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01 marzo, 2018

L’Orfeo parigino importato da Londra a Milano



Ieri sera alla Scala (con parecchi vuoti) seconda delle sette recite del parigino Orphée, approdato finalmente da noi a quasi due secoli e mezzo dal suo esordio (segno comunque che buon sangue non mente...)

La prima di sabato era stata unanimemente (pubblico e critica, almeno a giudicare da ciò che si legge su carta e pixel) accolta con grande calore, per non dire con entusiasmo. E ieri la cosa si è puntualmente ripetuta, a testimonianza evidente della bontà del prodotto di Gluck e del suo allestimento londinese, importato qui e riproposto impiegando forze locali (parlo ovviamente di orchestra, cori, direttore e strutture).

Opera indubbiamente problematica da mettere in scena oggi, date le sue peculiari caratteristiche: non ha l’austera concisione e l’apollinea bellezza dell’Orfeo viennese, e in compenso ciò che vi fu aggiunto per Parigi non è (in larga misura) materia che si sposi perfettamente con i nostri gusti, di pubblico del terzo millennio.

La soluzione scelta dalla coppia coreografo-regista (Hofesh Shechter - John Fulljames, non a caso è il coreografo ad avere fra i due la precedenza) ha il merito di tenere sempre viva l’attenzione dello spettatore, anche attraverso movimenti scenici piuttosto inconsueti: alludo a quelli dell’intera orchestra, sistemata nella zona centrale del palcoscenico in modo da creare spazi sia verso il proscenio che verso il fondo-scena, e soprattutto traslabile in verticale, per aprire o chiudere spazi in cui far muovere non solo i tre protagonisti, ma soprattutto i mimi/danzatori e il coro, che operano a volte disgiunti e a volte fra loro mescolati (sempre distinguibili peraltro dal diverso abbigliamento). La buca dell’orchestra rimane vuota, trovandovi spazio soltando i grandi schermi sui quali i cantanti possono televisivamente vedere il Direttore (al quale danno materialmente le spalle) più qualche faro che illumina la scena dal basso.

Insomma, un allestimento che scongiura il pericolo di cadute di tensione, legato precisamente ai contenuti dell’opera, in particolare ai lunghi minuti occupati da intermezzi di danza, dove l’alta qualità della musica gluckiana potrebbe non bastare da sola a sopperire alla staticità dell’azione scenica.

E ovviamente una condizione necessaria (non sempre sufficiente) per la riuscita dello spettacolo è costituita dal livello della prestazione di tutti gli addetti-ai-suoni. Qui devo dire che tutti meritano encomi, a partire dal Concertatore: Mariotti ha superato di slancio anche il test con questo particolarissimo repertorio (non è barocco, ma non è certo... Rossini) con una direzione raffinata e attenta ad ogni preziosità della partitura. Solo un paio di esempi: l’introduzione alla seconda scena dall’atto secondo, con il celestiale (siamo nei Campi elisi) assolo del flauto di Marco Zoni (poi affiancato da quello di Max Crepaldi, vecchia conoscenza de laVerdi) e l’accompagnamenmto dell’oboe di Armel Descotte al mirabile recitativo di Orfeo, nella scena successiva. (Non a caso alla fine il Direttore ha fatto alzare i tre strumentisti per ricevere un applauso singolo.)

Benissimo anche il Coro di Casoni, chimato ad un compito non proprio facile, perchè assai lontano dal repertorio, diciamo così, di tradizione.

Juan Diego Florez ha suscitato ovazioni entusiastiche: il suo Orphée ha pienamente convinto: certo lui non è (nessuno oggi lo è) un haute-contre come  presumibilmente era il famoso Joseph Legros, per il quale la parte fu scritta in origine (un tenore capace di raggiungere iperbolici sovracuti ma con uso del falsetto, del canto di testa); cionondimeno il divo peruviano, che ovviamente canta sulla voce, ha prestato al personaggio il suo timbro chiaro, limpido e allo stesso tempo sensuale.

Le due voci sopranili (Euridice di Christiane Karg e Amore di Fatma Said) non toccano le vette di JDF, ma meritano entrambe un encomio, da estendere a chi le ha scelte per i due ruoli, ai quali le due voci si attagliano perfettamente: più corposa quella della Karg, le cui qualità emergono nel lungo e straziante recitativo di apertura dell’atto terzo; e più leggera e acuta quella della Said che impersona, en-travesti, il giovinetto e ammiccante Cupido.

In definitiva, una proposta di eccellente livello, che il pubblico ha mostrato di apprezzare assai, a giudicare dal calore dell’accoglienza riservata a tutti.

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