affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

27 novembre, 2017

Un Ballo in gondola


La Fenice ha aperto la stagione 17-18 con una nuova produzione del Ballo verdiano, di cui ieri pomeriggio - sala piacevolmente affollata - è andata in scena la seconda recita. La prima, trasmessa venerdi da Radio3, (mi) aveva lasciato una discreta impressione, confermata nella sostanza dall’ascolto dal vivo.

Per l’occasione il sito web che pubblica i contenuti multimediali dell’Archivio Storico del Teatro ha reso disponibile una fulminante conferenza tenuta da Massimo Mila in occasione della produzione del Ballo del lontano 1971 (un breve estratto di essa è stato messo in onda durante il collegamento di Radio3): trattasi di un documento che chiunque voglia apprezzare in pieno quest’opera (invece di limitarsi a gustarla passivamente) dovrebbe ascoltare con attenzione.

E credo che farebbero bene ad ascoltarlo anche tanti registi che si esercitano ad inventare interpretazioni cervellotiche del soggetto di (Scribe-)Somma-Verdi. Per nostra fortuna non è il caso di Gianmaria Aliverta, che già in questa interessante intervista lasciava intendere come lui... intenda la messinscena di un’opera e in particolare del Ballo. Anche lui non si è sottratto alla tentazione di cambiare qualcosa nell’ambientazione, avanzando l’epoca di un paio di secoli (da fine-600 a fine-800) il che comporta inevitabilmente qualche disallineamento con il testo, ma senza stravolgerlo più di tanto, nè soprattutto adulterare i caratteri di fondo delle personalità dei protagonisti del dramma: insomma, una cosa meno pretenziosa ma in compenso molto meno perniciosa di questa.


I riferimenti al problema nero sono enunciati in teoria dal regista, ma in pratica si riducono a qualche moderato maltrattamento di un servitore proprio durante l’esecuzione del Preludio, per il resto rimangono... nella testa di Aliverta, ecco. Le scene di Checchetto e i costumi di Tieppo richiamano l’800 più che altro per qualche stars&stripes e per la fiaccola e la testa della Statua della Libertà, in grandezza quasi naturale (!) dove nel finale si appostano, a sinistra, i 7 elementi dell’orchestrina di archi che Verdi prevede sulla scena e, a destra, i due innamorati per l’ultimo addio, che verrà brutalmente interrotto da un colpo di pistola che Renato esplode proprio dalle scale che conducono alla fiaccola (evabbè).

Altre amenità riguardano il second’atto, dove in scena troviamo un luogo effettivamente lugubre, ma che ha più l’apparenza di uno scavo archeologico (a Boston evidentemente abbondano... !) e dove – per convincere lo spettatore che la figura dello zombie che si para dinanzi ad Amelia non sia un’allucinazione, ma invece un moribondo in carne ed ossa - Aliverta ci mostra un vero agguato di sicari che lasciano sul posto l’anonimo malcapitato. Comunque, cose infantili e tutto sommato perdonabili: come detto, c’è in giro di molto peggio.

La festa finale all’ombra dei pezzi di Statua è stata dignitosamente proposta dai movimenti coreografici di Barbara Pessina. Appropriato l’impiego delle luci di Barettin, forse discutibile la serie di fari accecanti posti sul fondo-scena nella fase cruciale del second’atto.
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Il cast di questa produzione fenicea è (in 4/5 dei ruoli principali, Ulrica l’eccezione) lo stesso che anni fa aveva cantato l’opera al Regio di Parma sotto l’esperta direzione di Gelmetti. Qui le redini sono state affidate al sommo Myung-Whun Chung, che ancora una volta non ha deluso le attese, con una lettura di altissimo livello ed una concertazione che non definisco perfetta solo per via di un paio di... coperture di voci.

Meli su tutti: non solo per la voce (di Pavarotti non ne son più nati...) ma anche per la sensibilità nel porgere le diverse anime del personaggio: qui spaccone e goliardico, là capo autorevole-illuminato, ma soprattutto poi innamorato sincero ed appassionato. La Lewis conferma di essere in crescita con una prestazione all’altezza: acuti ben portati (inclusa la salita al DO nel second’atto) a fronte di qualche centro meno efficace.

Il Renato di Stoyanov (che Aliverta-Tieppo dotano di parrucchino a coprire la naturale capigliatura di uomo di mezz’età, mah...) non incanta, ma nemmeno scontenta, ecco: la voce è solida e ben impostata, il suo eri tu porto con passione e varietà di accenti.

