24 marzo, 2010
Direttori rampanti
Mehta in concerto (fra un Tannhäuser e l’altro)
Zubin Mehta affianca alle rappresentazioni di Tannhäuser un paio di concerti alla Scala, con un programma tutto francese.
Apertura con Olivier Messiaen e il suo Et expecto resurrectionem mortuorum. Siamo nel 1964, e il francese – peraltro commissionato a scrivere quest'opera - torna ai temi religiosi che gli erano stati così cari in giovinezza, e che poi aveva abbandonato per darsi all'ornitologìa! Ma gli uccelli (meglio, i loro imitati suoni) non mancano nemmeno qui. In assenza di testo (le parole restano solo nei sottotitoli dei 5 brani) è davvero difficile associare a questa musica un alcunché di mistico; la composizione poteva benissimo intitolarsi più asetticamente Cinque pezzi per fiati e percussioni, o qualcosa di simile, senza che nulla cambi nella percezione dell'ascoltatore.
Quindi - come per molta musica a programma, beninteso - sono i titoli a guidare la nostra immaginazione per cercare – ma è dura! - di rendere la musica congruente ad essi, non certo il viceversa! Si comincia con Des profondeurs de l'abîme, je crie vers toi, Seigneur : Seigneur, écoute ma voix! dove le profondità sono interpretate da tube e tromboni, con pesantissimi accordi che richiamano piuttosto il lento muoversi di pachidermi o ippopotami; il grido è una serie di dissonanze acute, che nessun Signore potrebbe mai apprezzare! Segue poi Le Christ, ressuscité des morts, ne meurt plus; la mort n'a plus sur lui d'empire. Un movimento lento, suonato in prevalenza dagli strumentini e con interventi di campanacci e poi di trombe stridenti, che con la Resurrezione, come uno se l'immagina, ha veramente poco a che vedere! Nel terzo brano - L'heure vient où les morts entendront la voix du Fils de Dieu... - appare l'uccello amazzonico (Uirapuru) una reminiscenza dell'incipit del movimento finale della mahleriana Resurrezione, dove sentiamo usignoli in lontananza. Poi campane, fremiti di tam-tam, trombette dissonanti e ritorno di tromboni e tube (la voce del Figlio di Dio?) Quindi segue Ils ressusciteront, glorieux, avec un nom nouveau - dans le concert joyeux des étoiles et les acclamations des fils du ciel. Tam-tam (di tre diversi calibri) gong e campanacci da vacche la fanno da padroni, con intermezzi di strumentini e trombette stridenti, con chiusa in fortissimo, che più che la voce dei figli del cielo sembra lo strepito di qualche suino sottoposto a sevizie, altro che concerto di stelle! Qui qualcuno comincia forse ad infastidirsi e applaude… sperando che sia finita. Invece c'è ancora Et j'entendis la voix d'une foule immense... dove udiamo sonorità (scimmiottate) da Gral, con campane e gong a profusione. Insomma, a mio modo di sentire, un pezzo velleitario e francamente insincero, per non dire insulso.
In ogni caso, Mehta (partitura sul leggio, fatto portare via per i successivi due pezzi) e i professori lo eseguono con la massima concentrazione, e si meritano un giusto applauso.
Dopo il laborioso trambusto per smobilitare l'ipertrofico armamentario percussivo di Messiaen e far posto agli archi (disposizione all'antica, con violini secondi sul davanti, a destra) passiamo a cose francamente più serie, con Debussy e Ravel.
La Mèr è un'opera straordinaria, anch'essa musica a programma, dove le note cercano di calzare con il soggetto, non sempre riuscendovi alla perfezione. Ma insomma, la classe non è acqua (smile!)
.
.
Bravissimo Mehta a cavar fuori le delicate e impressioniste sonorità del grande Claude.
Chiude Ravel con Daphnis et Chloé (precisamente la seconda Suite). Che viene aperta da questo incredibile virtuosismo dei flauti:
.
..
ripreso alla battuta successiva dai clarinetti; e sottolineato poi dalle due arpe (a turno), prima che anche la celesta ci metta lo zampino. La didascalìa ci informa: nessun rumore al di fuori dei rigagnoli formati dalla rugiada che sgocciola dalle rocce. Ecco, anche questo è un capolavoro! Travolgente poi la danza finale, col suo tempo zoppo di 5/4 (3+2) che poi sfocia in 3/4 e ancora in 2/4 per la chiusa in fortissimo.
