affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

19 ottobre, 2019

Händel felicemente orfano della Cecilia


Ieri alla Scala è arrivato in Egitto Kuwait il Giulio Cesare di Händel, come sappiamo ormai da tempo orfano della sua tanto attesa Cleopatra, rimasta sdegnosamente a casa in compagnia di Semele (che si è fatta poi sostituire da... Agrippina) e Ariodante. Ciò non ha però fatto mancare il numero legale (di spettatori, nella fattispecie...): Piermarini con visibili vuoti in platea, ma al confronto con la prima di Quartett c’era un pienone... In ogni caso chi voglia apprezzare (o denigrare) la Cecilia-Cleopatra può sempre connettersi con youtube e vederle all’opera a Salzburg (con una regìa demenziale) compresi Antonini sul podio e Jaroussky come Sesto...
___
Una prima osservazione riguarda i... tagli. L’opera (edizione originale del 1724) dura al netto circa 3 ore e 3/4. Con i due normali intervalli ci si avvicinerebbe a... Wagner. Ebbene, come già indicava la locandina online del Teatro, qui lo spettacolo ha quella durata, ma incluso intervallo: il che, conti alla mano, significa che dell’originale è stata tagliata circa mezz’ora. Magari con la lodevole intenzione di non far fare troppo tardi agli stoici spettatori accorsi nonostante tutto a teatro (oppure per esigenze registiche, o per entrambe le ragioni...) Ma ahinoi, a parte alcune parti in recitativo secco (e ci può stare) si tratta di tagli invero barbari, che ci privano di grande musica. I personaggi più penalizzati quantitativamente sono Achilla (che si perde due arie e l’intera scena della confessione dei suoi misfatti e del conseguente pentimento) e Cornelia (due arie in meno).

Nel dettaglio, scompaiono:

Atto I
- Aria n°9 di Cesare Non è sì vago e bello
- Aria n°10 di Cleopatra Tutto può donna vezzosa
- Seconda strofa (Qual sia di questo core) dell’aria n°13 di Cleopatra e ripresa della prima strofa (Tu la mia stella sei)
- Prima parte della scena XI con l’aria n°15 di Achilla Tu sei il cor di questo core

Atto II
- Seconda strofa (Se così Lidia vezzosa) dell’aria n°20 di Cesare e ripresa della prima strofa (Se in un fiorito ameno prato)
- Aria n°22 di Achilla Se a me non sei crudele
- Aria n°24 di Cornelia Cessa ormai di sospirare
- Seconda strofa (Mi sveglia all’ira) dell’aria n°31 di Sesto e ripresa della prima strofa (L’aura che spira)

Atto III
- Tutta la scena I di Achilla (aria n°32 Dal fulgor di questa spada spostata però nell’atto II, a fine della scena X)
- Confessione e morte di Achilla nella scena IV
- Aria n°38 di Sesto La giustizia ha già sull’arco
- Aria n°41 di Cornelia Non ha più che temere
- Seconda strofa (In me/te non splenderà) del duetto Cesare-Cleopatra n°43 (Caro/Bella Più amabile beltà)

Come si vede, ben sette arie cassate totalmente e altre tre in parte: una bella sforbiciata! Di conseguenza si opera un solo intervallo e, per non squilibrare troppo i tempi delle due parti, la pausa è posta all’interno del second’atto, ma non - come cita il libretto di sala - dopo il ricongiungimento Cornelia-Sesto (scena VI) ma assai prima, al termine della scena II, dopo l’aria n°20 (parzialmente tagliata) di Cesare.
___
Un’altra considerazione riguarda gli interpreti: si sa che le parti di Cesare, Tolomeo e Nireno furono affidate in origine a (e quindi scritte per) contralti castrati, specie oggi lodevolmente estinta (almeno in ambito teatrale...) Ebbene, l’uso da qualche tempo invalso di impiegare dei controtenori (qui Mehta, Dumaux e Schifano) personalmente non mi convince del tutto: poichè la loro vocalità poco ha a che fare con quella potentissima (di cui esistono testimonianze concrete) dei castrati, che meglio è surrogabile - come si è quasi sempre fatto e spesso ancora si fa - con voci femminili, tipicamente di contralto. Qui - altra scelta discutibile - anche il ruolo di Sesto (in origine soprano en-travesti) è affidato ad un controtenore (Jaroussky). Insomma, si toglie l’en-travesti al personaggio per dirottarlo sulla voce!

