come le spade che trafiggono i cuori (e mozzano... le teste); la gestualità dei personaggi, la mancanza di cromatismo di scene e costumi: tutto congiura nel portare lo spettatore ad immergersi in quest’atmosfera da esercizi spirituali, senza peraltro aggiungere alcunchè di estraneo o di surrogato al soggetto originale.

Lodevole anche la parte tecnica dell’allestimento, che impiega mezzi apparentemente semplici, ma manovrati con grande sapienza, e sfrutta anche un paio di palchi di proscenio (nel terzo atto) per rendere fluido il procedere del dramma, senza dover ricorrere a complicati cambi di scena.

Meritati gli applausi che alla fine hanno accolto, primi ad uscire, i tecnici protagonisti della parte scenica.
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Poulenc dichiarò pubblicamente di rifarsi a Debussy, Monteverdi, Verdi e Musorgski (più Mozart, non nominato per... rispetto) mentre si tenne sempre alla larga dal modello wagneriano. Tuttavia (proprio come Debussy nel suo Pelléas) anche Poulenc nei Dialogues fa ampio uso dei Leit-motive, temi ricorrenti associabili a personaggi e soprattutto ad atmosfere e stati d’animo. Come ad esempio i temi della paura, dell’ansietà e del timore, che evocano principalmente le pulsioni della psiche di Blanche; alla cui personalità viene peraltro riservato un motivo delicato e dolcemente mosso; e poi il tema della pacificazione (o della rinuncia, o del conforto divino) che chiude il primo quadro e che significativamente ricompare proprio nelle battute finali dell’opera. E così via, una rete di motivi che sottolineano i caratteri dei personaggi e le situazioni che si dipanano sotto i loro (e i nostri) occhi.

Davvero memorabile la scena conclusiva, con uno dei Salve Regina più strazianti che si ricordino in musica. Poulenc altera la sequenza delle esecuzioni rispetto alla storia, invertendo le posizioni di Constance e della Priora: nell’opera è quest’ultima la prima ad essere ghigliottinata, Constance l’ultima, dovendo incontrare Blanche e vedere compiuto così il suo sogno di morire con lei.

Le 15 suore (Marie è fuggita) sono divise in due gruppi: primo gruppo (soprani): Priora, Constance e 6 Suore; secondo gruppo (mezzosoprani): Jeanne, Mathilde e 5 Suore. Blanche arriverà poi, cantando la giaculatoria conclusiva dal Veni Creator. I due gruppi di suore cantano praticamente in unisono (le sole eccezioni essendo rappresentate da poche note che sono abbassate di un’ottava per i mezzosoprani). In sottofondo il coro completo (SATB) che rappresenta la folla, commenta a bocca chiusa o con semplici vocali (oi-a-o-u) le esecuzioni. Qui sotto ho inserito nel testo sacro cantato i 16 sordi tonfi della lama e (a fianco; suora-gruppo) la vittima di ciascuna calata:

Salve, Regina, Mater misericordiae,
vita, dulcedo et spes nostra, salve.
et spes nostra, salve.<1>                                                (Priora)
Salve, Regina, Mater misericordiae,   
vita, dul<2>cedo et spes nostra, salve.                            (S1 g2)
Salve, Regina, Mater misericordiae,
vita, dulcedo et <3>spes nostra, salve.                            (S1 g1)
Ad te clamamus, ex<4>sules filii Hevae.<5>                    (S2 g2) - (S2 g1)
Ad te suspira<6>mus, gementes et flentes                       (S3 g2)
Ad<7> te suspiramus, gemen<8>tes et flentes                 (S3 g1) - (S4 g2)
in hac lacrimarum, lacrimarum valle.
E<9>ia ergo, advocata nostra, illos tuos                          (S4 g1)
misericor<10>des oculos ad nos converte.                      (S5 g2)
Et<11> Jesum, benedictum fructum ven<12>tris tui,      (S5 g1) - (S6 g1)
nobis, post hoc exilium, osten<13>de.                            (Mathilde)
O clemens, o pia, o dulcis Virgo Maria.                     
O dulcis Virgo Mari<14>a.                                              (Jeanne)
O clemens, o pia, o dulcis Virgo M<15>...                       (Constance)

Deo Patri sit gloria
Et Filio qui a mortuis surrexit Paraclito
In saeculorum saecula. In saeculorum<16>...                  (Blanche)

I colpi di ghigliottina arrivano a intervalli irregolari, talvolta nel bel mezzo di una parola: un tocco questo di macabro realismo.
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Il giovane Jérémie Rhorer ha guidato l’Orchestra del Comunale (cui non possono andare che elogi) con forse eccessiva foga: con il risultato di mettere sì in risalto tutte le preziosità della partitura, ma al prezzo di non valorizzare al meglio le voci, spesso coperte allorquando chiamate a declamare e quasi a parlare.

A proposito di voce, lo stesso Poulenc indicò persino dei modelli di vocalità per le sue 5 protagoniste, mutuati dai suoi modelli di compositore: Thaïs (Blanche), Amneris (Croissy), Desdemona (Lidoine), Kundry (Marie) e Zerlina (Constance). E devo dire che la compagnia (tutta francofona) di carmelitane ha degnamente risposto all’appello. Su tutte metto personalmente la Lidoine di Marie Adeline Henry, che ha sciorinato una gran voce, in potenza ed espressività (il suo arioso è stato davvero travolgente). Ma anche la Croissy di Sylvie Brunet e la Marie di Sophie Koch sono state assolutamente all’altezza. Benissimo anche la Constance di Sandrine Piau, efficacissima con la sua voce acuta e impertinente; appena un filino sotto la pur brava protagonista, Hélène Guilmette, un poco in difficoltà sui centri e sui gravi (ma complice, come detto, il Direttore).

Splendido lo Chevalier di Stanislas de Barbeyrac, una gran voce da tenore lirico-eroico che penso farà sempre più parlare di sè. Da elogiare in blocco tutti/e gli/le altri/e, incluso il coro di Faidutti che arriva solo alla fine, fuori scena e senza profferire parole articolate, ma contribuisce a creare quella mirabile atmosfera del Salve Regina.

Successo davvero strepitoso, salutato da un pubblico non proprio foltissimo ma entusiasta.

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