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Dal 25 giugno al 3 luglio La Fenice ospita un'opera moderna: The turn of the screw (Il giro di vite) di Benjamin Britten. Opera cui ha dato i natali, il lontano 14 settembre 1954, allora con l'Autore sul podio e il compagno Peter Pears a sostenere i ruoli del Prologo e del fantasma di Quint. Adesso sarà Jeffrey Tate a dirigere la smilza orchestra e Pier Luigi Pizzi ad allestire lo spettacolo.
Come altre importanti opere di Britten (ad esempio l'antecedente Peter Grimes – che tratta in modo esplicito di un caso di sfruttamento di minori da parte di un personaggio in perenne conflitto con la società - e la posteriore Death in Venice – che descrive, sempre apertamente, il rapporto morboso fra un maturo signore ed un ragazzino avvenente) anche questa trae origine da un preesistente racconto, scritto da Henry James alla fine del 1800. Si tratta di una storia di apparizioni di fantasmi, ambientata a metà del diciannovesimo secolo in una vecchia dimora di campagna nell'Essex, a est di Londra.
Ma ad attirare l'attenzione di Britten non furono certo i fantasmi, bensì una precisa componente del racconto, che rappresenta concetti particolarmente (e ossessivamente?) cari al compositore. Il primo – che emerge esplicitamente dalle pagine di James – è relativo alla manipolazione di minori (due orfani, Miles e Flora, fratello e sorella, 10 e 8 anni, nella fattispecie). Il secondo – correlato al primo, e ancor più autobiografico per Britten, ma assai più sfumato, nascosto, criptato nel racconto di James – è il sostrato omosessuale (con risvolti pedofili!) della storia, in particolare per quanto attiene il rapporto fra il piccolo Miles e il fantasma di Quint (e, in certa misura, anche fra la piccola Flora e il fantasma di miss Jessel).
Il racconto dello scrittore americano ha programmaticamente dei contorni nebulosi (l'ombra di un'ombra, come lo stesso autore ebbe a definirlo); da gran furbone qual'era, lo scrittore sapeva bene come catturare l'interesse e l'attenzione dei suoi lettori (e proporre argomenti scabrosi senza correre troppi rischi) per cui lasciò deliberatamente aperte tutte le strade dell'interpretazione della sua opera, in modo che ciascun lettore sia portato inevitabilmente ad avanzare le proprie personali ipotesi riguardo la realtà (poca) e le suggestioni (innumerevoli) che vi vengono presentate. Sono quindi del tutto accademiche, pur se interessanti, le interminabili discussioni che da più di un secolo dividono i sostenitori dell'interpretazione apparizionista e di quella psicanalitica del racconto di James. Il quale si interessava alle ricerche sui fenomeni paranormali e alle storie dei classici fantasmi che popolano vecchi manieri britannici, ma allo stesso tempo – avendo purtroppo una sorella schizofrenica – era anche portato a seguire i progressi della psicanalisi. E sotto-sotto, tanto per gradire, non era estraneo a tendenze omosessuali.
Secondo la prima corrente di pensiero, i due fratellini orfani – di cui lo zio tutore nulla vuol sapere, pur garantendogli ogni risorsa materiale - furono oggetto, in passato, di innominabili quanto presunti o ipotizzati soprusi da parte di persone ormai defunte (Quint e Jessel) che ora appaiono nella casa come fantasmi per prendersi anche le loro anime e contro i quali si batte eroicamente la nuova, giovane istitutrice dei piccoli. Peccato però che questa sia la versione dell'istitutrice medesima, che è anche l'unica campana che si ascolta nel racconto di James (il diario in 24 capitoli scritto dalla ragazza) dove peraltro nessun testimone conferma le apparizioni e dove troviamo solo una serie di circostanze sospette e di sospettose insinuazioni, di retroscena misteriosi e di misteri mai spiegati.