Trionfo per Mehta e per l'Orchestra, strumentini su tutti. Il Maestro torna più volte, stringe la mano alle prime parti degli archi, alla fine unisce le mani davanti alla fronte, proprio all'indiana, e poi appoggia la destra sul cuore, per ricambiare autentiche ovazioni. Si vede che è proprio una persona serena e felice!
22 marzo, 2010
Bayreuth: si chiude un’era
Ieri è scomparso, a 90 anni, Wolfgang Wagner, nipote di Richard e dal dopoguerra alla testa del Festival di Bayreuth (prima in comproprietà col fratello Wieland, poi da solo).
Figura controversa: considerato mediocre regista (al contrario del geniale Wieland, che introdusse a Bayreuth concetti di regìa teatrale poi magari degenerati nel peggiore Eurotrash) e organizzatore furbastro ed opportunista, ha contribuito a rilanciare il teatro del nonno in un momento in cui, causa il fiancheggiamento al nazismo, la cosa era tutt'altro che scontata.
.
Poi ne ha consolidato la fama anche con scelte dove il coraggio si accompagnava spesso al più bieco opportunismo. Ed è stato quindi anche responsabile dell'abbassamento del livello qualitativo medio del festival, che viene oggi snobbato proprio dai migliori interpreti wagneriani.
Oggi le due figlie (di mogli diverse) Eva e Kathi sono al posto di comando (hanno già un'edizione al loro attivo) e fra un paio d'anni dovranno gestire l'evento del secolo, i 200 anni dalla nascita del fondatore dell'impero.
19 marzo, 2010
E bravo Conlon!
La newyorkese milanesizzata blogger di Operachic ha intervistato di recente il maestro James Conlon (che ha diretto – per me assai bene – l'ultimo Rigoletto alla scala).
Un passo topico dell'intervista è questa considerazione di Conlon:
Our job as performers is to surrender our own egos and to completely open ourselves to the work itself and to transmit that work as if we're not there. This is on the one hand a very easy and simple thing to do. On the other hand, we're all crippled by our own egos. To me, I'm not interested in knowing what my interpretation is. When I was studying at The Juilliard School, the big movement was objectivism vs. subjectivism and the popular methodology was, "You have to find your own feelings, your own voice, and you have to find yourself. What's your take on this piece of music?" Well, I had an allergy to that type of conversation. I thought, "I know what my feelings are and I couldn't care less what my own feelings are. I want to know what the object is." Is that objectivism? Well, yes, that's objectivism. I want to know who Haydn is. I want to know who Beethoven is. I want to know how their music works. How does it fit? Why is it this? And why is it that? And to me, the beauty of that method is that you can devote yourself to the other, and a byproduct of that is that you find yourself. However if you go from the other point of view -- the "find yourself" subjectivism -- you don't find the other.
In sostanza, il Maestro sembra dire: io vorrei poter trasmettervi la quinta di Beethoven, non la Quinta di Conlon, da paragonare con quella di Abbado, di Furtwängler, di Kleiber o di HvK.
Personalmente: parole sante!
Stagione dell’OrchestraVerdi - 23
Interessante e impegnativo programma alla stagione dell'OrchestraVerdi, con pezzo forte la sinfonia Turangalila di Olivier Messiaen.
C'è anche un'insolita anteprima, chissà se e come legata alla presenza sul podio del basco Juanjo Mena e a festeggiamenti con cui il Consolato di Spagna a Milano celebra l'attuale turno di presidenza spagnola della UE: la città di Bilbao (presente il sindaco) si fa un po' di pubblicità, con la proiezione di un filmato che mostra le magnifiche sorti e progressive della famosa città del Paese Basco, passata in 30 anni da una profondissima depressione all'attuale prosperità. E fin qui, tutto bene. Peccato che il festeggiamento comporti anche l'esecuzione di una ouverture di uno sconosciuto musicista di Bilbao, Juan Crisóstomo de Arriaga (primi dell'800) una cosa a metà fra Paisiello e Rossini. Nulla di peggio da ascoltare subito prima di Preludio+Liebestod dal Tristano di Wagner. È come bere un bicchierone di vecchia spuma prima di un calice di amarone. Nobbuono.
