intime gioje

chiuder la prigione e buttar la chiave

29 luglio, 2008

Ancora sul Parsifal di Herheim

Il commento preoccupato di Amfortas al post precedente mi spinge a qualche doverosa precisazione riguardo ai problemi posti dal cosiddetto Regietheater.

La regia di opere e drammi musicali è ormai assurta ad uno status di arte (!?) di per sè, e dobbiamo quasi ringraziare un Herheim che almeno con Parsifal non è caduto in gratuite volgarità, come altre volte ha fatto (vedi il tristemente famoso Ratto del 2003 a Salzburg o il Don Giovanni dell’anno scorso a Essen) e come altri fanno spesso e volentieri (a proposito, dare un’occhiata alle immagini dell’attuale salisburghese Don Giovanni di Claus Guth - quello che l’anno scorso ha fatto scempio dei Meistersinger, superando persino la “piccola peste” Kathi Wagner, sonoramente “buata” anche domenica sera).

Che lo spettacolo del Parsifal 2008 a Bayreuth sia sontuoso ed emozionante, non lo metto in dubbio: peraltro ho visto cose superbe anche agli MGM-Studios in Florida, e persino - senza allontanarmi troppo - a Gardaland!

Ecco, produzioni di questo genere dovrebbero magari farsi in cinema, e avendo il coraggio di chiamarle con il loro nome: libere interpretazioni di un’opera originale, secondo i criteri e gli approcci più diversi.

Oltre a quello usato da Herheim e dal suo team per Parsifal (rappresentare l’opera tramite le circostanze esterne in cui è stata concepita e gli “effetti” che essa ha storicamente provocato - o cui ha per così dire “assistito”) si può interpretare liberamente un’opera trasponendone i fatti e i personaggi nel presente, o nel futuro, o nel passato, fate voi... insomma: in epoche, tempi e scenari diversi da quelli scelti dall’autore. Oppure interpretare a proprio modo il significato del significante (termini la cui cardinalità è - per definizione - n:1, con n tendente all’infinito) Quindi va bene anche il Parsifal che fa - come il Papa a Montecitorio - una visita al Bundestag, ma potrebbe anche fare il missionario in Sudan, o l’aspirante kamikaze a Jenin, o il figlio illegittimo di una prostituta che si intestardisce a voler redimere il magnaccia di sua madre e poi, non riuscendo a redimerlo, lo fa semplicemente secco. Lo scenario dei cavalieri del Gral e del cattivone Klingsor potrebbe essere trasposto nel Bronx, dove di pretesti per rappresentare faide tra bande di disperati spacciatori di drogral ce n’è a volontà. Se passiamo al Ring, si può inscenare l’imprenditore apparentemente probo ed onesto (Wotan) che invece fa concorrenza sleale ad Alberich, rubandogli nottetempo i suoi segreti industriali (ah, mi avvertono in questo momento che l’idea è già stata applicata anche a Bayreuth...) o Siegmund e Sieglinde che si iscrivono al partito radicale per rivendicare almeno i dico, o i pacs, e invece il papa (o papà) Wotan che è costretto dalla binetti di turno a sopprimerli per coprire lo scandalo dell’incesto; Alberich si può personificare in un vallanzasca - un vero genio del male, capace però di impensabili arditezze mentali - e le Figlie del Reno trovano mille possibili applicazioni, dal trio-lescano alle spice-girl, alle sorelle-bandiera o alle simpatiche brasiliane finte del cacao-meravigliao, il moderno oro del renato (carosone).

Quel geniaccio di Calixto Bieito ha spiegato di aver avuto la sua fulminante idea per un Fliegende Holländer (pieno di lavatrici e frigoriferi, tutto in partitura, s’intende...) un giorno che stava seduto all’aeroporto di Zurigo, aspettando un volo puntualmente in ritardo: lì ha capito come doveva sentirsi quel pirata-giramondo olandese, sballottato da un oceano all’altro, con la possibilità di scendere a fare pipì solo una volta ogni sette anni!

