Il mio secondo
passaggio al ROF-live ha avuto come oggetto Aureliano in Palmira,
la produzione del 2014 firmata da Mario Martone, produzione che avevo abbastanza duramente criticato al suo apparire; critiche che la ripresa di Daniela Schiavone non
ha per nulla fugato.
Come scrissi allora, in effetti si tratta di una messinscena di sconsolante banalità, priva di una qualunque cifra interpretativa: sembra il compitino in classe di un ragazzino cui si è fatta leggere la favola della regina Zenobia. Una cosa fra la scimmiottatura di Zeffirelli e la parodia di un filmaccio di Maciste. La scena dei pastori, in particolare, è di un deprimente… realismo: tre caprette che entrano sul palco a brucare stoppie! Velleitaria l’idea di mettere in scena il continuo (la brava Hana Lee al fortepiano): sarà pure più vicino ai cantanti, ma è 30 metri più lontano dal pubblico!
In effetti l’ascolto integrale dell’opera lascia intuire le ragioni del suo scarso successo lungo gli anni, e degli innumerevoli tagli cui è stata regolarmente sottoposta: a dispetto del grande spessore della musica, incredibilmente innovativa se pensiamo al 1813, la sua lunghezza smisurata e la scarsa consistenza del soggetto (si pensi solo allo stucchevole succedersi di battaglie, tregue, trattative cui seguono altre battaglie…) la rendono difficilmente digeribile nella versione completa.
Opera altamente innovativa, appunto, e non a caso Rossini dedicò alla composizione di Aureliano tempo e fatica insoliti per lui, in quei primi e vorticosi anni della sua produzione. Un chiaro indizio di ciò è il trattamento riservato alla Sinfonia: a differenza dei suoi successivi imprestiti (ad Elisabetta e Barbiere, opere dove non ha alcun riferimento ai contenuti) motivati quasi esclusivamente da fretta e mancanza di tempo, qui la Sinfonia è parte integrante dell’opera, anticipandone alcuni motivi peculiari: l’introduzione lenta in MI maggiore, che udremo (trasposta in MIb) nel second’atto, allorquando Arsace si inoltra nei boschi dopo essere fuggito dalla prigione di Aureliano; la sezione finale del primo tema (in MI minore); il cantabile in SOL maggiore (seconda sezione del secondo tema) e il successivo famoso crescendo e cadenza conclusiva che chiudono il primo atto.
Alexey Tatarintsev ha a sua volta riscosso consensi: più per gli stentorei acuti (DO e REb) sparati con grande sicurezza, che non per la prestazione complessiva, dove ha mostrato ancora qualche limite, che potrà superare continuando a impegnarsi con studio e dedizione.
Degli altri, detto del discreto ritorno di Marta Pluda, una menzione va ad Alessandro Abis, che ha dato risalto alla parte limitata quantitativamente del Gran Sacerdote. Bene anche il Licinio di Davide Giangregorio, mentre come Oraspe (nel 2014 era quel Dempsey Rivera poi prematuramente scomparso) Sunnyboy Dladla ha mostrato qualche carenza di penetrazione della voce, pur chiara e ben impostata. Elcin Adil si è dignitosamente comportato nella piccola parte del pastore.
Su buoni standard il coro del Teatro della Fortuna di Mirca Rosciani, che ha qui una parte assolutamente di rilievo.
Del Direttore ateniese George Petrou devo confermare la buona impressione fatta alla prima alla radio: gesto sobrio, attacchi puliti, agogiche sostenute e dinamiche settecentesche, come si addice a questo dramma serio; qualità messe in luce già dall’esecuzione della famosa Sinfonia. L’Orchestra Rossini si merita a sua volta un encomio per la brillantezza del suono e la compattezza mostrata in tutte le sezioni.
In definitiva, un meritato successo per tutti, ferme restando (ma qui parlo per me soltanto) le perplessità sull’allestimento.
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