Ma a parte queste considerazioni di principio, devo dire che tutti gli interpreti hanno mostrato grande padronanza dei rispettivi ruoli, a partire dalla Danielle de Niese, voce robustissima anche se spesso non tenuta adeguatamente a freno (mi riferisco alla tendenza a sbracare gli acuti a piena voce) e soprattutto alla Sara Mingardo, una Cornelia davvero perfetta, che non meritava lo scippo di due arie. Scippo subito anche dall’Achilla di Christian Senn, al quale però rimprovero (e non è la prima volta) un eccesso di forzature dei toni che finisce per compromettere una prestazione che sarebbe più che discreta. Oneste le figure di contorno e bene il coro di Casoni, impegnato poco (inizio e fine) ma sempre all’altezza. Giovanni Antonini si conferma solido interprete di questo repertorio e l’Orchestra barocca della Scala prosegue con successo il percorso di approfondimento di questo repertorio: impressionante in particolare lo schieramento di corni naturali.  
___  
Torno ora alla Mingardo per dire come già l’avessi apprezzata in Cornelia anni fa a Torino e per introdurre qualche considerazione sulla regìa di Robert Carsen. Non ripeto qui le premesse esposte proprio in occasione di quella produzione torinese, dove mettevo in evidenza le difficoltà che un regista creativo incontra con questo repertorio. Devo dire che Carsen, forte della sua esperienza, ha saputo metter su uno spettacolo godibilissimo senza minare la struttura e nemmeno i dettagli del soggetto originale.

L’ambientazione da subito pare spostata dall’Egitto al Golfo Persico, poichè si capirà alla fine che c’è di mezzo il petrolio (quasi introvabile nella terra dei Faraoni). Cesare potrebbe essere il generale Norman Schwarzkopf della guerra contro Saddam in Kuwait e Tolomeo uno sceicco troppo ambizioso che farà una brutta fine, lasciando spazio a colleghi di lui più accomodanti con gli yankee. Fin qui niente di nuovo sotto il sole, se è vero che il petrolio ha già sostituito persino l’oro in un Ring a Bayreuth!

Non manca qualche tocco di Kitsch, ma sempre contenuto entro i limiti del buon gusto. Un paio di cadute di tono e di stile (giudizio mio personale) nelle scene degli approcci di Tolomeo a Cornelia e poi dello stesso a Cleopatra, che sfiorano, pur senza valicarne i confini, la volgarità.

Carsen risolve, o cerca di risolvere, il problema capitale di come presentare le interminabili (quanto musicalmente divine!) arie col da-capo con invenzioni a volte geniali, altre un po’ meno. Ad esempio è strepitosa l’interpretazione dell’aria n°14 di Cesare (Va tacito e nascosto) nella scena IX del primo atto: trattandosi di un incontro diplomatico fra romani ed arabi, ecco che assistiamo ad un esilarante scambio di doni fra le due delegazioni, quella di Roma che porta preziosi oggetti targati FENDI e un pallone da calcio (Qatar-2022) e quella araba che reca capi d’abbigliamento locali e un’anguria!

Magistrale anche la resa della scena del Parnaso (aria n°19 di Cleopatra/Lidia V‘adoro, pupille) introdotta da immagini tratte da famosi film su Cleopatra. Un poco fredda l’ambientazione delle scene III e IV del second’atto (quelle del giardino): qui siamo in una palestra dove Cornelia lava il pavimento e dove Tolomeo canta l’aria n°23 (Sì, spietata, il tuo rigore) in cui Carsen rischia di cadere un po’ in basso, ecco... Come fa poi con l’aria n°34 (Domerò la tua fierezza) sempre di Tolomeo (scontro con Cleopatra, scena II del terz’atto).

Simpatica e intelligente la resa dell’aria di Cleopatra n°40 (Da tempeste il legno infranto) che comporta la presenza di una vasca da bagno in cui la principessa si immerge (come da leggenda) e ne esce, sempre schermata da un provvidenziale (o molesto, a seconda dei punti di vista...) lenzuolo retto dalle ancelle.

Anche Carsen però non sempre può tutto, e così spesso e volentieri si rifugia in... corner, o meglio in proscenio, dove relega il/la cantante per la conclusione di parecchie arie, calandogli/le alle spalle uno schermo, che serve anche a mascherare il cambio-scena. Sempre curata nei dettagli - ma qui il regista canadese è davvero un maestro - la recitazione di singoli e masse.