E forse ciò è funesto anche sulla concentrazione dell'orchestra, che è tutt'altro che perfetta in Wagner, colpa anche di Mena, sicuramente: tempi piuttosto slentati, poco o nulla del pathos che caratterizza queste pagine, qualche evidente imprecisione negli attacchi. Inoltre – e qui nessuna colpa per maestro e orchestrali - l'esecuzione puramente strumentale del finale del dramma lascia sempre il sapore di un manicaretto che il cuoco abbia cucinato dimenticando un ingrediente fondamentale; che so, come mangiare una bagnacauda senza acciughe, o i tortelli di zucca senza… la zucca o addentare un panino al salame, cui qualcuno ha sottratto il salame. Nella Liebestod la voce ha una sua propria linea melodica autonoma, che l'orchestra sostiene e richiama, ma che mai raddoppia alla lettera. Quindi se si esegue il brano senza la voce, davvero non ci si raccapezza, si sente solo l'accompagnamento che, per quanto sia grande musica, è appunto solo un accompagnamento. Non ho mai capito perché Wagner per primo o qualche musicista avveduto non abbia pensato di far cantare, al posto della soprano, che so, una viola o un flauto, per darci almeno l'idea vaga di cosa sia il brano originale. Tanto per fare un esempio, quando una soprano esegue in concerto Sempre libera dalla Traviata e non si vuole scomodare un tenore solo per fargli cantare i versi fuori scena (sono poche parole, ma straordinariamente efficaci) lo si sostituisce con il canto di un violoncello, per non farci perdere quel bellissimo effetto. Pazienza, anche stavolta restiamo con un certo amaro in bocca, e buonanotte.
Nell'intervallo i simpatici ospiti baschi si fanno perdonare Arriaga, offrendo un assaggio del loro pregevole rosso della Rioja Alavesa.
Così ristorati, ci possiamo apprestare all'impresa – titanica invero – di ascoltare il clou della serata: Turangalila di Olivier Messiaen, questa strana e spuria sinfonia in dieci movimenti. In realtà una cosa che ha tratti del concerto per piano e onde martenot (complimenti ai solisti: il giovane Simone Pedroni e la veterana Valerie Hartmann-Claverie) o della cantata (senza voci); altri del poema sinfonico, altri ancora delle variazioni su alcuni temi, o addirittura di una messa sacro-profana, insomma un UMO (oggetto musicale non meglio identificato).
Messiaen ci ha raccontato assai dettagliatamente contenuti e tecnica costruttiva di questo monumentale inno all'amore (che non per nulla si ispira al Tristan): ma come sempre, se e quando una musica ha bisogno di troppe spiegazioni tecniche, è perché da sola fatica a far vibrare le corde interne dell'ascoltatore. Così in sala la prendono per la Leb'wohl di Haydn, nel senso che - ad ogni pausa - c'è gente che si alza e se ne va, alla spicciolata. Al termine del 5° movimento, che chiude con il fracasso di tutta l'orchestra in fortissimo, molti pensano sia finita, e qualcuno comincia ad applaudire. Ma siamo solo a metà! Lenny Bernstein (che diresse la prima del 1949 con la Boston Symphony) faceva a questo punto un intervallo in piena regola, come dargli torto!
Chi è stoicamente rimasto fino alla fine (erano ormai le 23!) ha comunque tributato il giusto riconoscimento a professori, solisti e maestro per l'abnegazione mostrata.
Il prossimo appuntamento prevede "la Patetica" introdotta proprio da Bernstein.
17 marzo, 2010
Tannhäuser a Torino
In attesa dell'arrivo di Zubin Mehta e dei saltimbanchi della Fura alla Scala, ieri sera un Tannhäuser di pura e semplice musica al Teatro Regio di Torino. Della serie: così non occorre chiudere gli occhi per godersi l'opera (smile!) L'anfiteatro del Regio non è proprio colmo-colmo (brutto segno) ma il peggio accadrà al secondo intervallo.
Tannhäuser è rimasta un'opera incompiuta: Wagner riconobbe, proprio a Venezia, poco prima di morire, di esserne ancora debitore al mondo (sì, al mondo, non a qualche appassionato d'opera… lui era un pochino, ma proprio poco, megalomane, si sa). Quindi la curiosità principale che nasce di fronte ad un'esecuzione è: quale versione o rivisitazione ci verrà propinata? La prima, del 1845? O la seconda, o la terza, del 1847, con Venere in bella vista nel finale? O quella del 1861 (del colossale tonfo parigino)? Ma proprio quella di Parigi-Francia, con l'intera Ouverture, o quella parigina-tedesca del 1872-1875, con l'ouverture castrata a due terzi per correre in fretta e furia al tristanizzato – ed anche un filino meisterizzato - bordello di Venere? O qualcosa di diverso ancora?
Bychkov è andato sul sicuro, offrendoci l'ultima versione messa a punto da Wagner, che è – con qualche buona ragione – quella statisticamente impiegata di più, anche se proprio a Bayreuth si ostinano – non sempre – a dare la versione ante-Parigi, forse per postuma ripicca contro quei simpaticoni del Jockey Club, ingrati, che fecero a pezzi l'opera rivisitata proprio per loro e preparata con più di 200 prove, a spese dell'Imperatore!
