É Kolja
Blacher, gran virtuoso di violino e pure direttore, a tornare dopo poco più
di un anno sul podio dell’Auditorium per dirigervi questa settimana un programma
inconsueto,
che accosta il fanciullesco, ottimistico Mendelssohn
al disincantato e problematico Bartók.
Sul palco una formazione sparuta, così per par-condicio
anche il pubblico si adegua e lascia in sala un gran numero di poltrone vuote
(poi ci sono gelo e neve a sconsigliare uscite temerarie...)
Come suo costume, Blacher si siede al
posto della spalla (Dellingshausen trasla al concertino...
poi recupera il posto nel Concerto,
dove Blacher ovviamente se ne sta in piedi) e da lì dirige l’Orchestra:
insomma, una sintesi Kapellmeister-Konzertmeister
di antica memoria.
Mendelssohn era poco più di
un ragazzino quando compose l’Ouverture del Sogno (anni e anni più
tardi ci aggiungerà altre musiche di scena): una cosa geniale, degna di Mozart.
Ascoltarla è sempre un balsamo contro ogni malattia, comprese quelle trasmesse
dalla campagna elettorale (che per fortuna è in vista della chiusura). Splendida l’esecuzione,
con i quattro accordi dei fiati a chiudere nel celestiale MI maggiore.
Si resta in MI (dapprima minore, ma alla
fine maggiore) per il più celebre dei Concerti per violino. Blacher ci dà
dentro con energia, ne dà una lettura eroica, senza troppe concessioni a leziosità
settecentesche, anche il tenero Andante
viene approcciato quasi come un Allegro
moderato e non si risparmiano forti tinte nei ripieni orchestrali. Insomma,
un’interpretazione maschia e un po’ lontana da certi stereotipi troppo apollinei.
Pubblico entusiasta ed applausi ritmati,
con speranza di bis, che però
(comprensibilmente) non arriva.
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Dopo l’intervallo ecco il Divertimento
per archi di Bartók,
composto nel ’39, alla vigiia dell’esilio americano del compositore, che non
potè sopportare oltre l’avvento del nazismo anche a casa sua.
L’organico previsto è di 22 escutori
(6+6-4-4-2). Per pura curiosità le straussiane Metamorphosen, di pochi anni posteriori, prevedono 23 esecutori
(10-5-5-3) con un organico quindi di baricentro più spostato verso i bassi.
Blacher comunque non ci fa caso e aumenta il pacchetto di un buon 50% (a
occhio) il che può giudicarsi un bene o un male a seconda dei gusti di ciascuno.
Interessante notare come sulla partitura
di Bosey siano indicati i tempi di esecuzione
addirittura di singole sezioni del brano (forse non precisamente corrispondenti
ai classici segmenti delle forme classiche); un dato tecnico (diciamo così) che
certamente proviene dal compositore, o da lui è stato espressamente accettato,
e che ci può aiutare a decifrare la struttura dei tre movimenti e la loro
teorica durata: 8’16”+7’24”+6’33 = 22’13”.
Non ho impugnato il cronometro, ma a
orecchio direi che Blacher abbia allungato un po’ i tempi, anche se mai tanto
quanto fa qui il grande Boulez
con la CSO,
che sfora i 26’.
L’Allegro
non troppo iniziale presenta una struttura assai articolata (c’è chi ci
vede una forma-sonata piuttosto
eterodossa) con almeno tre temi principali, che creano contrasti sonori legati
all’alternarsi di interventi solistici al tutti
orchestrale.
Mirabile l’attacco in pianissimo del Molto adagio, nel quale si possono distinguere tre sezioni, la
prima delle quali torna in chiusura, seguita da una coda in cui il suono va
letteralmente a morire.
Gagliardo il conclusivo Allegro assai, un rondò impreziosito nella
sezione centrale da un breve ma accattivante assolo del violino. La chiusura è esilarante, a dispetto delle non
certo serene condizioni psicologiche che l’Autore viveva mentre ne vergava le
note.
Successo caloroso per questa che pare
essere stata la prima esecuzione del pezzo qui a laVerdi. Adesso lo si potrà mettere in repertorio, perchè se lo
merita proprio.
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