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28 febbraio, 2018

L’ipertrofico Mahler di Chailly alla Scala

 

Il Direttore Musicale è stato protagonista di una 3-giorni dedicata a quello sterminato lavoro mahleriano che va sotto il nome di Terza Sinfonia. Ieri sera un Piermarini non proprio stracolmo ma alla fine osannante ha ospitato l’ultima delle tre esecuzioni.   

Questo lavoro è ancor oggi oggetto di diatribe tra chi, continuando a riferirsi al programma extramusicale che - ahilui - lo stesso compositore aveva originariamente esplicitato (in non meno di 8 versioni diverse e persino contraddittorie!) ne disconosce la qualità estetica, liquidandolo come velleitario e vuoto prodotto di Kapellmeister-Musik (musica-da-direttore-d’orchestra); e chi invece gli riconosce alto valore estetico in quanto... etico. Personalmente propendo per una via di mezzo: che si tratti di un gran bel minestrone, che ti appaga la vista, ti riempie lo stomaco e, quindi, ti concilia con la vita e ti permette di vedere il mondo con un certo ottimismo, dimenticando per qualche ora tutto quanto di negativo e fastidioso circonda l’umana esistenza.         

Che sia un minestrone (in senso buono, per carità) lo attesta la nutrita serie di ingredienti (dei quali una lista certo incompleta si può leggere in questo mio commento ad una ormai lontana esecuzione de laVerdi) che Mahler raccoglie in giro per il mondo (musicale) per cucinarlo. E pensare che in origine ci doveva essere pure... l’ammazza-caffè (un settimo movimento, tematicamente legato al quinto) poi risparmiatoci per diventare l’epilogo della sinfonia successiva (siamo al concetto di... meccano).  

E al proposito mi permetto, ma sì, una provocazione: é vero o no che oggi nessuno si scandalizza se un regista o un direttore propongono un Boris costruito (a proposito di meccani!) a partire dai due ben distinti Boris originali? E che nessuno obietta più di tanto se nel DonCarlo si ripristina l’espunto (per trovar posto nel Requiem) Lacrymosa? E qualcuno ha forse gridato allo scandalo quando si è presentato un Macbeth del ’47 con il coro Patria oppressa del ’65? E così via rimescolando... Ora, perchè un Direttore che si voglia distinguere non prova a proporre questa Terza con aggiunto il finale originariamente immaginato dal compositore? E ancora, cosa che sarebbe davvero epocale, che si aspetta a presentare in prima assoluta mondiale un’opera inedita di Mahler, dal titolo 4. Symphonie / Eine Humoreske? Fine della provocazione.
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Ricapitolando, possiamo ascoltare la terza del boemo secondo le di lui originarie (e infine ritrattate) indicazioni programmatiche, con le quali vorrebbe spiegarci nientemeno cosa gli raccontano le diverse manifestazioni del creato. Un interminabile poema sinfonico che parte dalle montagne del Salzkammergut per arrivare fino a… Dio! Transitando - magari in un giorno di festa, tipo 1°maggio - per il Prater di Vienna, con le sue bande peripatetiche al seguito di variopinti cortei; camminando (a piedi nudi sull'erba…) attraverso prati e boschi (di Boemia?); ascoltando particolari storielle del bosco (viennese?) con tanto di passaggio di consegne (Ablösung im Sommer) dal defunto cuculo all'usignolo, cerimonia disturbata dalla languida melopea della trombetta di uno svogliato postiglione; meditando poi su notturni complessi freudiani (pardon, nietzschiani); ascoltando angeli che cantano con accompagnamento infantile, onomatopeicamente bombarolo; fino ad arrivare al creatore. Il rischio qui è di restare delusi, proprio come capita al sommo Quirino Principe:


Oppure ascoltarla come fosse soltanto nulla più e nulla meno che... musica! Che in fondo è proprio l’approccio che lo stesso Mahler, ordinandoci alla fin fine di ignorare tutti i programmi da lui stesso proposti, ci invita a praticare: abbandonarsi al rapsodo.

E in effetti non si può negare che questa sia musica che ha una sua inequivocabile narrativa: dapprima ci porta nel bel mezzo del weltlich Getümmel - proprio ciò che nel Lied originariamente pensato a chiudere la Sinfonia viene dichiarato come bandito lassù, dove si vive la vita celestiale - il gran casino e fracasso (materiale e morale) del nostro mondo, carico di ipocrisia, retorica, qualunquismo, volgarità, sguaiatezze e banalità: come trovare un solo tema nobile nell’iniziale Kräftig? Un movimento in forma-sonata di dimensioni inaudite, estenuante e a un certo punto persino insopportabile (la ripresa che arriva dopo 25 minuti, quando una normale sinfonia è ben oltre la metà del suo cammino!) che è specchio fedele delle mostruosità sesquipedali che già la civiltà di fine ‘800 aveva creato, in tutti i campi.