Quanto alla storia delle interpretazioni, qui c'è una vera enciclopedia!
Bychkov attacca l'Ouverture, e le primissime battute non sembrano molto felici (forse per colpa di un clarinetto?) poi però tutto fila per il giusto verso (tempi compresi). Il baccanale è davvero travolgente, quindi udiamo i dolcissimi richiami delle sirene da lontano (il coro femminile è fuori dalle quinte, sul palco solo i maschi, pronti per la terza scena). In proscenio Venere e Tannhäuser. Michaela Schuster (che in realtà ha un fisico da Giunone, e pure abbondante) mostra subito pregi e difetti, ottima espressività, con qualche urlo sforzato. Johan Botha (che ha la stazza dell'ultimo Lucianone, con la metà dei suoi anni) è esordiente nel ruolo, ma già interprete di altri importanti personaggi wagneriani: all'inizio sembra un pochino contratto, quasi timoroso sulla prima grande frase in RE bemolle (Dir töne Lob!) poi via via migliora, già dalla seconda (che sale al RE naturale) e sulla terza (che sale ancora, al MI bemolle) mostrando la sua voce chiara e squillante, ben adatta per una parte tutta spostata verso l'alto del pentagramma; espressioni efficaci, insomma, grande autorevolezza e padronanza del personaggio. Che non potrà che migliorare con la consuetudine al ruolo.
Brava Erika Grimaldi nelle vesti del pastorello: pur sistemandosi dietro l'orchestra (davanti al coro) la sua vocina passa benissimo, insieme alla struggente melodia del corno inglese (che non arriverà alle altezze del Tristan, ma poco ci manca) suonato da Alessandro Cammilli. Entrano poi, sistemandosi sul proscenio, il Landgravio, un sicurissimo Kwangchul Youn, che ha imparato il ruolo in quel di Bayreuth, e i cantori. Fra i quali spicca subito il Wolfram di Boaz Daniel, voce morbida, assai appropriata per il ruolo (ne avremo conferma i due atti successivi). Jörg Schneider era Walther, Jochen Schmeckenbecher Biterolf, Dominic Armstrong Heinrich e Lucas Harbour Reinmar. Tutti all'altezza dei rispettivi – non impossibili – ruoli. Wagner – megalomane, al solito – prescrive, fuori dall'orchestra, sulla scena, addirittura 12 corni! Bychkov ha la fortuna di disporre di esecutori eccellenti, e gli basta un quarto della dotazione (la stessa cosa accade nel secondo atto, dove Wagner prescrive 12 trombe sulla scena!)
Nel secondo atto vediamo subito la Elisabeth di Ricarda Merbeth. Ottima presenza e portamento, anche lei con luci ed ombre: benissimo finchè canta sul piano, poi, quando deve andare sul forte, e oltre il SOL acuto, mostra una certa tendenza all'urlo. La cosa migliore la farà nel terzo atto. Breve apparizione di Wolfram, che introduce il protagonista e qui abbiamo il duetto Gepriesen sei die Stunde, dove Botha spicca in modo particolare. Torna Hermann, ancora autorevole nel suo incontro con Elisabeth; poi i cori (maschi in alto, signore sotto) per una grande e per nulla enfatica scena della presentazione dei cantori e della tenzone. Dove Boaz Daniel ancora si mette in bella mostra con il suo inno all'amore, poi interrotto dall'esplosione di Botha, che canta per la quarta volta (salendo ancora, al MI naturale) la sua irresistibile attrazione verso Venere.
Poderosa la scena successiva, con cantori e coro ad aggredire il blasfemo, interrotti a tratti dalle irruzioni di Elisabeth (Haltet ein! Zurück, sempre con gli alti-e-bassi ricordati). Dopo il rinsavimento di Tannhäuser (la cui frase principiante con Zum Heil den Sündigen zu führen e fino a für sein Leben è giustamente lasciata al solo protagonista, senza il contrappunto di coro e cantori) si arriva al finale, ancora con il gigantesco concertato generale, culminante nella perentoria intimazione al reprobo: Nach Rom!
Ecco, qui un buon 5-10% di spettatori deve aver preso alla lettera l'invito e se l'è squagliata (correndo a Porta Nuova a prendere l'ultimo Frecciarossa per la capitale?) Desolante, a dir poco!
