Ieri sera alla Scala (con parecchi
vuoti) seconda delle sette recite del parigino Orphée, approdato
finalmente da noi a quasi due secoli e mezzo dal suo esordio (segno comunque che
buon sangue non mente...)
La prima
di sabato era stata unanimemente (pubblico e critica, almeno a giudicare da ciò
che si legge su carta e pixel) accolta con grande calore, per non dire con
entusiasmo. E ieri la cosa si è puntualmente ripetuta, a testimonianza evidente
della bontà del prodotto di Gluck e
del suo allestimento londinese, importato qui e riproposto impiegando forze locali (parlo ovviamente di orchestra,
cori, direttore e strutture).
Opera indubbiamente problematica da
mettere in scena oggi, date le sue peculiari caratteristiche: non ha l’austera
concisione e l’apollinea bellezza dell’Orfeo viennese, e in compenso ciò che vi
fu aggiunto per Parigi non è (in larga misura) materia che si sposi perfettamente
con i nostri gusti, di pubblico del terzo millennio.
La soluzione scelta dalla coppia coreografo-regista
(Hofesh
Shechter - John Fulljames, non a caso è il coreografo ad avere fra i due la precedenza) ha il merito
di tenere sempre viva l’attenzione dello spettatore, anche attraverso movimenti
scenici piuttosto inconsueti: alludo a quelli dell’intera orchestra, sistemata nella
zona centrale del palcoscenico in modo da creare spazi sia verso il proscenio
che verso il fondo-scena, e soprattutto traslabile in verticale, per aprire o
chiudere spazi in cui far muovere non solo i tre protagonisti, ma soprattutto i
mimi/danzatori e il coro, che operano a volte disgiunti e a volte fra loro
mescolati (sempre distinguibili peraltro dal diverso abbigliamento). La buca
dell’orchestra rimane vuota, trovandovi spazio soltando i grandi schermi sui
quali i cantanti possono televisivamente vedere il Direttore (al quale danno materialmente
le spalle) più qualche faro che illumina la scena dal basso.
Insomma, un allestimento che scongiura il pericolo di
cadute di tensione, legato precisamente ai contenuti dell’opera, in particolare
ai lunghi minuti occupati da intermezzi di danza, dove l’alta qualità della
musica gluckiana potrebbe non bastare da sola a sopperire alla staticità dell’azione
scenica.
E ovviamente una condizione necessaria (non sempre
sufficiente) per la riuscita dello spettacolo è costituita dal livello della prestazione
di tutti gli addetti-ai-suoni. Qui devo dire che tutti meritano encomi, a
partire dal Concertatore: Mariotti ha
superato di slancio anche il test con questo particolarissimo repertorio (non è
barocco, ma non è certo... Rossini) con una direzione raffinata e attenta ad
ogni preziosità della partitura. Solo un paio di esempi: l’introduzione alla
seconda scena dall’atto secondo, con il celestiale (siamo nei Campi elisi) assolo del flauto di Marco Zoni (poi affiancato da quello di Max Crepaldi, vecchia conoscenza de laVerdi) e l’accompagnamenmto dell’oboe
di Armel Descotte al mirabile
recitativo di Orfeo, nella scena successiva. (Non a caso alla fine il Direttore
ha fatto alzare i tre strumentisti per ricevere un applauso singolo.)
Benissimo anche il Coro di Casoni, chimato
ad un compito non proprio facile, perchè assai lontano dal repertorio, diciamo
così, di tradizione.
Juan
Diego Florez
ha suscitato ovazioni entusiastiche: il suo Orphée ha pienamente convinto: certo
lui non è (nessuno oggi lo è) un haute-contre
come presumibilmente era il famoso Joseph Legros, per il quale la parte fu
scritta in origine (un tenore capace di raggiungere iperbolici sovracuti ma con
uso del falsetto, del canto di testa);
cionondimeno il divo peruviano, che ovviamente canta sulla voce, ha prestato al personaggio il suo timbro chiaro, limpido
e allo stesso tempo sensuale.
Le due voci sopranili (Euridice di Christiane Karg e Amore di Fatma Said) non toccano le vette di JDF, ma meritano entrambe un encomio, da
estendere a chi le ha scelte per i due ruoli, ai quali le due voci si
attagliano perfettamente: più corposa quella della Karg, le cui qualità emergono
nel lungo e straziante recitativo di apertura dell’atto terzo; e più leggera e
acuta quella della Said che impersona, en-travesti,
il giovinetto e ammiccante Cupido.
In definitiva, una proposta di
eccellente livello, che il pubblico ha mostrato di apprezzare assai, a
giudicare dal calore dell’accoglienza riservata a tutti.
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