Alla fine ecco la sorpresa: i romani sono proprio... italiani! Barili di petrolio rossi e divise rosse di addetti alle trivellazioni recano un marchio inconfondibile: il cane cammello a sei zampe! Il coro finale vede un enorme oleodotto la cui saracinesca viene aperta da un romano e da un arabo e le due delegazioni (ENI e... Q8?) scambiarsi in pompa magna protocolli di accordo (e perchè non pensare, ehm, anche a qualche corposa mazzetta?)
___
Grandissimo successo finale (dopo gli applausi seguiti sempre alle arie) con minuti e minuti di ovazioni per tutti indistintamente: complessi musicali e team di regìa.

Da non perdere! 

16 ottobre, 2019

laVerdi-19-20 - Concerto n°3 (anteprima)


Il terzo appuntamento stagionale de laVerdi (in programma venerdi e domenica) ha avuto nel pomeriggio una speciale anteprima (una specie di seconda prova generale) nel bellissimo Auditorium della IULM, la giovane quanto già affermata Università milanese (operante anche a Roma) che ha la sua modernissima sede a 2-3 tiri di schioppo dall’Auditorium di Largo Mahler. E anche (soltanto un tiro in più...) dall’Università Luigi Bocconi, nella quale Facoltà di lingue straniere (inopinatamente chiusa nel 1968) operavano i due fondatori della IULM: Silvio Baridon e Carlo Bo, i quali risposero alla chiusura della Facoltà bocconiana con la creazione di un’Università specializzata in lingue moderne, poi allargatasi al più vasto mondo delle arti e della cultura.

E proprio in nome di questi nuovi orizzonti, e per festeggiare la conclusione di un importante progetto di ricerca sulla produzione artistica degli ultimi 50 anni, è nata la commissione che l’Università ha fatto a Nicola Campogrande (vecchia voce - e pure sexy - di Radio3) per la composizione di una nuova opera musicale, intitolata Le sette mogli di Barbablù. Il coinvolgimento de laVerdi è legato agli stretti rapporti culturali esistenti con l’Università e all’ormai consolidata consuetudine del compositore con l’Orchestra, che ebbe il suo culmine in occasione della stagione dell’EXPO, prima che Campogrande approdasse al prestigioso incarico di Direttore Musicale del MITO.

Adesso però arrivano le cattive notizie... Presumibilmente a causa di carenze nella pubblicizzazione dell’iniziativa, è accaduto che nella sala dell’Auditorium principale dello IULM-6 di via Carlo Bo (600+ posti) fossero sedute meno persone di quante gremivano il palchetto sul quale era sistemata l’Orchestra! Ahi ahi... spettacolo assai desolante, devo dire, soprattutto perchè nei paraggi era tutto un pullulare di giovani studenti che avevano appena terminato le attività della loro giornata in ateneo e ai quali avrebbe fatto un gran bene assistere all’evento. Così l’inossidabile Ottavia Piccolo (voce narrante nell’opera), il Direttore Principale Ospite Patrick Fournillier, tutti i ragazzi dell’Orchestra e naturalmente il compositore hanno potuto ricevere l’applauso di soli pochi intimi (sono certo che le cose andranno diversamente venerdi e domenica in Largo Mahler).
___
Il soggetto è tratto da Les sept femmes de la Barbe-Bleue di Anatole France (1886), una simpatica, fantasiosa e (dall’apparenza) scientifica ricostruzione della leggenda del famoso personaggio creato attorno al 1660 da Charles Perrault, volta a smentire tutte le dicerie (incluse altre opere letterarie e teatrali) sorte su di lui come serial-killer di giovani mogli. Innanzitutto Barbablù viene identificato in tale Bernard de Montragoux, signorotto proprietario di un castello (les Guillettes) ubicato nella foresta fra Compiègne e Pierrefonds (un centinaio di Km a nord di Parigi).

