percorsi

da stellantis a stallantis

13 marzo, 2013

Sulla Scala un olandese che vola basso


Una regìa più ridicola che velleitaria; una compagnia di canto tendente al mediocre; un podio francamente deludente. Così questo Olandese abbassa ancora la media dei voti della Scala in questa stagione che doveva essere di livello storico
___
Andreas Homoki, ahilui, non può nemmeno accampare la scusa di essere un giapponese che non conosce bene il tedesco (smile!) per giustificare le sciocchezze della sua regìa. Lui è un intelligentissimo crucco di origine controllata e garantita e oggi è addirittura il Lissner del Teatro dell’Opera di Zurigo (al che ho realizzato quale immensa fortuna abbiamo noi milanesi ad avere un soprintendente che non si diletta – perlomeno ancora – di regìa…)   

Il suo soggetto è a dir poco sconvolgente e meriterebbe di vincere premi letterari in quantità industriale. C’è dentro di tutto: un po’ di Conte di Montecristo, poi l’epopea del capitalismo, forse anche lo spread; la crisi del colonialismo e persino l’avvento di Bokassa (smile!)

Il problema non sta certo nell’ambientare la vicenda in qualche sede londinese di società di trading: quanto poco, anzi nulla, a Wagner importasse dove la vicenda materiale si svolge lo testimonia il fatto che cambiò lui per primo l’ambientazione, spostandola dalla Scozia (teatro dell’azione nei racconti che ispirarono l’opera) alla Norvegia (forse in ricordo della personale esperienza colà vissuta sul barcone Thetis).

Invece il problema sta nella società che il regista ci presenta a far da sfondo alla vicenda centrale dell’opera - rappresentata dal rapporto peccato-redenzione, alias Holländer-Senta - e nei personaggi che in questa società si muovono.

Non siamo più in un ambiente sostanzialmente familiare, da economia autarchica, dove i rapporti umani sono improntati a un vago socialismo paesano; dove Daland, per dire, non sarà propriamente uno stinco di santo, ma neanche un bieco e truce capitalista sfruttatore (Dev’essere comico, prescriveva Wagner, come conferma la musica che lo sorregge, perdinci, da tutti bollata come scopiazzatura di Auber, una cosa da donnicciuole o da invertebrati…); dove Mary è la tata di Senta che fa anche da chioccia alle ragazze del paese riunite in casa sua a filare allegramente all’arcolaio, cantando simpatiche filastrocche. Insomma, un ambiente magari fin troppo sereno e ricco di arcaica poesia nordica, della quale fanno parte anche i fenomeni naturali più preoccupanti, come gli uragani e le tempeste di mare.

No, invece il regista ci trasporta in pieno sistema capitalistico-colonialistico, quello che si stava consolidando, o cominciava a sperimentare qualche crisi, a fine ‘800; Daland è il CEO di una grande società mercantile con traffici planetari e stuoli di impiegati e impiegate trattati con metodi tayloristici: è un brutale sfruttatore di manodopera e forse anche un trafficante di schiavi negri, almeno a giudicare dalla presenza del personaggio – del tutto inventato! – del servo di colore. Ecco, per il Daland di Homoki ci vorrebbe, come minimo e per restare a Wagner, la musica che caratterizza Hagen, o Klingsor, o Alberich!

Mary è un’acida capufficio di uno stuolo di dattilografe il cui ambiente di lavoro e il cui atteggiamento sono agli antipodi di quelli immaginati da Wagner. Per il quale scenario Homoki avrebbe dovuto casomai propinarci la musica di Nibelheim…

Quanto all’Olandese, piuttosto che un peccatore in cerca di redenzione, qui ci appare come un volgare ricettatore di refurtiva, che cerca di piazzare al capitalista Daland, facendo quindi passare quest’ultimo anche per riciclatore di denaro sporco…

Il regista poi si millanta intelligente e perspicace, mostrandoci un’enorme carta geografica dell’Africa, evidentemente oggetto dei traffici di merci dell’armatore-capitalista Daland. Ora, che l’Africa fosse una meta dell’Olandese, che si era venduto l’anima al diavolo pur di passare il Capo di Buona Speranza, è un’illazione plausibile (quantunque il libretto taccia assolutamente che il Capo fosse proprio quello, lo sappiamo solo dalle storie che ispirarono Wagner – ma non dal principale ispiratore, Heine, attenzione! - per il resto potrebbe pure essere Capo Horn o Capo Passero…) ma mi dice Homoki che centra l’Africa con il povero Daland, che invece al massimo faceva la navetta (smile!) fra Norvegia (o Scozia) e Danimarca? E la trasformazione dello schiavo di colore in Bokassa, con l’Africa che brucia, è proprio la ciliegina su questa improbabile torta!