Le due donne co-protagoniste hanno ben meritato: la Gamberoni (che dice di voler appendere al chiodo il ruolo di Oscar) ha sciorinato agilità e brillantezza nei suoi interventi sbarazzini, oltre che una perfetta rispondenza al ruolo en-travesti, sempre di difficile interpretazione in un’opera del secondo ‘800. La maga-sibilla di Silvia Beltrami ha sciorinato sufficiente brutalità e protervia, coerenti peraltro con il ruolo e la musica che Verdi le appiccica addosso, evitando eccessive volgarità o forzature: in complesso una prestazione da accogliere favorevolmente.

I comprimari (Corrò, Lim e Denti) se la son cavata con onore, Giannino e D’Ostuni han fatto diligentemente le loro piccole parti. Benissimo il Coro di Moretti, compresi i piccoli di Diana D’Alessio, rispolverati per l’occasione.
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Che dire, in conclusione? Che la Fenice ha proposto aperture di stagione più eccitanti di questa? Forse, ma credo – parlo per me, ovviamente - che ci si possa accontentare.

24 novembre, 2017

laVerdi 17-18 – Concerto n°7


Il Direttore Musicale de laVerdi, Claus Peter Flor, nel suo percorso di esplorazione delle sinfonie mahleriane, affronta questa settimana quella che rappresenta il culmine della produzione del boemo e quindi il suo lascito artistico e spirituale: la Nona.

Ieri sera, in un Auditorium strapieno, il Direttore Musicale (con qualche problema... deambulatorio) ne ha dato una lettura che definirei laica, evitando ogni interpretazione di tipo strappalacrime (ah, la morte che si avvicina, il cuore malmesso, la certezza di durare ancora poco... insomma, l’agiografia preferita dall’inaffidabile Alma). Tempi sempre al limite superiore delle indicazioni agogiche, niente rubati da strapazzo, ma un Mahler che serenamente espone il suo programma, non scritto, di consapevolezza nella caducità delle terrene cose, e di serena rassegnazione. Non alla morte fisica, che arrivò prematuramente ben due anni dopo la composizione della sinfonia, e a causa di una banale infezione virale alle vie respiratorie (mal curata, anche perchè non c’erano ancora in giro gli antibiotici...) ma ad una terza età che certo escludeva per lui il ritorno ai trionfi (pubblici e privati) della gioventù, ma che era pronto ad affrontare con il piglio di sempre. Non per nulla, appena completata la nona, metterà subito in cantiere e comincerà a lavorare alacremente alla sua decima!

Anche la conclusione, dopo il girotondo delle viole attorno alla dominante di REb, non ha contemplato minuti di raccoglimento come si fosse dinanzi ad un feretro, ma pochi secondi per far semplicemente decantare l’emozione che si prova sempre ascoltando questa musica. Io sinceramente non chiedevo di meglio.

19 novembre, 2017

Sciarrino si traveste da Stradella per la Scala


In attesa della materializzazione dell’ectoplasma denominato Fin de partie (che aleggia da anni negli spazi del Piermarini) ecco arrivare a tambur battente una primizia nostrana, dovuta a quel genio che risponde al nome di Salvatore Sciarrino (cui è contemporaneamente dedicata la 26ma edizione di Milano Musica). Ieri sera è andata in onda la terza delle sei recite in cartellone, in una sala non propriamente presa d’assalto (tanto per usare un pietoso eufemismo...)

Ti vedo, ti sento, mi perdo... Parole che potrebbe aver pronunciato, rapita dalla musica - o magari anche da qualcosa di meno, ehm, immateriale... - di Alessandro Stradella, tale Agnese van Huffele, che nella Venezia del 1677 era amante di un certo Alvise Contarini (il Doge in persona, o un suo omonimo?) E il rapimento si materializzò all’istante con la fuga a Torino dei due, ben presto colà raggiunti da sicari fedelissimi del... becco, decisi a far polpette del disinvolto 38enne musicista viterbese. Impresa mancata non di molto, che convinse comunque il nostro a lasciare Torino per fare – pochi anni dopo - proprio la fine miracolosamente scansata lassù: morire ammazzato come un cane in piazza Banchi a Genova, dove – per avere a portata di mano la materia prima per il suo hobby preferito – si era fatto ospitare dal musicista dilettante Giovambattista Guani, titolare di una bottega di parrucchiere per signora (!)