In sostanza, il tanto vituperato Barbablù era - secondo France, e a dispetto della sua figura imponente e dello sguardo spiritato - una persona mite e sensibile, che non ebbe alcuna responsabilità per la scomparsa delle sei mogli ed anzi fu vittima della macchinazione della settima e della di lei famiglia, amante compreso. In questa fiction - un vero scoop ante-litteram, con tanto di citazioni di fonti, testimonianze e documenti - France ricostruisce le identità di tutte le mogli di Barbablù e le vicende che portarono alla morte (o alla scomparsa) delle prime sei e poi all’assassinio di Barbablù da parte della settima. Spiega anche ciò che si trovava nella famosa stanza proibita (la stanzetta delle principesse sfortunate) del castello delle Guillettes: affreschi e dipinti fiorentini raffiguranti appunto donne sfortunate della mitologia, vittime di vicende cruente, e il pavimento di porfido che dava all’ambiente un colore rossiccio, facendolo sembrare imbrattato di sangue. 
   
Prima moglie: Colette Passage, ammaestratrice di orsi, si stancò presto del ménage familiare e si dedicò sempre più spesso alla sua bestia preferita. Scomparve misteriosamente dopo aver visitato la stanza segreta, e non fu mai più ritrovata.

Seconda moglie: Jeanne de la Cloche, una donna alcolizzata che Barbablù cercò invano di riportare ad una vita più sobria. Un giorno, dopo aver accoltellato il marito credendolo intenzionato ad avvelenarla, lei entrò ubriaca nella stanza segreta, scambiò i dipinti per donne in carne e ossa, assassinate, fuggì invano rincorsa dal marito ferito che cercava di salvarla e si gettò in uno stagno, affogando.  

Terza moglie: Gigonne Traignel, figlia di un fattore di Barbablù, guardiana d’oche, sempre calzante zoccoli e puzzolente di cipolla. Diventata con il matrimonio donna ricca e nobile, le sue pretese di lusso divennero smodate, così come il desiderio insoddisfatto di essere ricevuta a Corte per diventare la favorita del Re. Delusa, si prese un’itterizia che la portò alla tomba. E Barbablù ne fece costruire per lei una davvero sontuosa.

Quarta moglie: Blanche de Gibeaumex, figlia di un militare ferito-di-guerra (ad un orecchio!) che convinse un riluttante Barbablù a sposarla. Poi lei si mise a tradirlo con diversi amanti, finchè un giorno un amante abbandonato non la trovò nella stanza segreta in intimità con un nuovo amante, e la infilzò con la sua spada. La scoperta del cadavere non fece che peggiorare la reputazione di quella stanza segreta.

Quinta moglie: furono i medici a consigliare a Barbablù, distrutto dal dolore e in preda a una grave crisi che l’aveva ridotto in pericolo di vita, un nuovo matrimonio. Angèle de la Garandine era una sua cugina nullatenente e così Barbablù era certo che gli sarebbe rimasta fedele e riconoscente. Lei era però talmente ingenua e credulona che un giorno - mentre Barbablù era a caccia di beccacce - si fece convincere da un frate questuante a salire sul suo asino per andare nel bosco dove l’attendeva l’Arcangelo Gabriele per farle indossare delle giarrettiere di perle... Forse se la mangiò un lupo (!) dato che non fu più ritrovata.

Sesta moglie: Alix de Pontalcin, una povera orfanella, spogliata di tutti i suoi averi da uno sbifido tutore, era sul punto di entrare in convento, ma fu convinta da amici a sposare Barbablù. Purtroppo però lei rifiutò pervicacemente di consumare il matrimonio, tanto che il marito chiese al Santo Padre l’annullamento del legame secondo il diritto canonico, ottenendo il divorzio anche grazie a sostanziose donazioni alla Chiesa. Barbablù giurò a se stesso che mai più una femmina avrebbe messo piede in casa sua!

E veniamo al clou della storia, la settima moglie: dopo alcuni anni, durante i quali erano cresciute in paese le più fantasiose ed anche orripilanti supposizioni sulla fine che avevano fatto le mogli di Barbablù, prese dimora nel maniero di Motte-Giron, a poca distanza dal castello del sei-volte-vedovo (o divorziato...) una certa signora Sidonie de Lespoisse, vedova con quattro figli, due femmine e due maschi. Il suo passato e l’identità del defunto marito restarono sempre un mistero: chi diceva che lui avesse trafficato in Spagna e Savoia, chi sosteneva fosse morto in India; alcuni giuravano che la vedova avesse immensi possedimenti, altri ne dubitavano assai.