Per la seconda, invece, i ragazzini sono oggetto di attenzioni equivoche e morbose, comunque ossessive, proprio da parte di chi (l'istitutrice) ha assunto il compito della loro custodia ed educazione. Costei sarebbe affetta da complessi (di origine erotica, nei confronti del tutore dei ragazzi, o anche di natura esistenziale, legati all'educazione ricevuta dal padre) che le provocherebbero di conseguenza un raptus di possessività - in particolare nei confronti del piccolo Miles – che a sua volta la porterebbe ad inventarsi le figure e le apparizioni dei fantasmi – in realtà costruzioni del suo inconscio, della sua mente instabile e della sua schizoide personalità - proprio per poter manipolare e finalmente possedere i piccoli. Con la conseguenza disastrosa di essere lei stessa la causa diretta dell'ammattimento della piccola Flora prima, e poi della morte del piccolo Miles; altro che salvarli dagli spiriti maligni!
Torniamo ora a Britten e alla sua amica librettista Myfanwy Piper per domandarci quale fu il loro approccio nella stesura del libretto, e quindi della musica dell'Opera. Intanto si potrebbe a prima vista immaginare che i due fossero abbastanza indifferenti rispetto all'interpretazione (apparizionista o psicanalitica) da dare alla storia, poiché a loro premeva soprattutto una cosa: mettere in scena un soggetto dove dei bambini fossero in qualche modo manipolati (non importa da chi) e posti al centro di vicende equivoche ed inquietanti. Ciò resta comunque ed invariabilmente vero, quale che sia l'interpretazione che si dà del racconto di James; cambia solo il soggetto che minaccia la serenità dei fanciulli: da un lato i malvagi fantasmi di ignobili persone defunte a caccia di anime, dall'altro l'apparentemente (ed ossessivamente) amorevole istitutrice, vittima dei suoi complessi freudiani. O magari – terza scelta - tutti quanti insieme!
Ma a Britten importava anche e assai – senza dubbio – far emergere in modo chiaro, o meno criptico rispetto a James, gli elementi di omosessualità (e pedofilia) nascosti dentro la nebbia del racconto. E ciò richiedeva necessariamente di presentare sulla scena i protagonisti di quei rapporti e di mostrare al pubblico che quei rapporti esistevano per davvero. Ecco quindi che, con il pretesto che non si potrebbe costruire un'opera - da musicare e rappresentare in teatro - esclusivamente centrata su un unico personaggio (l'istitutrice, appunto) e sul di lei racconto, Britten e Piper poterono introdurvi anche gli altri personaggi della storia: i piccoli (Miles e Flora), la governante della casa (Mrs. Grose) ma soprattutto, e in-primis, i fantasmi di Quint e di miss Jessel. I quali in James sono esclusivamente visti o percepiti dall'istitutrice (e da nessun altro!) e non profferiscono verbo alcuno, mentre nell'opera di Britten appaiono non solo a tutti gli spettatori (oltre che all'istitutrice) ma anche ai fratellini… e soprattutto parlano (anzi cantano, come si conviene a personaggi di un'opera musicale) sia ai ragazzi, sia fra di loro.
Naturalmente la maestrìa musicale di Britten si incaricherà di stabilire tutta la fitta rete di relazioni fra i fantasmi e i piccoli, mentre sul piano visivo è l'ultima scena del primo atto il teatro scelto da Britten/Piper per renderci esplicito e inequivocabile (e non solo presunto, quindi indimostrabile, come in James) lo scabroso e malsano rapporto esistente – e preesistito – fra i quattro. Quint parla a Miles e Miles risponde; Jessel parla a Flora e Flora risponde; ed è come se riprendessero discorsi interrotti da poco tempo, fra loro esiste una scoperta complicità, non vi possono essere dubbi! E da qui tutta la nebbia di James svanisce: la prima scena del secondo atto ci mostra Quint e Jessel che si incontrano – in un luogo indeterminato, che potrebbe essere l'inconscio dell'istitutrice - e letteralmente discutono della loro situazione, del loro passato, dei loro progetti, di come catturare definitivamente le personalità dei piccoli. La Piper qui introduce il famoso verso di Yeats («The ceremony of innocence is drowned») che è in effetti il programma politico dei due fantasmi-amanti-corruttori-pedofili.
Poi – nella quinta scena – Quint istigherà Miles a rubare la lettera dell'istitutrice, pronta per essere spedita allo zio dei ragazzi, e Miles eseguirà immediatamente l'ordine. Infine, nella drammatica scena conclusiva, Quint cercherà disperatamente di convincere Miles al silenzio, a non tradire i loro segreti. E alla fine, sconfitto, ammetterà: Ah, Miles, we have failed. Proprio così: noi abbiamo fallito!