Gli unici due personaggi che Homoki non sfregia più di tanto sono, a dir il vero e per fortuna nostra, Senta ed Erik: lei una schizofrenica visionaria (il suo mezzo spogliarello è gratuito, ma in fondo non è la cosa peggiore dello spettacolo) e lui un sempliciotto di provincia. Ma è un po’ poco per la verità. 

Essendo stato Homoki aiutante di Willy Decker, dal maestro ha preso alcune idee più o meno plausibili o criticabili per la sua messinscena (il Regio di Torino ha aperto la stagione 12-13 proprio con la produzione di Decker, peraltro assai più rispettosa dell’originale, va detto): fra le prime citerei il grande quadro a soggetto marino, sul quale a un certo punto si vede transitare un veliero; fra le seconde la scena del suicidio di Senta.  

La cui fine – una auto-fucilata sotto il mento, così come la auto-pugnalata di Decker - è quanto di più lontano, ma proprio agli antipodi, dell’idea di Wagner. Per il quale la donna si sacrifica per l’uomo che sente di dover redimere, e lo fa con un gesto ben preciso: il lanciarsi dalla rupe verso il mare dove l’Olandese si sta allontanando, il che rende anche visivamente l’idea di un estremo tentativo di ricongiungersi a lui, tentativo che sarà (secondo Wagner, manco a dirlo) coronato da successo, come testimoniano le didascalie e soprattutto la musica del finale!

Qui invece noi assistiamo ad un volgare e spregevole gesto suicida, dettato da mera disperazione e follia nichilista. E nulla di nulla ci vien mostrato della redenzione del peccatore!

Ma quando la smetteranno questi registi da strapazzo di pensare di apportare valore aggiunto alle scelte originali di autentici geni, come Wagner?
___
Sul piano sonoro, più ombre che luci, mi vien da dire.

Terfel avrà anche il fisico adatto per fare l’Olandese, ma la voce, ahilui, spesso trasforma il personaggio in un hooligan arrabbiato e imbottito di birra: forse in omaggio alla concezione del regista, chissà…

La Kampe, come Terfel, ha una voce piena di decibel, discreta nella zona centrale, ma sguaiata negli acuti: i suoi LA e SI naturali li spara in modo piuttosto volgare, spalancando a dismisura le sue enormi fauci. Discreta invece nei momenti più intimistici, ad esempio nella sezione Più lento della Ballade.  

Anger è - anche lui in omaggio al regista? - un Daland piuttosto deficitario, spesso vociante e stonato e le sue esternazioni non hanno proprio nulla della prosaica e affettata banalità volutamente appioppatagli da Wagner. 

La Plowright è una Mary censurabile, che canta proprio in negativa sintonia con l’acidità del personaggio impostale dal regista.

Chi fa in fin dei conti una figura almeno discreta è il nemorino (smile!) Vogt, che perlomeno canta come dio comanda e non stravolge l’essenza musicale del personaggio. Certo che sarebbe più adatto a far la parte del timoniere…

Il quale timoniere è impersonato mediocremente da Wortig, assai impacciato nel suo Lied di apertura.   

Il coro di Casoni ha dato una prova sufficiente, ma mi è parso perdere qualche colpo (ad esempio le ragazze nel concitato passaggio Sie sind daheim del secondo quadro). Meglio i maschi, compreso il gruppo degli olandesi, dislocato in buca e munito, come da partitura, di rudimentali megafoni.

Il Direttore Haenchen non mi ha particolarmente impressionato e per di più si è permesso indebiti elastici nei tempi.

L’Orchestra ha pure mostrato parecchie pecche, a cominciare dalla maldestra entrata di oboe e clarinetti nell’Andante dell’Ouverture. Soprattutto – ma qui ne va chiesto conto al Kapellmeister – mi è parso deficitario il corretto amalgama fra le sezioni. È vero che questa partitura non è stata scritta per l’Orchestergraben di Bayreuth, ma nemmeno per lasciare ciascun strumentista libero di suonare come pare a lui.

Alla fine tiepido successo per una prestazione di ordinaria routine, a proposito di tempio sacro della lirica…

2 commenti:

Amfortas ha detto...

E ancora una volta la regia - nel male - mette d'accordo tutti.
Mi spiace, più che altro, per la Kampe, che ho sentito più volte e sempre con una certa soddisfazione.
Ciao!

daland ha detto...

@Amfortas
La mia non è una battuta, ma bisognerebbe seriamente trattare questi registi come si tratta chi smercia van Gogh falsi!
La Kampe ha una gran presenza scenica e un vocione che credo potrebbe amministrare meglio...
Ciao!