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17 giugno, 2010

Manfred a Torino

Ieri sera, l'ultima recita al Carignano di Manfred. Che, da sabato 19 (diretta su Radio3, ore 20) si trasferisce per altre 5 rappresentazioni al Regio.

Uno spettacolo assai interessante ed intelligente, cose non facili da raggiungere con un'opera come questa, che è né carne né pesce, si potrebbe dire. E si comprende perché la stragrande maggioranza delle (pochissime) esecuzioni avviene in forma di concerto e magari (come nel caso di Carmelo Bene) con il solo protagonista a recitare, accanto ad orchestra e coro. Insomma, trovare il giusto equilibrio fra recitato puro, recitato su sfondo musicale e cantato, e rendere lo spettacolo coinvolgente, senza inutili lungaggini o dispersioni o cadute di tensione non è propriamente una cosa facile.

Di ciò va reso onore al regista Andrea De Rosa e ai suoi collaboratori per scene, costumi e luci, oltre che a tutta la compagine musicale ed attoriale.

Due parole sul testo, nella nuova traduzione di Enzo Moscato. Giustamente, in vista dello spettacolo sceneggiato, è stato dato abbastanza spazio anche a parti – di puro recitato - che quasi sempre vengono espunte. Una di queste è la presenza del cacciatore di camosci che nell'originale di Schumann appare solo di sfuggita (poche parole nel N°4, Alpenkuhreigen) mentre nel poema di Byron occupa la scena finale della prima parte e quella iniziale della seconda. Ignorati invece – ma con piena giustificazione – i personaggi e i relativi recitati di Hermann e Manuel, che non aggiungerebbero valore e farebbero probabilmente cadere la tensione del finale.

Altri interventi rispetto al testo originale di Byron (e in parte di Schumann) riguardano i personaggi extraterreni (spiriti, maghe, parche): per evitare di disorientare uno spettatore che non conosca preventivamente e a fondo il poema di Byron, si son fatte delle semplificazioni. Mentre in Byron (nella prima scena) abbiamo sette spiriti, più una voce e in Schumann solo 4 (cantanti) e poi (nella seconda parte) abbiamo le tre parche più Nemesi e (nella terza) lo spirito di Manfred, qui abbiamo solo tre figure recitanti femminili che li impersonano tutti: nella prima parte (sulla Jungfrau) due di esse espongono alcuni versi del monologo di Manfred (rendendolo così meno pesante); nella seconda assumono le vesti delle tre Parche. Una di esse, togliendosi la bionda parrucca e rimanendo con una cuffia nera, assume poi il ruolo di Nemesi e, alla fine, quello dello spirito di Manfred.

Anche grazie alla corposità (relativa) delle parti recitate il tutto dura quasi 90 minuti, senza intervalli: una cosa del tutto sopportabile e dove l'attenzione e la tensione rimangono sempre alte.

La scena è spartana: sullo sfondo del palcoscenico è disposta l'orchestra, separata dal proscenio da un sipario semi-trasparente. Si intravede appenda durante le parti musicate, mentre resta totalmente al buio durante i recitati puri. Davanti l'orchestra, ma sempre dietro la zanzariera, un'impalcatura di tubi innocenti: vi si collocano, all'inizio, i quattro cantanti-spiriti; poi serve a rappresentare le vette della Jungfrau, accogliendovi Manfred e il cacciatore; quindi, poco più in basso, fa da baita del cacciatore medesimo, all'inizio della seconda parte; infine vi compaiono gli spiriti di Ariman, cioè …il coro di Gabbiani, per la conclusione della seconda parte.

Sul proscenio, anzi sopra la buca (vuota) dell'orchestra, un praticabile dove sta un tavolaccio sul quale giace supina (fin da quando il pubblico fa l'ingresso in sala e fino alla fine) Astarte. A significare la centralità di questa figura, che è un po' l'idée-fixe di Manfred, che crede di vederla ad ogni piè sospinto (anche nella materializzazione dello spirito - nella prima parte - e in quella della maga delle alpi - nella seconda) e il cui ricordo, con annessa colpa, accompagna ogni suo atto e parola. Il suo corpo è completamente nudo, a rappresentare, credo, il contenuto peccaminoso, la colpa e la vergogna della relazione di Manfred con la sorella. Non a caso, il corpo verrà rivestito solo alla fine, allorquando Manfred troverà pace (secondo Schumann peraltro, e non secondo Byron) sdraiandosi per morire (finalmente, dopo tanti tentativi) a fianco dell'amata, sul canto del Requiem.

Manfred e il cacciatore e poi l'abate (questi ultimi impersonati dallo stesso attore, visto che rappresentano – in opposizione a Manfred – la gente normale) scendono talvolta in platea, per dare maggior enfasi ad alcune parti dei loro recitati.

E a proposito di recitazione: Valter Malosti (che è subentrato alla francese Frédérique Loliée, originariamente destinata al ruolo en-travesti, ma che ha dato forfait da tempo, causa maternità) ci ha mostrato un Manfred genuino, dalla personalità instabile, un tipo complessato e un po' vanesio, afflitto da problemi esistenziali e da sensi di colpa, presuntuoso e megalomane, ma allo stesso tempo fragile e inquieto. Certo, un'interpretazione assi distante da quella che molti hanno ancora in mente (e che si può rivedere in parte su Youtube) di Carmelo Bene.

L'altro recitante che ha in questa edizione un ruolo importante è Marco Cavicchioli che – come detto – impersona il cacciatore e poi l'abate. Efficace la sua interpretazione, di persone normali, gioviali e senza complessi, che fa da grande contrasto con quella del protagonista. Brave le altre, Daniela Piperno, Francesca Cutolo e Milvia Marigliano, che pure hanno parti importanti, anche se quantitativamente limitate.

Paola Caterina D'Arienzo è Astarte: la sua fatica più grande è stare per 100 minuti svestita e sdraiata su un duro pancone (salvo i pochi momenti in cui Manfred la solleva, e le poche sillabe che deve pronunciare durante la sua apparizione). Insomma, lei interpreta un simbolo, più che una persona.

Sul fronte musicale, direi che Gianandrea Noseda (da suo concittadino non posso che tifare per lui!) e Roberto Gabbiani con il suo coro (e i bassi e baritoni che cantano la maledizione) oltre agli spiriti solisti (Daniela Pini, Cristina Barbieri, Matthias Stier e Andrea Papi) hanno fatto del loro meglio per farci apprezzare quest'opera, che non sarà un capolavoro assoluto, ma che non merita neanche il mezzo oblìo in cui è caduta.

Alla fine, quasi 10 minuti di applausi continuati – e più che meritati - hanno accolto interpreti e direttori.
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