L’opera di Sciarrino è però verosimilmente ambientata a Roma, nel Palazzo Colonna, dove una decina d’anni prima di togliere il disturbo Stradella aveva fatto i suoi primi passi come musicante. Ma solo dopo aver avuto rapporti di... camera nientedopodomanichè con la Regina Cristina di Svezia! Ecco, sul palcoscenico vediamo – sullo sfondo - un... palcoscenico dove si prova uno spettacolo musicale (una cantata con soprano, coro e strumenti); al centro si muovono servi e lacchè del palazzo addetti alle incombenze più materiali, e ai pettegolezzi più volgari; al proscenio due intellettuali (musicista e poeta) si scambiano battute sulla tresca dello Stradella con una famosa cantante, e attendono l’arrivo proprio del musicista in persona – che tuttavia mai arriverà, nemmeno fosse Godot, sostituito dalla notizia del suo poco onorevole ammazzamento, recata da un giovin cantore con violinista al seguito - disquisendo di arte e filosofia, raggiunti di tanto in tanto dal soprano protagonista della cantata.

Nel secondo atto dell’opera – dove (pare) sono passati anni – si ha una compressione della dimensione-tempo: in pratica tutte le vicende delle avventure (galanti e non) di Stradella (fuga da Roma, fuga da Venezia, fuga da Torino e morte a Genova) scorrono davanti ai nostri occhi raccontate da secche notizie che arrivano in poche scene successive: è una bizzarra (ma non nuova, vedi Wagner-Parsifal) applicazione della relatività ristretta del buon Einstein, una variante rovesciata del paradosso dei due gemelli: qui c’è Stradella che fugge da Roma e passa un bel po' d'anni vagando per mezza Italia (spingendosi pure a Vienna...) mentre in tutto questo tempo i suoi coetanei rimasti a Roma invecchiano solo di un’ora scarsa (!?)

Evabbè... a parte questi sconfinamenti nella fisica pura che andrebbero studiati con il calcolo tensoriale, il soggetto - che Sciarrino ha inventato da letture di Ovidio, Apollonio Rodio, Rilke, Bashō, Stromboli, Giazotto, Iudica e Frassica (ma io consiglierei a tutti questo thriller) – porta in primo piano problematiche non da poco, quali il principio di libertà e di totale indipendenza dell’Arte e dell’Artista da qualsivoglia vincolo (materiale ma anche estetico) e poi l’intrinseco connubio fra Arte (e in particolare Musica) ed Eros. E Stradella fu di sicuro la personificazione dell’Artista rivoluzionario, insofferente di padroni, di regole e convenzioni ed anche conquistatore di cuori (ed esploratore di... orifizi). 

Ma c’è di più: Orfeo vs Sirene! Il campione della musica umana contro le subdole rappresentanti della musica naturale (A.Stradella vs A.Scarlatti?) E poi ancora: Stradella antesignano di Schubert e di Chopin! E da composizioni di Stradella arrivano nell’opera di Sciarrino melodie e vaghi ricordi, reminiscenze più che citazioni, che il nostro riveste di suoni dal carattere impressionista (Debussy docet...)

Suoni che provengono da ogni dove: ovviamente dalla buca, ma anche dalla scena (concertino e poi legni) e da dietro le quinte (fiati, arpa e pianoforte). Suoni non convenzionali, con ampio uso di glissandi, di fruscii, di armonici acutissimi: insomma una tavolozza personalissima e davvero ricercata.

Il canto è un’applicazione estesa del principio del recitar-cantando, una sorta di declamato arricchito da inflessioni, tic, persino balbuzie: un canto che cerca di modellarsi sui fonemi della lingua, un approccio che è stato - più o meno appropriatamente - paragonato a quello di un Musorgski o di uno Janáček.

Insomma, tante idee, tanta carne al fuoco; che testimoniano quanto meno della serietà ed onestà dell’approccio del compositore palermitano, oggi apprezzato e stimato in tutto il mondo. Per quel che può valere (poco più di nulla) il mio giudizio, colloco questa proposta ben al di sopra di altre (Francesconi, Raskatov e Battistelli) che la Scala ha commissionato per poi propinarcele in anni recenti.

