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03 febbraio, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°13


Un forfait all’ultimo momento della ex-direttora Xian ha portato sul podio de laVerdi – dopo Emelyanychev - un altro virgulto della scuola russa: è il 32enne Valentin Uryupin (nato peraltro nell’Ukraina poco prima del collasso dell’impero sovietico) che sta facendo carriera come direttore dopo aver iniziato (come Bignamini) dal clarinetto. La giovane età non gli impedisce di essere anche attivissimo operatore musicale, dapprima nella sperduta Perm’ (negli Urali, dove ha preso il testimone da Teodor Currentzis, che vi portò da Novosibirsk il suo ensemble musicAeterna) e oggi a Rostov, dove dirige la locale filarmonica.

Il programma del concerto sembra fatto apposta per lui, con due (anzi... tre) compositori russi e musiche che spaziano per 70 anni, dal 1867 al 1937: si va dal Musorgski edulcorato da Rimski, a quello strumentato da Shostakovich, per finire alla più inflazionata delle sinfonie di quest’ultimo.

Si apre quindi con Una notte sul Monte Calvo, nella versione più eseguita, che non è quella originale, ma quella sottoposta nel 1886 a maquillage e riorchestrazione da Rimski. Non solo, ma questi non si basò nemmeno sul poema sinfonico del 1867, bensì su una sua derivazione del 1880, titolata Visione onirica del contadinello e inserita senza troppa razionalità in un'opera (La Fiera di Sorochyntsi) rimasta incompiuta. Lì nel sogno il ragazzo vede le streghe, il demonio (Chornobog) e il sabba, però – a differenza del poema sinfonico, davvero brutale e chiuso proprio dal sabba - il sogno si conclude con la sparizione di spettri e diavoli, cacciati dallo spuntare del giorno e dai rintocchi di una campana. Ecco perché la versione di Rimsky – fra l'altro assai più stringata e magistralmente strutturata (bisogna riconoscerlo) rispetto al poema sinfonico originale - termina proprio con la dolce melodia del clarinetto, poi del flauto, i rintocchi della campana, e gli arpeggi in RE maggiore dell'arpa.

L’esecuzione è di prim’ordine, Uryupin si agita parecchio, con atteggiamento un po’ stralunato, ma raggiunge l’effetto desiderato... a me però resta sempre la voglia di ascoltare, una dopo l’altra, la versione originale e questa qua!
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Ancora un Musorsgki inquinato (ma in senso positivo, va da sè) è quello dei Canti e Danze della Morte, un ciclo di 4 Lieder per voce e pianoforte che qui ascoltiamo come orchestrato da Shostakovich (ma ci si misero anche il solito Rimski, Glazunov e recentemente Lazkano e Aho). I testi sono di Kutuzov e a prima vista si potrebbero scambiare per Des Knaben Wunderhorn, visto che trattano di miserie, malattie, fatalità e guerre. Uno scenario in cui è assoluta protagonista la morte (al femminile o al maschile, par condicio) presentata quasi come una... benedizione (quindi siamo al nichilismo puro!)

La morte compare già da subito (Ninna-nanna): una madre veglia il bimbo ammalato per tutta una notte e poi, al mattino, ecco che arriva lei e canta al piccolo l'ultima ninna-nanna.

Serenata: una giovine tipo-Violetta langue in una notte profonda; ma il suo fascino ha sedotto un misterioso cavaliere (la morte si traveste anche da maschio...) che le canta l'ultima serenata.

Un ubriaco si perde danzando il Trepak in un bosco, in mezzo ad una tormenta; qualcuno (indovina chi?) lo incoraggia ad addormentarsi sotto la neve. Poi la primavera arriverà, e con lei le falci che mietono.

Gran parata militare, alla presenza del condottiero (il Feldmaresciallo) che loda i suoi per il valore dimostrato. Ma quel condottiero è (indovina indovinello) lei, e loro son tutti i morti in battaglia.

Quasi 7 anni fa li aveva diretti qui Oleg Caetani con una voce di mezzo (Susanna Anselmi); adesso tocca invece ad un baritono, Pavel Baransky (anche lui ukraino) che ci porge con grande sensibilità queste canzoni intrise di nichilismo, che paiono proprio fatte per ispirare la sconvolgente musica di Musorgski. La quale per la verità ancor più risalta nell’asciutta e spettrale versione pianistica, come si può constatare qui con la premiata coppia Vishnevskaya-Rostropovich.

Calorosi e reiterati applausi per Baransky, voce assai ben impostata, calda e rotonda, che infatti già gli ha permesso di impersonare Onegin (mica pizza e fichi...)
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Si chiude con la Quinta di Shostakovich, che mancava qui da quasi 4 anni (diretta allora dalla oggi assente Xian). Su quest’opera si è scritto di tutto, e moltissimo in termini politici, col risultato di trattarla come qualunque cosa, tranne che come... musica. Al proposito anch’io ho già scritto la mia proprio in occasione della precedente esecuzione. 

L’allampanato Uryupin è arrivato quasi all’ultimo momento e non sarebbe strano che sia stato più lui a imparare dall’orchestra (che conosce questa musica come le proprie tasche) che non ad insegnarle qualcosa di mai sentito prima. Esecuzione trascinante, che l’Auditorium piacevolmente affollato ha salutato con lunghi applausi (anche ritmati) all’indirizzo di tutti.   

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