Poi abbiamo due movimenti (un Menuetto più uno Scherzo, il che già la dice lunga sull’ipertrofia della narrazione musicale di Mahler) che ci portano fuori città, quasi a passare un distensivo week-end, lontani dal logorio della vita moderna. Della quale per la verità qualche lontana eco ci raggiunge anche lì, con squilli di cornette, marcette meno sguaiate, ma non certo sublimi, e rumorosi scoppi che ci risvegliano di soprassalto. Quindi (nel Misterioso, con l’aiuto determinante di una parola autorevole abbinata a musica da balera vestita di seriosità) Mahler comincia a far filosofia, per indurci a meditare sui concetti di terreno e di eterno. E ancora (nel Lustig, sempre esplicitamente) per indicarci ingenuamente la salvezza dai nostri peccati.

Infine, nel colossale Langsam (grazie a Beethoven, Wagner e Verdi, tre che di buona musica ne sapevano qualcosa...) ecco che Mahler ci porta faticosamente, proprio in modo estenuante, quasi fosse una musicale via-crucis (o il parsifaliano percorso verso il Gral) dentro una specie di luminoso nirvana. Interessante al proposito notare la differenza fra la conclusione della Terza e quella della Seconda: quest’ultima chiude in MIb maggiore (tonalità quanto mai liturgica!) con una secca croma di tutta l’orchestra, compresi i due timpani che devono martellarla in fff, un perentorio schianto che evoca tutto tranne che... l’eternità. Nella Terza invece il poderoso accordo dell’intera orchestra di RE maggiore (tonalità trionfale ma anche pastorale) si prolunga nell’ultima battuta su una semibreve con corona puntata (teoricamente in eterno, quindi, e per sicurezza Mahler aggiunge un esplicito Lange) mentre i due timpani, dopo una serie di precedenti proterve martellate, suonano solo per una minima, poi tacciono, a conferma che... non c’è una porta che ci vien sbattuta in faccia.
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Chailly? Beh, lui di Mahler ne mastica fin da bambino, poi ha potuto seguire quello che Abbado portava di peso alla Scala, quindi sperimentarlo dal vivo con un’orchestrina giovane come laVerdi, ancora studiarlo e dirigerlo nella seconda patria musicale del boemo, lassù in mezzo ai tulipani; infine perfezionarlo a casa di Mendelssohn, non so se mi spiego. Insomma: un pedigree di tutto rispetto, per non dire quasi unico al mondo. 

Per ieri mi permetto di dargli due voti separati: un bel 9 per le dinamiche, davvero quasi perfette: enfasi e fracassi quando e solo se necessari, ma soprattutto arte di cesello nelle molte sezioni dove l’espressività deve farla da padrone (passaggi dove archi e strumentini nulla avevano da invidiare allo Strauss del Rosenkavalier, per dire...); non più di 7 invece - ma qui è davvero questione di gusti - per l’agogica: la partitura Universal indica come durata complessiva circa 90 minuti; Chailly (qui al Concertgebouw) già va lungo di quasi 10 minuti; ma ieri finisce (al netto della pausa dopo il Kräftig) per avvicinare i 110! Insomma, più di un quarto d’ora mi pare un ritardo eccessivo, ecco: vuoi vedere che a Chailly l’avanzare degli anni faccia l’effetto che fece già a Celibidache, o a Knappertsbusch, o a Klemperer? In ogni caso, la sua lettura è stata assolutamente coerente, distribuendo l’extra-time in modo quasi equanime nei 6 movimenti. 
  
L’immane Orchestra, disposta insolitamente con violini secondi al proscenio rimpiazzati al loro posto dalle viole, sempre concentratissima. Alcune galeotte quanto indesiderate acciaccature dei corni, un paio di note rimaste nella coulisse del trombone (peraltro superbo) non inficiano certo una prestazione sontuosa (anzi a volte piccole imperfezioni ti confermano che a suonare sono esseri umani con un’anima e non freddi robot). I cori (signore e... signorini/e) di Casoni hanno ben meritato nella loro filastrocca a sfondo mistico. Gerhild Romberger ha prestato la sua voce ben tornita a tale Nietzsche e poi ha dialogato da par suo con i cori.

Alla fine un autentico tripudio ha salutato la sterminata compagnia dei Musikanten, con chiamate a ripetizione per Chailly, Casoni, Romberger e il postiglione Nicola Martelli, accolti da ovazioni da stadio. Eroe della serata, manco a dirlo, Chailly, che non si crederebbe essere lo stesso direttore che meno di un anno fa fu smaccatamente buato dopo l’ouverture della Gazza ladra, da qualcuno che ne richiedeva a gran voce la cacciata da Milano per indegnità...  Ecco, il tempo è sempre galantuomo.

2 commenti:

Amfortas ha detto...

Bellissima recensione, colta e ariosa, puntigliosa il giusto. Grazie da chi considera Mahler come una coperta di Linus (e, irrispettosamente, Principe come un cuscino).
Ciao!

daland ha detto...

@Amfortas
Il "cuscino quirino" lo devi proporre come brand a qualche fabbrica di forniture domestiche!
Grazie degli immeritati elogi.
Ciao!