Resta il fatto che per lo spettatore medio (che dello Stradella forse conosce a malapena l’esistenza) risulta obiettivamente difficile apprezzare la messe di riferimenti, sottintesi, allusioni (soprattutto musicali!) di cui Sciarrino riempie la sua partitura. Alla fine ciò che di primo acchito si apprezza di tutta l’opera sono il prologo e un paio di intermezzi, dove all’orecchio arrivano suoni che richiamano effettivamente il barocco. Con una malignità potrei dire che una Suite di 10-12 minuti che raccolga quei pochi sprazzi di musica vagamente orecchiabile potrebbe avere in sala da concerto assai più presa dell’intera opera vista ed ascoltata in teatro...
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Sulla messinscena che dire? Dato che l’Autore ha già in partenza dettato le linee generali della scenografia (oltre al precisissimo riferimento storico) al regista non resta in questi casi che applicarsi per eseguire al meglio la volontà dell’Autore, oltretutto presente di persona all’intero processo di costruzione dello spettacolo. Si deve perciò dare per sicuro che ciò che Jürgen Flimm e il suo scenografo George Tsypin ci mostrano sia precisamente ciò che Sciarrino intende farci vedere, cosa che in molte regìe moderne (di opere del passato) accade sempre meno spesso...

Apprezzabili i costumi allegri e dai colori sgargianti di Ursula Kudrna, e le luci (Olaf Freese) che di volta in volta ci indirizzano l’attenzione sui tre diversi livelli della scena. Dove sono da segnalare anche le divertenti coreografie di Tiziana Colombo.
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Il 32enne Maxime Pascal pare un ragazzino ma ha già alle (e sulle) spalle una carriera brillante e persino un’orchestra (Le Balcon). La sua dimestichezza con la musica d’oggi ne fa interprete ideale di opere come questa e lui lo dimostra padroneggiando ogni sfumatura di ogni singola nota di Sciarrino. L’Orchestra – come detto distribuita su tre livelli – pare assecondarlo al meglio (dico pare perchè forse solo Sciarrino potrebbe dare un giudizio di merito sull’interpretazione e sull'esecuzione...) cavando fuori sonorità inconsuete e timbri a volte irriconoscibili, che evidentemente il compositore ha inteso creare appositamente per supportare i suoi testi.   
  
Fra le voci, la protagonista assoluta è la Cantatrice di Laura Aikin, che ha oggettivamente la parte più ricca e pesante di tutte: lei la sostiene con grande cura dei dettagli, non solo nel canto più (diciamo così) tradizionale ma anche in quella sorta di declamato alla Sprechgesang di cui Sciarrino riveste il suo ruolo (e non solo il suo). Peccato che la sua voce scarseggi di decibel il che, in aggiunta alle dinamiche particolarissime imposte dalla partitura, la rende scarsamente udibile negli sterminati volumi del Piermarini. Il massimo (minimo, anzi) si raggiunge nella bella arietta del second’atto, dove la sua voce viene irrimediabilmente coperta dalla pur non gigantesca orchestra che l’accompagna (qui Pascal ha forse qualcosa da farsi perdonare).

Degli altri interpreti, quello che canta (in senso comune) di più (anche se arriva solo alla fine...) è il Giovane Cantore (appunto) qui impersonato da Ramiro Maturana (accademico scaligero) che ha fatto una più che discreta figura. Tutti gli altri sono chiamati a declamare e/o emettere suoni che un ascoltatore naif potrebbe francamente prendere per lamenti, mugolii o rantoli di musicalità assai discutibile, ecco.
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Alla fine applausi di stima e cortesia, ma direi ben meritati per tutti: una chiusura di stagione se non altro interessante. Un commento conclusivo (trito e ritrito, lo so perfettamente): opere come queste rischiano di essere rovinate dal rappresentarle in questo teatro (nelle più piccole sale berlinesi magari tutto cambierà...): ennesima occasione per stigmatizzare la stolta chiusura della Piccola Scala, ambiente ideale (per cantanti-orchestra ma anche per il pubblico) per questo tipo di rappresentazioni. Amen.

16 novembre, 2017

La Messa per Rossini

 

Ieri sera alla Scala è risuonata per la terza volta in pochi giorni la Messa per Rossini, che prima di oggi si era ascoltata in Italia solo in anni non recenti, e interpretata dai complessi teutonici di Helmuth Rilling.