Sta di fatto che lei faceva gran sfoggio di opulenza, invitando tutta la nobiltà del circondario alle feste nel suo maniero. La sua figlia maggiore, Anne, era diventata una donna assai abile (dopo aver pettinato Santa Caterina!); quella minore, Jeanne, era in età da marito, ma nascondeva dietro un’apparente ingenuità una precoce esperienza del mondo. I due maschi erano militari: Cosme, arruolato nei Dragoni, era un poco di buono, gran briccone e abile cornificatore. Il fratello Pierre, Moschettiere, al confronto era una brava persona, anche se era a sua volta un donnaiolo e si manteneva con le vincite al gioco delle carte. La signora Lespoisse era in realtà povera in canna e tutto ciò che possedeva erano prestiti ricevuti da usurai parigini, che pretendevano che lei sposasse una delle sue figlie a qualche facoltoso signorotto, minacciando in caso contrario di toglierle tutto: ormai si vedeva nuda in una casa vuota...

Fu allora che mise gli occhi su Barbablù e gli fece visita con la prole in pompa magna e per ben 15 giorni, insieme ad un certo cavaliere de la Merlus, che organizzava battute di caccia e scherzi notturni, vinceva regolarmente al gioco e soprattutto non toglieva mai gli occhi dalla bella Jeanne (senza che Barbablù sospettasse di nulla... lui si era bevuto che i due fossero fratelli di latte) con la quale si appartava nottetempo, finite le feste e i giochi.

Finalmente Barbablù si decise e chiese la mano proprio della più giovane delle due sorelle. Il matrimonio fu celebrato con gran sfarzo a Motte-Giron, anche se gran parte delle preziose suppellettili e dei lussuosi abiti della padrona di casa e dei suoi congiunti erano stati affittati da ebrei parigini, che se li riportarono via subito dopo il termine della cerimonia.

Fu così che, sotto la sapiente regìa della madre - la più gran filibustiera di Francia - l’intera famiglia di Jeanne si installò presso Barbablù, incluso l’intraprendente de la Merlus, che non si staccava un attimo dalla sposa. Un bel giorno Barbablù dovette fare un viaggio di sei settimane per gestire l’eredità di un cugino, morto in battaglia come un eroe, ehm... colpito da una palla vagante di colubrina mentre giocava a dadi su un tamburo! Prima di partire invitò la moglie a trascorrere i giorni in sua assenza invitando amici e avendo un buon tempo; le diede anche tutte le chiavi del castello (appartamenti, dispense, casseforti) compresa quella della stanza segreta.

Ma mentre Perrault narra che le proibì severamente di accedere a quel luogo, in realtà Barbablù si limitò a metterla in guardia dal visitarlo, a causa della sua cattiva fama (dalla quale le precedenti mogli avevano tratto parecchio nocumento). Invece la disinvolta Jeanne non esitava ad abbandonare la compagnia degli amici che le rendevano visita per correre proprio nella stanza segreta. Ma non - come scrive sempre Perrault - per morbosa curiosità, bensì per... interesse sessuale: laggiù l’attendeva regolarmente il brillante (e ben dotato, evidentemente) de la Merlus! 

Ma se si fosse trattato solo di corna, la cosa avrebbe fatto in fin dei conti poco scandalo: anche il più severo dei moralisti avrebbe trovato qualche vaga ragione per giustificare quei comportamenti, abbastanza usuali. No no, la cosa grave è che Jeanne progettò a mente fredda l’assassinio del marito! In combutta con la sorella Marie (artefice del complotto); con i fratelli (dietro la promessa di una brillante carriera miliare); con la madre e - ça va sans dire - con il suo amante de la Merlus.

Barbablù ritornò a casa un po’ prima del previsto, ma non per cogliere la moglie in flagrante, bensì convinto di farle una bella sorpresa. Lei gli restituì le chiavi, ma Barbablù si accorse che quella della stanza segreta doveva essere stata usata: così si disse dispiaciuto, augurandosi che quella visita non dovesse portare qualche disgrazia a tutti. In quel momento Jeanne gridò che la stavano ammazzando, richiamando l’amante e i fratelli. De la Merlus balzò fuori da un armadio ma, da solo, fu presto immobilizzato dal corpulento Barbablù. Allora Anne, accorsa sul posto, chiamò finalmente i fratelli che fecero irruzione nella stanza e trafissero alle spalle il padrone di casa.