Tornando a Parsifal, nel 1995 a Monaco tale Peter Konwitschny, un altro che va per la maggiore, si è distinto nell’impossibile impresa di rovesciare come un calzino lo spirito del dramma sacro: da religioso ad ateistico, dalla redenzione al nichilismo, dalla ricerca della luce alla disperazione. E la cosa è tanto piaciuta che verrà ripresa nel 2009, ormai è un classico, più classico del Parsifal di Wagner, e Herheim dovrà farci i conti!

Insomma: ci può stare tutto, basta un po’ di fantasia... ma bisognerebbe cambiare le locandine!

Le domande che vengono spontanee sono tante:
- dell’opera originale non frega più nulla a nessuno, è roba passata e decrepita (le resta appena il titolo) e quindi può solo essere contrabbandata dopo opportuna e drastica adulterazione;
- i frequentatori dei teatri sono gente incolta (per lo meno sul piano artistico): quindi vanno attirati con effetti speciali (sesso, violenza e spettacolari trovate tecnologiche sono ingredienti matematicamente appropriati);
- i veri appassionati ed esperti sono un’infima minoranza (per di più con pochi quattrini in tasca) e l’economia di larga scala di oggi non può permettersi di accontentarli a costi sostenibili (ma l’opera biologica, non si potrebbe fare?);
- una cricca di furbi e smaliziati individui ha capito che più le spara grosse, più viene apprezzata e valutata dai manager della cultura, e così si è creata una nuova casta, il Regisseur, che invece di servire (che fatica!) si serve delle cose importanti inventate da altri per far soldi e carriera a buon mercato e a colpo sicuro;
- il progresso umano è inarrestabile, e comporta la totale revisione, rimanipolazione, ristrutturazione, e reimpasto di tutte le espressioni artistiche: in fondo già il cinema si fa oggi più col computer e con le animazioni, che non con gli attori e le riprese in studio o dal vivo; e l’opera non può sottrarsi a questo inevitabile destino.

Quest’ultima variante del fenomeno è forse la più subdola e al tempo stesso moderna e innovativa: torniamo ad Herheim e al suo Parsifal. Quest’opera (Wagner mi perdonerà se la apostrofo così, neanche fosse un Bruschino qualunque) si presta magnificamente - come altre del maestro di Lipsia - ad operazioni tipo Herheim. Costui, con un indefesso lavoro di un intero team, composto da storici (non solo della musica) e da esperti, esegeti e topi di biblioteca, ha saputo e potuto costruire un allestimento del Parsifal impiegando tutto quel mare di riferimenti (extra-musicali ed extra-artistici, sia chiaro) che l’opera si tira dietro. Parsifal nasce nel bel mezzo della civiltà guglielmina, in una Germania che cerca la sua identità e il suo redentore; e Wagner si autopone - sul piano artistico, quanto meno - come il faro che illumina la via da percorrere. Wahnfried e il Festspielhaus diventano - per la società di quel tempo - autentici luoghi sacri. Richard non c’è più, ma la terribile Cosima, col figlio prediletto (e maledetto?) si incarica di continuare a celebrare i riti del gral e a nutrire di illusioni e di ideologia di grandezza i suoi compatrioti. La grande guerra è uno dei passaggi di questo inseguimento alle chimere parsifaliane; una volta persa, con milioni di morti, diventa un pretesto per rilanciare, come si fa a poker, e la nazista-ante-litteram Winifred si appropria delle opere del suocero per supportare adeguatamente il sein Kampf, e Parsifal volentieri si presta alla bisogna. Perduta un’altra guerra, stavolta in modo tragicamente definitivo (Zertrümmert! Zerknickt! verrebbe da dire, con Alberich) ecco che Parsifal si rifà vivo, portato per mano dall’ex prediletto del Führer (Wieland) a porsi, ancora e sempre, come il faro che illumina la via al nuovo Gurnemanz, Konrad Adenauer. Herheim si è fermato qui, ma poteva benissimo arrivare fino al parsifaliano Helmuth Kohl, che nel 1989 ha riportato la Germania al suo apice... prima della diluizione del Deutsche Mark nell’Euro.

Il Parsifal di Herheim è tutto questo, quindi una grande cosa, indiscutibilmente, proprio sul piano artistico. Aggiungiamo poi l’impiego dei potenti mezzi della tecnologia ed abbiamo la spiegazione dell’enorme successo che il regista norvegese sta riscuotendo, dopo una sola rappresentazione.