All'inizio del terzo atto vediamo finalmente sul palco tutti i coristi: in alto i ragazzini di Claudio Fenoglio, sotto le signore e più in basso ancora i maschi (per ragioni, penso, legate alla resa del coro iniziale dei pellegrini). Dopo l'introduzione strumentale, magistralmente diretta da Bychkov, è ancora Wolfram a presentarci Elisabeth, in perenne attesa del ritorno dell'amato. Strepitoso qui il coro di Roberto Gabbiani, un piano davvero religioso, che esplode poi nel fortissimo di Der Gnade Heil, una cosa da mozzare il fiato!
Nel successivo lamento di Elisabeth, la Merbeth dà il meglio di sé, sia come canto che come drammaticità di interpretazione. Come pure fa Boaz Daniel porgendoci con calore e gusto la sua canzone alla stella della sera, mentre la ragazza se ne esce, accompagnata stupendamente da Bychkov. Arriva Tannhäuser col suo lunghissimo racconto della penosa avventura romana, e poi torna sul palco Michaela Schuster per il suo ultimo disperato tentativo di riportare il peccatore al peccato.
Forse Bychkov lascia troppa corda all'orchestra (effettivamente deve fare un fortissimo) ma sta di fatto che lo stentoreo Elisabeth! di Wolfram (autentico momento topico) perde un pochino della sua drammaticità. Ora si chiude, con i ragazzini a cantare il loro parsifaliano Heil! Heil! Der Gnade Wunder Heil! Prima che tutti – in un colossale fortissimo – suggellino la redenzione del Nun geht er ein in der Seligen Frieden!
Un trionfo? È dir nulla! Schiamazzi e urla da stadio (o c'erano troppi interisti?) ad accogliere le sortite di cantanti e direttori e le alzate di professori e coristi. Una serata di quelle da incorniciare.
___
Tornando alla Scala, proprio questa sera il Teatro più importante del pianeta (se lo dice Lissner…) offre la prima del suo nuovissimo allestimento. Che viene annunciato con un francamente inquietante giochetto di parole - Mehta-Fura - che lascia temere interpretazioni metaforiche, quindi di norma strampalate (trattandosi di Wagner e non del Rossini buffo). E pensare che Wagner già nel 1852 aveva sentito il bisogno di scrivere un autentico e dettagliatissimo trattato di messa-in-scena della sua (allora) penultima opera, con considerazioni sui tagli (fatti a Dresda per colpa di cantanti inadeguati) e consigli, anzi ordini in piena regola per Kapellmeister e Regisseur, oltre che per gli interpreti.
Chi, col regista, è ancora più severo dello stesso Wagner è il professor Quirino Principe (autore fra l'altro della pregevole traduzione del libretto, reperibile sul sito del Teatro). Trascrivo testualmente: Un regista che metta in scena Tannhäuser di Wagner deve conoscere la biografia e la poesia di Wolfram von Eschenbach e di Biterolf e di Reinmar von Zweter e di Heinrich der Schreiber, deve saper leggere e capire i testi in «mittelhochdeutsch», percorrere a menadito la storia e la geografia della Turingia, ed avere visitato la Wartburg. Altrimenti, è meglio che cambi mestiere, e si volga a professioni ugualmente onorevoli come il cancelliere di tribunale, l'idraulico, la guardia di finanza, l'impiegato dell'Agenzia delle Entrate.
Ora invece, Padrissa ci confida che lui – anziché nella ridente e linda, ma un po' noiosa Turingia - è andato a cercare ispirazione in India (in omaggio al Kapellmeister) e lì avrebbe trovato Venusberg e Wartburg quasi osmoticamente compenetrati …a Bollywood. La scena finale ci viene così anticipata: le lacrime di Elisabeth formano un lago, in cui Tannhäuser si purifica (e poi ci muore annegato? ndr) e in cui si specchia la luce di Venere, intesa qui non come tenutaria di casini, bensì come luminoso pianeta in cui Padrissa (non Wolfram) ha trasformato la suddetta Elisabeth. Povero Padrissa, come idraulico forse (data la tecnologia da acquari che la Fura impiega in questa occasione) posso anche vedercelo, ma come impiegato dell'Agenzia delle Entrate (?!) Che dio ce la mandi buona, viceversa converrà chiudere gli occhi e sperare almeno in Zubin e nelle voci…
12 marzo, 2010
Stagione dell’OrchestraVerdi - 22
L'atteso ritorno di Rudolf Barshai sul podio de laVerdi è – ahinoi – andato in fumo. Ragioni di salute lo hanno costretto al forfait (certo che quest'anno, Vedernikov escluso, le cose coi russi non stanno andando per il verso giusto!) A sostituirlo torna qui - dopo un mese o giù di lì - il Maestro Giuseppe Grazioli, con programma diverso da quanto riportato sul pieghevole a stampa originale (doverosamente ristampato per l'occasione!)