Jeanne rimase unica ereditiera di tutte le sostanze del marito: diede una dote alla sorella, acquistò i gradi di capitano per i fratelli e sposò felicemente de la Merlus, che divenne istantaneamente un uomo di specchiata onestà!
___
Il melologo di Campogrande (tre quarti d’ora o poco più) prevede una voce narrante, la splendida 70enne (più una settimana!) Ottavia Piccolo, che espone il racconto, una libera riduzione del testo di Anatole France tradotto da Paola Verdecchia, mentre l’Orchestra ne sottolinea i passi salienti, un po’ come accade alle musiche di scena di buona memoria. Sono in tutto 20 numeri musicali con agogica prevalentemente di Andante e Largo (una sola punta di Allegro) che normalmente si intercalano con le parti del racconto, raramente sovrapponendosi alla voce.

Campogrande non ha mancato, introducendo la recita, di lanciare pesanti frecciate ai movimenti che caratterizzarono la musica del ‘900 come fenomeno di totale rottura con ogni tradizione (la musica andò da una parte, il pubblico dall’altra...) e ha rivendicato il ritorno a quella tradizione, di cui lui è interprete convinto. La sua è musica assolutamente diatonica, apparentabile a quella delle grandi colonne sonore dei film (l’attacco pare proprio Korngold!) Devo dire che i vari brani evocano con una certa efficacia le diverse atmosfere e anche le diverse personalità che si incontrano nel soggetto di France: sono di ascolto piacevole e tutto il melologo scorre via con buon ritmo e senza cadute di tensione, godibile e scevro da astruse cerebralità. Il che non è poco; e avrebbe meritato più... audience!

11 ottobre, 2019

laVerdi-19-20 - Concerto n°2


Il secondo concerto della stagione de laVerdi - dall’impaginazione classica: ouverture, concerto solistico e sinfonia - ha una dedica particolare: non è un personaggio, nè un avvenimento importante, una ricorrenza, un concetto filosofico, un oggetto letterario o magari uno strumento musicale. No, è una tonalità! Il divino, regale, apollineo, eroico MI bemolle maggiore. Attorno al quale gravitano tutti e tre i brani in programma (ma alla fine saranno quattro!) interpretati da un Direttore e un solista non ancora trentenni!

Il londinese Kerem Hasan (evidentemente figlio di emigrati) e attuale Direttore Principale dell’Orchestra di Innsbruck apre la serata con l’Ouverture dalla Zauberflöte, che subito impone a piena orchestra, fortissimo, un severo, triplice accordo:


É la triade a tre bemolli ripetuta in tre configurazioni diverse: a) 1° rivolto di MIb maggiore (SOL-SIb-MIb); b) DO minore (DO-MIb-SOL); e c) fondamentale di MIb maggiore (MIb-SOL-SIb). Anticipa, ma con l’abbrunamento del secondo accordo (che sostituisce il 2° rivolto di MIb maggiore, mediante i DO suonati al posto dei SIb da archi bassi, viole, trombone basso e fagotti) il famoso dreimalige Akkord in SIb (1°, 2° rivolto e fondamentale) nei soli fiati, che comparirà al centro dell’Ouverture per poi caratterizzare l’inizio del second’atto dell’opera, al momento dell’iniziazione di Tamino.

Effervescente l’esecuzione dei ragazzi de laVerdi, un gran bel modo per mettere il pubblico in ottima disposizione per il seguito.
___
Di cui è protagonista Felix Klieser da Göttingen, che arriva ad ingambare il suo corno per proporci il Terzo Concerto di Mozart, catalogato K447. No, lui non può proprio imbracciare il suo strumento, poichè un atroce scherzo del destino lo ha fatto venire al mondo completamente privo degli arti superiori. Però, accipicchia, uno che suona così divinamente con i piedi non lo si era mai udito prima!

Purtroppo lui non può proprio arrivare a tutto, così impiega le dita del piede sinistro per premere sulle levette e il piede destro per azionare uno speciale meccanismo che sostituisce... la mano destra che normalmente si infila nella campana per ottenere gli effetti sonori desiderati.