Insomma, il risvolto apparizionista del libretto fu evidentemente una scelta quasi obbligata per Britten/Piper, ma per ragioni - come dire - ideologiche prima che artistiche, e meno ancora per necessità legate all'allestimento. È però interessante rilevare come nell'opera siano presenti – anche e soprattutto nella natura dei motivi musicali – degli indizi non trascurabili di affinità, se non di complicità, fra i personaggi dei fantasmi (Quint in primo luogo) e la stessa istitutrice, indizi che fanno quindi riemergere sottilmente anche i risvolti freudiani della vicenda. È come se Britten, ancora una volta, avesse voluto mostrarsi equidistante dalle interpretazioni del racconto di James, ma non prima di aver introdotto nella sua propria opera ciò che gli premeva di più.
Bene, vedremo a Venezia come Pier Luigi Pizzi ci presenterà questa storia, che non cessa mai di affascinare. A proposito del titolo, ci sono almeno tre possibili origini: una, del tutto generica e presumibilmente estranea alla volontà di James, che deriva dall'uso che dell'espressione si faceva – e ancora si fa? - nelle carceri (il giro di vite che serviva a far parlare un testimone reticente); l'altra, presa dal prologo del racconto, dove si afferma che la storia di un fantasma che appare ad un bimbo dà un giro di vite alla drammaticità dell'evento (e quella che riguarda due bimbi, provoca due giri di vite); infine, nel capitolo XXII del racconto, la protagonista (l'istitutrice) usa il termine su di sé, nel senso di dare, con un giro di vite, ulteriore forza alla sua volontà; insomma, di darsi la carica in vista del momento tòpico della vicenda: il suo finale show-down con il piccolo Miles e il fantasma di Quint.
Sul versante musicale, Britten impostò il suo lavoro con rigide e matematiche ed anche artificiose e gratuite simmetrie: 8 scene per ciascuno dei 2 atti (più il Prologo) tutte precedute da un'introduzione orchestrale. Le 16 introduzioni propongono rispettivamente un tema e sue 15 variazioni.
Dopo il Prologo e come introduzione alla prima scena, abbiamo l'esposizione al pianoforte del tema, una serie dodecafonica, suddivisa in 3 tetracordi (ciascuno composto da due coppie di note distanziate di una quarta) che poi comparirà, variata (anche attraverso operazioni fiamminghe di inversione, retrogradazione, etc.) per altre 15 volte, precedendo come si è detto le altrettante scene dell'opera:
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È questo il solo e labile riferimento alla tecnica e alla scuola dodecafonica, cui Ben Britten rimase sempre sostanzialmente estraneo (anzi, arrivando quasi ad irriderla ed offenderla in Death in Venice) conservandosi fedele alla tradizione e introducendo al massimo qualche dissonanza nelle sue composizioni, rigorosamente ancorate alla tonalità (nello Screw abbiamo, ad esempio, il chiaro contrapporsi di LA naturale e di LA bemolle, a rappresentare ingenuamente – semplifico – il bene e il male).
Quanto all'orchestrazione, è assolutamente cameristica, con 13 soli esecutori: quintetto d'archi (2vl-vla-vc-cb) flauto (prende ottavino e contralto), oboe (prende corno inglese), clarinetto (prende clarinetto basso), fagotto e corno; poi arpa, percussioni varie e pianoforte (alternato a celesta).
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Interessanti approfondimenti sono reperibili in sul sito del Teatro, allegati al libretto dell'opera (circa 7 Mbyte pdf).
2 commenti:
Molto bella questa tua presentazione del lavoro di Britten, complimenti.
Contavo di esserci, ma ragioni di forza maggiore alle quali si è aggiunto un bel colpo della strega me l'impediscono.
Peccato perché ci sono ancora parecchi posti disponibili per tutte le date.
Ciao!
@Amfortas
Grazie, ti confesso che mi ha sempre colpito l’inafferrabilità del racconto di James. Che si perde un po’ nella trasposizione di Britten, in favore però di una maggiore drammaticità. Spero proprio che la coppia Tate-Pizzi ne cavi fuori il meglio!
Ciao.
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