Si comincia con Shostakovich e la Sinfonia da camera, in realtà opera proprio di Barshai (peccato davvero che non fosse lì a dirigerla!) che vi trascrisse l'Ottavo Quartetto in DO minore op.110. Scritto in un momento non propriamente celestiale della sua vita (1960, idee persino di suicidio!) questo quartetto ha un carattere programmaticamente tragico, ma di una tragicità di cui lo stesso compositore quasi si vergognò successivamente: perché abbastanza affettata e quindi forse insincera, come la dedica propagandistica (imposta dal partito e francamente post-zdanoviana) alle vittime di fascismo e guerra.
Anche qui – come in innumerevoli altre sue opere - il compositore presenta subito la sua sigla DSCH (RE-MIb-DO-SI) che poi pervade l'intero quartetto. Una vera e propria manìa, questa del buon Dimitri, quasi fosse l'istinto del cagnolino che deve segnalare il suo passaggio in ogni dove, alzando la gambetta! Tutti i movimenti (escluso il quinto ed ultimo) terminano con l'indicazione attacca, quindi ciascuno sfocia nel successivo senza soluzione di continuità, dando al pezzo una connotazione quasi di fantasia.
Dopo il lugubre Largo iniziale, appena rischiarato da languide melodie del violino solo – qui Luca Santaniello ha avuto modo di mettersi in luce - l'Allegro molto è uno dei tipici moti perpetui di Shostakovich, dove un tema ossessionante e martellante viene contrappuntato, nel nostro caso, da quello della sigla DSCH, in diverse sezioni dell'orchestra. Si passa poi all'Allegretto (uno Scherzo con Trio, di fatto) che si apre con la solita sigla, poi sottoposta a diverse variazioni. Chiudono i due movimenti in Largo, che ci riportano all'atmosfera lugubre dell'inizio, con triplici colpi da destino che bussa alla porta e pochi squarci di luce, come nella parte centrale del quarto tempo. Finisce tutto in un progressivo spegnersi del suono, sul motivo (indovinate!) DSCH. Pregevole l'interpretazione di Grazioli, tenuto conto della (probabile) scarsa consuetudine con il pezzo.
Si continua con Franz Schubert e la sua Quinta Sinfonia. Se escludiamo la Grande (e magari l'Incompiuta) tutte le altre (e non solo la Piccola, che sentiremo prossimamente) sono in effetti delle sinfonie-cammeo (destinate ad esecuzioni quasi private, con complessi ridotti) rispetto alle quali anche l'altro Franz, il vecchio Haydn, che seguirà nel programma, pare un titano. In più, nel 1816 erano già sul mercato (e da 4 anni) ben otto delle nove sinfonie di Beethoven, per non parlare di Mozart! Tuttavia è innegabile che queste sinfoniette del Franz poco più che ragazzo abbiano tutte un fascino discreto… schubertiano, appunto!
Dopo l'Allegro iniziale, con introduzione brevissima e forma sonata piuttosto eterodossa, l'Andante con moto presenta un tema il cui incipit (dominante-mediante-dominante) ci ricorda quello del Largo della Sinfonia 88 di Haydn, che qualcuno sospetta addirittura scritto da Mozart (come si vede che tutti quanti respiravano la stessa aria…)
Il tema del menuetto poi è di chiara derivazione mozartiana (K550):
.
.
Il Finale è un Allegro vivace in forma-sonata, che Grazioli approccia con fiero cipiglio ma rispettando sempre la leggerezza e il carattere cameristico dell'opera.
Si chiude con la London di Haydn. Centoquattresima sinfonia (ma in tutto pare siano 106 o addirittura 108) di uno che, dopo averne scritte già 103 (o 105, o 107) ancora ne aveva voglia. Questa però è l'ultima, promesso! Poi, bontà sua (nel senso letterale del termine) si dedicherà, prima di togliere il disturbo, a cosucce come La Creazione e Le Stagioni, oltre che ad una messe di messe per i suoi mecenati di Esterhàza.
Essendo retrocessi nel '700, anche la disposizione dell'orchestra cambia: da moderna qual'era, adesso diventa alto-tedesca, con i primi violini davanti a destra e gli archi bassi al centro-sinistra.