Che dire, un fenomeno che ha dell’incredibile e lascia tutti a bocca aperta, oltre che strappare un uragano di applausi. E lui ringrazia e ci suona (solo soletto) il Rossini del Rendez-vous de chasse, scritto in origine per quattro corni e - ça va sans dire - rigorosamente in MIb maggiore!
___
Il funambolico Kerem ha chiuso la serata dirigendo l’Eroica, che Beethoven apre con uno sbrigativo quanto fulminante zweimalige Akkord nella tonalità... del concerto:

Lo stesso accordo comparirà nell’ultimissima battuta della Sinfonia, ma con tre sottilissime varianti: il secondo corno raddoppierà il primo all’ottava inferiore (invece di suonare la mediante SOL); i primi violini faranno convergere SOL e SIb sulla tonica e le viole suoneranno solo la tonica MIb, tacendo il SOL. Tutto ciò non deve essere per nulla casuale (già era avvenuta una cosa simile alla fine dell’Allegro con brio): è un modo per rafforzare ulteriormente, se possibile e in chiusura dell’opera, il peso complessivo della tonica all’interno della triade.

Un celebre (e francamente fasullo) rompicapo per gli addetti ai lavori fu per anni e anni costituito dalla conclusione dello sviluppo del primo movimento, dove si trova la (supposta, dal discepolo Ries) entrata anticipata del secondo corno, sul tema principale in tonica MIb, mentre primi e secondi violini suonano in tremolo uno spezzone (SIb-LAb) di accordo di settima di dominante:
Fu così quindi che Direttori solerti arrivassero a correggere Beethoven: chi spostando alla dominante il tema del corno (SIb-RE-SIb-FA) per portarlo appunto in armonia con lo sfondo dei violini; chi invece abbassando il LAb dei secondi violini a SOL, per mutare l’accordo di settima di dominante in quello di tonica, allineando l’armonia dello sfondo alla melodia del corno!
___
Hasan dirige la sinfonia con piglio toscaniniano e gesto scarno ma efficace. Ponendo attenzione anche ai piccoli dettagli di dinamica (come passaggi repentini da forte a piano) che a volte vengono trascurati. In questi casi sarebbe da stabilire quanto sia il Direttore a far tesoro dell’esperienza fatta a contatto con un’Orchestra coi fiocchi, che conosce questa musica meglio delle sue tasche; o quanto l’Orchestra abbia succhiato valore aggiunto dal contatto con le idee interpretative di questo giovanissimo Direttore...

In ogni caso mi è parso di cogliere un buon feeling fra il podio e le sedie: e l’esecuzione è stata davvero apprezzabile ed apprezzatissima dal pubblico. Da encomiare tutte le prime parti (dei fiati, in specie) con menzione speciale per il pacchetto dei corni, impeccabile nel difficile Trio dello Scherzo.

07 ottobre, 2019

Pescatori a Torino


Una nuova produzione del Regio di Torino (che ultimamente ha rinnovato tutto il vertice, dal Sovrintendente al Maestro del Coro) Les Pêcheurs de perles, ha visto ieri pomeriggio andare in scena la seconda recita.

Allestimento interamente nelle mani della coppia Julien Lubek / Cécile Roussat che propongono programmaticamente una lettura (detto senza offesa) da teatro-dei-piccoli, proprio innocente e scevra da ogni possibile dietrologia che da sempre è nata attorno al soggetto. Allestimento al risparmio (almeno spero!): scena praticamente fissa e spoglia (basse scogliere marine) arricchita (si fa per dire) da qualche quinta di palma e da un tronetto di Brahma-tricefalo nel terzo atto. Colori che più sgargiante non si può, inclusi quelle delle luci, e costumi più o meno improbabili. I cori sono sempre ben piantati sul posto, così da garantire ai coristi il massimo confort per il canto; movimenti dei protagonisti sempre misurati e un po’ anche impacciati. Qualche modesta coreografia, a supporto dei passaggi strumentali e corali. Appropriata, perchè in funzione didascalica, la sporadica presenza di una controfigura di Leïla. Insomma, nessun velleitarismo, ma allo stesso tempo nulla che distragga lo spettatore dal godersi questa musica che va giù proprio come un rosolio.