L’ascolto dal vivo è stato per me un’ulteriore conferma della bontà della scelta di Chailly di riproporre quest’opera che per un secolo e mezzo è stata dimenticata e pure snobbata. Per carità, non parleremo certo di capolavoro, ma questi 13 pezzi usciti da mani e teste diverse (ma tutte italiane!) del 1869 mostrano quanta ricchezza musicale – di cui si fatica altrimenti ad avere percezione - allignasse nel nostro Paese a quei tempi e ci dovrebbero far riflettere su come purtroppo quel patrimonio sia stato via via dilapidato e sia tuttora in corso di dilapidazione.

Onorevole la prova delle voci, soprattutto delle tre maschili, su cui è spiccata quella del tenore Giorgio Berrugi; le due cantanti hanno mostrato i loro (noti) limiti nella zona grave della tessitura. Benissimo come sempre il coro di Casoni, che in questa Messa è chiamato ad un impegno non inferiore a quello del Requiem verdiano. Orchestra sempre concentrata e reattiva alle sollecitazioni del Direttore, che ha portato alla luce tante piccole perle di questa collana multicolore ma non per questo pacchiana o trasandata.    

Teatro quasi gremito da un pubblico che è parso apprezzare assai questa inconsueta proposta, che merita di essere rinnovata in futuro.

11 novembre, 2017

laVerdi 17-18 – Concerto n°6


È ancora il venerabile  Elio Boncompagni a calcare il podio dell’Auditorium per dirigere un programma dal taglio classico: ouverture, concerto solistico e sinfonia. Dopo due brani di Beethoven ci si sarebbe aspettato che lo fosse anche il terzo (che so, una delle sinfonie pari...) e invece ecco spuntare il Brahms pastorale... 

L’Ouverture Die Weihe des Hauses (op.124) occupa una posizione assai scomoda nel catalogo beethoveniano, stretta com’è nella stritolante tenaglia di Missa (op.123) e Nona (op.125). E sono anche gli anni delle ultime tre sonate e delle variazioni Diabelli!


Il titolo dell’Ouverture è stato tradotto in italiano in modo letterale (La consacrazione della casa) il che porta francamente fuori strada chi non sia informato delle circostanze che ne determinarono la composizione. Chiunque infatti penserebbe subito alla casa nell’accezione di dimora e quindi, in senso lato, di famiglia: quindi immaginerebbe che si tratti della solennizzazione della classica benedizione delle famiglie (a pochi verrebbe in mente di pensare alla consacrazione di una... ditta!)

Invece Haus in crucco (così come House in albionico) è un termine impiegato (anche) per definire i teatri (es.: Royal Opera House, Opernhaus Zürich); ed è proprio l’inaugurazione di un teatro viennese (Theater in der Josefstadt) che fece arrivare a Beethoven la commissione per un lavoro che celebrasse l’avvenimento. Per risparmiare tempo e fatica Beethoven propose un rifacimento delle Rovine di Atene (altro pezzo di circostanza composto 11 anni prima per l’inaugurazione di un teatro tedesco a Pest). Dopodichè, oltre a rimaneggiamenti vari del corpo dell’opera, Beethoven ne scrisse una nuova Ouverture, quella che si ascolta normalmente e anche qui.

Si dice che l’ispirazione estetico-formale sia venuta a Beethoven da Händel, ed in effetti sentiamo atmosfere da pomposità tipiche delle musiche che il tedesco trapiantato in Albione componeva per i Reali di lassù, ma anche un complesso contrappunto che caratterizza il nucleo della composizione. Il cui monotematismo rischia di rendercela un tantino indigesta, soprattutto se ulteriormente appesantita nell’agogica, come ad esempio fa qui Klemperer. Molto meglio – per me, ovviamente – il solito Toscanini, che la propone con il suo proverbiale piglio.

Boncompagni direi che sta più con Toscanini che con Klemperer, il che secondo me gli rende merito: smaglianti le sonorità dell’orchestra, guidata da Dellingshausen e disposta ancora con le viole a sinistra e i secondi violini al proscenio.  
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Giuseppe Andaloro fa il suo ritorno in Auditorium dopo tre anni per presentarci il Primo Concerto del genio di Bonn. Lui e il Direttore sembrano voler spiegare in musica l’irrompere dell’800 nel ‘700: Boncompagni attacca le prime 15 battute come fosse un lezioso Mozart giovanile, quasi col solo concertino; per poi esplodere col vigore tipico dello spirito beethoveniano. Il solista fa lo stesso, attaccando con leggerezza per poi mettere in risalto gli accenti quasi eroici che spuntano qua e là nella partitura. Grandiosa la cadenza del primo movimento, nobile e sognante il Largo, brillante il finale Rondo.