Apertura che più haydniana non si può: Adagio in RE minore (17 battute) e poi Allegro in RE maggiore. Forma sonata con certificato di garanzia, sia pure con economicità di mezzi (il primo tema fa anche da secondo, semplicemente portato sulla dominante LA). Poi segue l'Andante (SOL maggiore, ci si poteva giurare!) e quindi il Menuetto ancora in RE maggiore, con scolastica modulazione al SIb del trio. Il Finale la dice lunga sullo spirito che animava il 63enne Josephus in quel di Londra, poco prima di tornarsene a casuccia:
Così Grazioli ha modo di regalarci, con l'Orchestra, uno squarcio di primavera, che fuori sembra ancora molto di là da venire. Di ciò ringraziamo lui, i musicanti e Haydn!
Il prossimo appuntamento – dopo un filtro wagneriano per introdurre l'atmosfera – sarà dedicato a Turangalîla di Messiaen.
11 marzo, 2010
Eurotrash revival
Divertente questa recensione, fatta da un musicista del Wiltshire, della Traviata ripresa quest'anno alla Komische Oper Berlin (si replica fino a maggio, per i patiti del genere).
Protagonista di questo trash (del 2008) il genialoide Hans Neuenfels, ovviamente osannato dalla critica (ma solo quella di cui si pubblicano estratti sul sito del teatro, toh!) per le sue geniali intuizioni.
Fra le quali il nostro Guy Edwards ci elenca la guardia del corpo di Violetta (per difenderla da se stessa, non dagli ammiratori) che Alfredo ammazza, e a cui poi strappa il cuore; Giorgio Germont che ha una zampa zoccolata di animale al posto del piede sinistro (in Provenza deve far comodo); Alfredo e Douphol che non giocano a carte, ma a chi meglio infilza un cuore (di Violetta?) messo su un vassoio.
Ma il meglio arriva alla fine, quando, durante il baccanale, la guardia del corpo di Violetta ricompare, provvisto di enormi coglioni gonfiabili, che poi infilza – prima di andarsene - con uno stiletto, facendoli così esplodere.
perdonami lo strazio recato al tuo bel core
10 marzo, 2010
Da una casa di morti alla Scala

09 marzo, 2010
La nona di Mahler secondo Esa-Pekka
Esa-Pekka Salonen di questi tempi risiede a Milano: tra concerti e opera non ha davvero un minuto libero. Ieri sera ci ha proposto, alla Scala, in un concerto della Filarmonica, la sua vision dell'ultima sinfonia (completata) di Gustav Mahler. Teatro affollato, ma non proprio al completo, orchestra disposta alla moderna (rinforzata di un corno e un clarinetto) e puntualità quasi …finlandese!
È stato giustamente osservato come nelle 6 misure introduttive ci sia in realtà tutta la sinfonia: così come uno zigote, un'unica cellula, contiene i suoi 46 cromosomi, che determineranno infallibilmente la natura del futuro individuo.
.
.
Salonen fa emergere mirabilmente arpa e secondo corno (che cita il Mahler diciannovenne di Das klagende Lied) prima di lanciare i secondi violini nell'esposizione del primo tema (che riprende il discorso da dove lo aveva lasciato Das Lied von der Erde - Abschied e Leb wohl…) Insomma, come ogni interprete che si rispetti, sa conquistare immediatamente il pubblico, catturandone l'attenzione e l'interesse, che poi non scenderanno più, fino alla fine.
Il primo movimento è un continuo alternarsi – una curva bioritmica, si direbbe – di serenità, allegrezza e sconforto, se non addirittura disperazione. Ci si sente lo stato d'animo di un uomo che ricorda, ma anche vive tuttora, momenti sublimi, di grandezza, di felicità, di gloria (basti pensare ai richiami del finale della prima sinfonia). E poi, immancabilmente, al culmine dell'ebbrezza, arriva la depressione, lo schianto repentino, il pessimismo più cupo, persino un mortorio! Allo stesso modo gli incantevoli giorni delle sue ultime estati Toblachiane venivano immancabilmente interrotti dal duro richiamo del dovere, dall'alienante città (Vienna o NewYork, fa lo stesso). Come nel finale della sesta? Sì, ma là c'era non poca affettazione, martellate in primis, qui invece l'anima è proprio nuda! Non sono un finlandese, e quindi posso solo sospettarlo: ma, secondo me, il finlandese Salonen di questi sbalzi improvvisi di umore deve saperne molto, a livello personale; e ciò gli consente di compenetrarsi come pochi altri in questa schizofrenica partitura. Da lasciare letteralmente senza fiato - dopo le reminiscenze dell'Abschied (Die Welt schläft ein…) - la stupefacente cadenza che conclude il movimento, sul primo tema (FA#-MI) dell'oboe, che si spegne sul RE di ottavino e violoncelli in armonici.