Operazione subdola, peraltro, poichè utilizzando il vero Parsifal per raccontarci un pezzo di storia dell’umanità, finisce per distruggerlo.

Appropriazione indebita e scempio di un’opera d’arte, per impiegarla nella costruzione di un’altra opera d’arte, questo - per me - il succo dell’impresa.

Per il resto, manca solo di intervenire anche sul pentagramma... ma ormai temo sia solo questione di tempo.

3 commenti:

Amfortas ha detto...

Impossibile non essere d'accordo con la tua avvelenata in stile gucciniano.
Aggiungerei a tutti i punti ancora una circostanza, perché a me fa ribollire il sangue: la necessità che i registi sentono (vale per tutti i Compositori) di sottolineare in qualche modo come le opere liriche contengano elementi di modernità.
Non mi risulta che si faccia con Raffaello o Canova, tanto per citare a caso Artisti di altre discipline.
La ricerca della modernità può essere fatta in un articolo di stile divulgativo, per incuriosire il neofita, che poi però, in teatro, dovrebbe vedere uno spettacolo quanto più possibile fedele alla volontà dell'Autore.
Comunque, ti linko il post sul mio blog.
Ciao.

daland ha detto...

Il teatro musicale è forse l’unica arte che si presta a questi equivoci e strumentalizzazioni.

Sarebbe dura ambientare l’Amleto in California, o l’Agamennone a Khartum!

E chi si prende la briga e il coraggio di ritoccare qualche verso della Commedia, per poi leggerla in piazza o in teatro?

Non parliamo di statue e quadri, la cui manomissione anche minimale comporta la galera!

Invece, l’opera lirica e - peggio - il “dramma per musica” (che non inventò affatto Wagner) sono oggetto di saccheggi e violazioni continue. Qualche ragione vaga e remota magari la si può anche trovare: libretti e scene delle opere - massimamente dell’opera “italiana” - sono spesso dei puri e beceri pretesti, senza senso compiuto, buoni solo a far da eccipiente alla vera e unica sostanza, che è la musica e il (bel)canto. Con tutto il rispetto per Rossini, ma se - per attirare più pubblico in teatro - si ambienta il Barbiere di Siviglia a Zagarolo, a patto che musicisti e cantanti siano all’altezza, la cosa funziona benissimo: che valore aggiungono le Siviglie di cartapesta al capolavoro del pesarese? Già con Händel e Monteverdi le cose cambiano, perchè lì c’è un sostrato letterario, filosofico, drammatico, all’azione musicata; figuriamoci con Wagner, che condensa nei suoi drammi musicali filosofia, psicanalisi, visioni cosmiche, concetti metafisici. Che lui stesso faceva fatica a rappresentare, riconoscendo i limiti dei suoi stessi allestimenti, che rischiavano di far cadere le sue opere nel ridicolo.

Insomma: si viaggia sempre sul filo del rasoio, in bilico tra il pericolo di proporre allestimenti piatti e che non aggiungono valore (non per nulla l’esecuzione in forma di concerto viene sempre più in voga) e quello di stravolgere totalmente l’essenza dell’opera, nel cercare, magari in buona fede, di renderla “presentabile” anche all’occhio, oltre che all’orecchio.

Giuseppe Sottotetti ha detto...

Leggo in "Il pubblico nello spazio e nel tempo": Quasi tutti i registi d'opera si propongono prima o poi di allestire il Don Giovanni adattandolo ai nostri tempi; mentre chiunque abbia senno dovrebbe convenire che occorre non adeguare quest'opera al nostro tempo, ma adeguare noi stessi all'epoca del Don Giovanni per entrare in sintonia con la creazione mozartiana.

Io aggiungerei di mio che ormai una buona fetta del pubblico apprezza questi rifacimenti dell'opera (lirica ma anche teatrale). Ricordo una proiezione del Parsifal fatto a Bayreuth da Stein con la regia di Wolfgang che venne frettolosamente liquidata da alcuni spettatori con un "ma sì, si è limitato a raccontare l'opera".