Un’esecuzione decisamente apprezzabile, che il 35enne palermitano completa con ben due bis: Melodia trascritta da Sgambati dall’Orfeo di Gluck, e poi un’impertinente sonatina di Domenico Scarlatti.
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Chiude la serata la Seconda Sinfonia di Brahms. Ancora da elogiare la lettura di Boncompagni, a partire dalla sensibilità mostrata nell’esposizione dell’Allegro non troppo iniziale, dove il Direttore ha dato al da-capo sfumature diverse (più tenui) rispetto alla prima presentazione. Tempi abbastanza sostenuti, ma mai strascicati, insomma un’esecuzione coinvolgente, chiusa in modo spettacolare dalle luccicanti sonorità dei fiati.

Successo pieno, proprio come l’Auditorium, che dà l’arrivederci al Direttore per la Nona di Capodanno.       

10 novembre, 2017

Chailly ridà vita alla Messa abortita

 

Questa sera alla Scala (Radio3 alle 20:00) risuonerà quella Messa per Rossini che Giuseppe Verdi aveva ideato – chiedendo la collaborazione a una schiera di musicisti italiani – per celebrare adeguatamente – in SanPetronio a Bologna - il primo anniversario della morte del grande pesarese (1869) ma che per svariate ragioni – una più prosaica dell’altra - mai era stata rappresentata. Poi sappiamo come Verdi realizzò invece in proprio e in modo superbo e con strepitoso successo di pubblico e critica l’analogo epitaffio per il Manzoni.

La Messa – ineseguita e sepolta a Bologna come previsto da... statuto – è stata riportata alla luce nella seconda metà del secolo scorso e poi, nel 1988, eseguita per la prima volta a Stuttgart (quindi a Parma, Perugia e altrove) sotto la guida del grande bachiano (diventato in seguito un frequentatore abituale del podio de laVerdi) Helmuth Rilling. Questa della Scala sarà quindi (praticamente) la prima esecuzione italiana fatta da complessi italiani.

Seguendo la citata interpretazione di Rilling si può tracciare un profilo di quest’opera bizzarra e un po’ velleitaria (di cui lo stesso Verdi metteva in conto anticipatamente la fatale eterogeneità) ma nata, nelle intenzioni del suo ideatore, come doveroso tributo della comunità musicale italiana (o perlomeno di quella parte della comunità più legata alla tradizione) alla memoria del sommo Gioachino.

La struttura è quella che poi Verdi adotterà pari-pari nel suo Requiem, mentre i solisti qui sono 5 (alla canonica formazione SATB si aggiunge anche il baritono). I 12 musicisti che insieme a Verdi firmarono l’opera furono scelti da una apposita commissione di eminenti autorità nel campo musicale. 


I Introitus

Antonio Buzzolla – 1815-1871 - Maestro di Cappella della Basilica di San Marco a Venezia. Fondatore del futuro Conservatorio Benedetto Marcello

Requiem e Kyrie (Coro) 







II Sequentia
  
Antonio Bazzini – 1818-1897 – Presidente della Società dei Concerti di Brescia. Poi Direttore del Conservatorio di Milano.

9’57” 1. Dies Irae (Coro) 


  

                        
Carlo Pedrotti – 1817-1893 – Direttore del Teatro Regio di Torino.

15’00” 2. Tuba mirum (Baritono-Coro) 

  

                           
Antonio Cagnoni – 1828-1896 - Maestro di Cappella a Vigevano, poi a Novara e Santa Maggiore.

21’25” 3. Quid sum miser (Soprano-Alto) 

 

                             
Federico Ricci – 1809-1877 – Direttore della Scuola Imperiale di Canto a SanPietroburgo.

28’40” 4. Recordare Jesu (Soprano-Alto-Baritono-Basso) 

                               
Alessandro Nini – 1805-1880 – Maestro di Cappella a Santa Maria Maggiore di Bergamo.

37’05” 5. Ingemisco (Tenore-Coro)  

  

                           
Raimondo Boucheron – 1800-1876 – Maestro di Cappella al Duomo di Milano.

48’06” 6. Confutatis maledictis (Basso-Coro)  

 
Carlo Coccia – 1782-1873 – Maestro di Cappella a SanGaudenzio di Novara.

57’52” 7. Lacrymosa, Amen (Coro a cappella - Coro)  







III Offertorium

Gaetano Gaspari – 1808-1881 – Maestro di Cappella a SanPetronio di Bologna.