Poi arriva il goffo e grossolano secondo movimento, con quei fagotti ad introdurre una comoda danza popolare. Subito però i clarinetti, in modo impertinente, ci rimandano all'ewig del Lied von der Erde! Dopo la seconda sezione quasi diabolica torna, nel trio, quello che può essere definito il leit-motif dell'opera: la seconda discendente mediante-sopratonica, nei corni e primi violini. Fanno capolino anche atmosfere che rimandano al secondo tempo della quarta sinfonia. Poi ancora un selvaggio e ubriacante sviluppo che si arena per sfinimento, ancora sulla scala ascendente dei fagotti – prima – e di controfagotto e ottavino poi, a chiudere in pianissimo, col pizzicato degli archi alti. Salonen ha benissimo in mano l'orchestra, ha anche la partitura sul leggìo, che guarda di traverso, di tanto in tanto. Sempre perentori gli attacchi, gesto preciso e secco, senza inutili platealità.
Il Rondò-Burleske è davvero un capolavoro: di Mahler e di Salonen. Anche qui si capisce tutto dalle prime 7 battute, davvero fulminanti, sui righi del compositore, come nella resa dell'interprete! Poi è tutto una vera e propria ubriacatura, interrotta dalla sezione solenne, che ci rimanda alla chiusa della terza sinfonia, col gruppetto (che sarà il cardine del Finale) a farla da protagonista, dapprima presentandosi con portamento nobile, ma poi trasformandosi in autentico sberleffo, nel clarinetto in LA, ma più ancora in quello piccolo in MIb. Il tutto culmina nel più stretto e poi nel presto conclusivi, dove i pur bravissimi Trepper Philharmoniker sembrano faticare a stare alle calcagna del Maestro, ma chiudono comunque in modo più che degno.
Che dire dell'Adagio conclusivo? Pura metafisica. Un trattato di esistenzialismo trasferito dall'anima direttamente sul pentagramma. Bruckner (nona) l'ispiratore, certo, ma qui c'è riassunta tutta la parabola di Mahler, in termini squisitamente musicali, sia chiaro. Alla battuta 13, dove i primi violini entrano – più rigorosamente a tempo – per esporre la seconda strofa del primo tema, Salonen è così deciso nel gesto che… perde la bacchetta, finita tra i piedi di un violinista: per un po' di battute dirige a mani nude, finchè il professore gli recupera lo strumento di comando. Tutta l'orchestra è come una corda tesa; stupenda la resa che Salonen ottiene dell'Höhepunkt dei corni, uno dei passaggi più straordinari di tutta la musica mai scritta. Danilo Stagni qui si supera e la cosa – oltre al resto della sua maiuscola prestazione – gli merita un gesto inconsueto da parte del Direttore: alla fine, Salonen sale fin sul palchetto dove sono sistemati i cornisti, e si va a complimentare personalmente con la prima parte dei Filarmonici!
Tornando a bomba, l'Adagio finisce in sospeso, degradando di un semitono dal RE maggiore del primo tempo, con una lunghissima cadenza, le cui ultime 34 misure sono affidate ai soli archi, contrabbassi esclusi. Il violoncello solo – assai dolce ma espressivo – fa due discese cromatiche, prima LA-SOL#-SOL e poi ancora SI-SIb-LA-SOL#-SOL: quest'ultima a me richiama irresistibilmente alla memoria quel Seines Elendes jammerte mich (MI-MIb-RE-DO#-DO) con cui Isolde ricorda la pena da lei provata di fronte alla miseria di Tristan morente.
Quindi, dapprima adagissimo, poi lento (sul ricordo della giornata, che è bella su quell'altura) e infine con la massima lentezza, arriva la chiusa, un autentico approdo all'omega, un'ora e venti minuti dopo l'alfa dei violoncelli. Si appoggia sulla dominante, ma solo apparentemente, poiché alle viole che vi ondeggiano intorno si aggiunge la tonica nei violoncelli e la mediante nei secondi violini: quindi una perfetta triade di REb maggiore: crepuscolare redenzione? un altro modo di mormorare ewig, ewig? chissà…
.
.
Esa-Pekka chiede l'impossibile agli archi, primi violini in pppp (!) e gli altri in ppp spegnendosi. La Scala è in apnea, come il Duomo al sollevarsi dell'ostia… un religioso silenzio, che poi sfocia in una liberatoria ovazione, anzi in un vero e proprio trionfo per Salonen e per tutti. Un'emozione davvero indimenticabile!
E questa sera, sempre Scala e sempre Pekka!