1h04'46" Domine Jesu, Quam olim Abrahae, Hostias (Soprano-Alto-Tenore-Basso-Coro)  






IV Sanctus


Pietro Platania – 1828-1907 – Direttore del Conservatorio di Palermo.

1h14'11" Sanctus, Hosanna, Benedictus (Soprano-Coro)  







V Agnus Dei


Lauro Rossi – 1810-1885 – Direttore del Conservatorio di Milano, poi di Napoli.

1h22’07” Agnus dei (Alto)  







VI Communio


Teodulo Mabellini – 1817-1897 – Maestro Direttore alla Pergola di Firenze.

1h28’27” Lux aeterna (Tenore-Baritono-Basso)  





VII Responsorium


Giuseppe Verdi – 1813-1901

1h38’06” Libera me, Dies Irae, Requiem aeternam (Soprano-Coro)

Il Responsorium verrà riutilizzato da Verdi nel suo Requiem con alcune modifiche, fra le quali il diverso attacco del Dies Irae (1h40’22”). 




Riprendendo una prassi introdotta da Verdi per la sua opera, Chailly ha previsto per l’esecuzione della Messa un intervallo fra Sequentia e Offertorium. Staremo a sentire. 

08 novembre, 2017

Il Nabucco di Abbado (D.) recidivo alla Scala


A quasi 5 anni dalla sua prima apparizione, è tornato in Scala a far danni - mia convinzione - il Nabucco firmato da Daniele Abbado. Per quanto riguarda i danni, confermo ogni mio rilievo alla regìa, mosso in quella occasione: una regìa che sa di documentario rievocante la sofferenza del popolo ebraico vittima della Shoah, ma che poi, per non cadere nel grottesco (poichè coerentemente Nabucco dovrebbe allora vestire i panni di Hitler) si sposta su scenari di conflitti di natura sindacale (Nabucco = padrone delle ferriere) che con le vicende dell’Olocausto (e con il soggetto originale) ci stanno come i cavoli a merenda: caso più unico che raro di incoerenza al quadrato!

Insomma: un pessimo servizio fatto a Verdi e al pubblico, ecco. Un po’ come quel Mosè di Rossini che Vick anni orsono impiegò al ROF come colonna sonora per la sua lecture sulla storia della nascita dello Stato di Israele. Con la differenza che la storia presentata da Vick era, almeno, rispettosa fino in fondo delle vicende passate in Palestina nella prima metà del secolo scorso. 
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Ieri sera era la quinta delle otto recite in programma ed ha visto l’arrivo, nel ruolo di Abigaille, della partenopea Anna Pirozzi, a dare il cambio alla viennese Martina Serafin: dico subito che si è trattato, per me, di un discreto ritorno al Piermarini dopo i Foscari della stagione scorsa; in un ruolo che lei d’altronde conosce ormai come le proprie tasche, essendo stato il suo trampolino di lancio anni fa con Muti. Ma la dimestichezza con la parte è condizione necessaria, purtroppo non sufficiente per raggiungere l’eccellenza: e la parte di Abigaille, che Verdi magistralmente ricolma di spettacolari quanto enormi intervalli (con cadute di una e persino di due ottave!) mette purtroppo in difficoltà la Pirozzi sulle note gravi, per cui da acuti sicuri e squillanti si piomba spesso nel... vuoto. Comunque una prestazione, la sua, meritevole di ampia sufficienza.

Più che dignitosa la prova di Annalisa Stroppa, voce morbida e penetrante, espressione sempre adeguata al personaggio della principessa assira che l'amore per il giovane ebreo porta alla repentina conversione. E Ismaele è stato degnamente impersonato da Stefano La Colla, che ha mostrato timbro squillante e buona intonazione. A cavallo fra sufficienza e insufficienza Mikhail Petrenko, uno Zaccaria che sarebbe perfetto nella presenza fisica e scenica, ma la cui voce ahilui manca di ogni caratteristica necessaria al ruolo: profondità, potenza e autorevolezza. Onorevoli le prove dei tre comprimari, Giovanni Furlanetto in testa. Il Coro di Casoni non si discute di certo, però mi pare non abbia toccato i vertici che gli conosciamo.                    

Di questi tempi è di attualità discettare di aspettativa di vita e di età pensionabile: ebbene, oltre al recidivo Leo Nucci (che già era in età da pensione 5 anni orsono) questa produzione vede sul podio un tale che ha 11 anni più del Nabucco! Evidentemente il mestiere di Kapellmeister (come quello di baritono verdiano) non è fra quelli definiti usuranti (!) A parte le facili battute, a me che sono appena appena meno maturo di Nucci la cosa non può che far piacere, soprattutto quando posso constatare che a 75 e 86 anni ancora si può essere autorevoli interpreti di Verdi alla Scala, invece che ospiti di Verdi in piazza Buonarroti...

Il baritono di Castiglione dei Pepoli sciorina ancora una delle sue penetranti e coinvolgenti interpretazioni, facendosi perdonare le inevitabili pecche legate all’anagrafe (acuti un filino urlati...) ma rendendo al meglio (parlo ovviamente della parte musicale, quella del personaggio di Daniele Abbado lasciamola perdere) le mutazioni che intervengono nella mente e nella personalità del condottiero assiro.

Quanto a Nello Santi, lui poveretto fatica persino a reggersi in piedi, e la salita sul podio così gli diventa la scalata del K2... Però, una volta installato al suo posto, guida orchestra e voci con l’autorità che gli viene da un’intera vita di studio e lavoro. I suoi tempi sono sempre sostenuti, ma mai sfociano nel greve o peggio nell’esasperante; il suono che ottiene dall’orchestra (compresa quella dietro le quinte) è nitido, tagliente, senza mai sconfinare in tratti bandistici o vuotamente retorici. La concertazione delle voci sempre pulita, gli attacchi precisi, dati con semplici ma evidentemente efficaci gesti della mano sinistra. Insomma, non siamo in presenza di una mummia ambulante, come ingenerosamente qualcuno lo ha voluto dipingere, tutt’altro!

Piermarini non esaurito, ma neanche semivuoto, e ben disposto all’applauso per l’intera compagnia. Una serata (parlo dei suoni) per me complessivamente positiva.

03 novembre, 2017

laVerdi 17-18 – Concerto n°5


Il Requiem di Verdi è (con la Nona beethoveniana) uno dei due tradizionali appuntamenti fissi della stagione principale de laVerdi, che ha l’occasione di impegnarci l’intero suo organico strumentale e vocale. Quest’anno la bacchetta che guida orchestra e coro in entrambi gli appuntamenti fissi è quella di Elio Boncompagni, che ritroveremo sul podio dell’Auditorium anche nelle prossime settimane, chiudendo l’anno appunto con la Nona.

Il Requiem (si sa) era stato originariamente pensato da Verdi come una Messa funebre per Gioachino Rossini, che aveva impegnato alcuni musicisti a comporne le diverse sezioni. Per combinazione proprio fra qualche giorno quella Messa, mai eseguita a suo tempo e riportata alla luce solo a fine ‘900, sarà presentata alla Scala da colui che è tuttora Direttore Onorario de laVerdi, con la quale interpretò il Requiem in quattro stagioni consecutive, a partire dal 2001.
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Il quartetto dei solisti si è assestato soltanto all’ultimo momento, con la sostituzione di Tiziana Carraro con Cristina Melis; ma già da tempo era cambiato anche il tenore: Matteo Lippi, al posto dell’originariamente annunciato Antonio Gandia; con loro il soprano argentino Virginia Tola e il basso Dario Russo. Un quartetto comunque ben assortito, che ha dignitosamente figurato: tutte voci bene impostate e dotate di discreta potenza (forse alla Melis manca qualche decibel...) ma soprattutto di sensibilità di accenti e sfumature.

Il Coro di Erina Gambarini ancora una volta sugli scudi, specie nei momenti di massimo raccoglimento religioso, con passaggi in pianissimo davvero emozionanti. Orchestra – disposta con le viole a sinistra, cosa non nuova per Boncompagni, e imitata di recente da Caetani - sui suoi standard di qualità (perdoniamo una sgradevole stecca di una tromba all’attacco del Tuba mirum) che ha ben assecondato la lettura del Direttore.

Al quale la veneranda età (84 anni, ma portati alla grande) permette di identificarsi con quella pietas che dovette ispirare il 63enne Verdi di fronte alla scomparsa di un grande italiano: il suo Requiem ne è pervaso da cima a fondo, e quindi ancor più drammatici si stagliano su essa i tellurici scoppi del Dies Irae, ma anche le terrificanti implorazoni del Domine, Domine, Libera me.

Auditorium pieno come un uovo, che ha tributato lunghe ovazioni a tutti.