Qui alcune note sull’opera, che ho proposto anni fa. La versione qui presentata è sedicentemente quella originale (1863) come pazientemente ricostruita negli ultimi anni, dopo che per un secolo e più, dalla fine dell’800, erano circolate in tutto il modo versioni spurie, nate addirittura in Italia e poi codificate in Francia (Benjamin Godard). In particolare, il finale non è quello davvero stravolto da tante produzioni creative. Però, tanto per mettere un granello nell’ingranaggio, ecco che il libretto, pubblicato nel programma di sala, presenta ancora per il duetto Zurga-Nadir del primo atto la versione spuria (che riprende Oui, c’est elle! C’est la déesse) al posto dell’originale (Amitiè sainte) che per nostra fortuna è però regolarmente cantato... E a proposito di canto, come già per la prima del 3, Zurga non è interpretato dal titolare Capitanucci, ancora indisposto, ma dal sostituto Pierre Doyen, che vien dal Belgio.
___
Sul podio il 37enne americano Ryan McAdams, al quale potrei rimproverare qualche eccessiva dose di zucchero in alcuni passaggi strumentali, che già ne sono abbastanza ricchi di loro, ma in generale la sua concertazione mi è parsa più che efficace e la risposta dell’Orchestra del tutto soddisfacente. 

Benissimo anche il coro di Andrea Secchi, che nell’opera rappresenta il quinto protagonista, tale è la sua presenza in scena.

E fra i protagonisti chi mi è piaciuto di più è la... riserva: Pierre Doyen ha una voce corposa che, fosse anche un filino più morbida, ne farebbe un baritono con i fiocchi. In ogni caso la sua è stata una prestazione fra il discreto e il buono, con punta di diamante l’aria dell’accorata invocazione a Nadir, nel terz’atto.

Hasmik Torosyan è stata una Leïla più che dignitosa: una non eccelsa immedesimazione nel personaggio e qualche vetrosità sugli acuti in mezzo-forte, oltre ad una potenza di voce non straordinaria le impediscono di guadagnarsi, sul mio personalissimo cartellino (copyright Rino Tommasi) più di un 7, ecco. Apprezzabili i suoi delicati vocalizzi sulla barcarola del coro in chiusura del primo atto.

Il francesino Kévin Amiel è stato un Nadir così-così (a lui qualcuno ha indirizzato un paio di ululati...): la parte è difficile, se non proprio proibitiva, e certi ricordi che tornano all’orecchio (Kraus, per citarne uno...) fanno da termine di paragone piuttosto duro. Ma lui è giovane e non può che migliorarsi.

Buono anche lo standard di Ugo Guagliardo nei panni di Nourabad, parte sostenuta con sufficiente autorevolezza e buon portamento.  
___
Ecco, una produzione senza grandissimi nomi e senza sfoggio (e dispendio!) di potenti mezzi, che ha però pienamente soddisfatto un pubblico assai folto, che ha tributato lunghi e convinti applausi a tutti: quale differenza rispetto ai modesti applausi di cortesia che un Piermarini semideserto ha riservato sabato sera alla prima di Quartett. L’impietoso confronto la dice più lunga di tanti paludati studi di sociologia della musica!

06 ottobre, 2019

Francesconi imperversa a Milano


In concomitanza e assonanza con l’edizione 2019 di Milano Musica, dedicata al compositore, la Scala ripropone Quartett di Luca Francesconi, che vide la luce più di 8 anni orsono, commissionata proprio dal Teatro. Dopo l’anteprima-giovani del 2, ieri sera è andata in scena la prima delle sei recite in cartellone. Rispetto al 2011 è cambiato solo il Direttore, mentre sono tornati i due (unici) protagonisti e il team di regìa.

Qui alla Scala si assiste infatti all’allestimento originale dell’opera, che è già stata ed è tuttora rappresentata in giro per il mondo anche in produzioni diverse. Quanto invece al contenuto musicale, parecchie sezioni dell’opera (coro e orchestra grande - OUT, dietro le quinte - registrate qui dal vivo nelle recite del 2011) vengono adesso diffuse nei teatri che ospitano Quartett attraverso sistemi di amplificazione. Con risultati a volte disastrosi, come riportano da Berkeley. Per fortuna qui tutto è andato assai bene: evidentemente i tecnici IRCAM han fatto del loro meglio.

Personalmente ero rimasto assai perplesso ai tempi della prima, e il mio scetticismo non era sfumato rivedendo e riascoltando l’opera (in questa ripresa català del 2017, con l’allestimento originale della Fura e gli stessi due protagonisti) in vista dell’appuntamento di ieri. Ma devo dire che anche questa nuova esperienza non mi ha portato a rivedere quel giudizio.

Il soggetto - questo è risaputo - gia’ non è dei più facili da assimilare: in particolare lo sdoppiamento dei due personaggi (scene 6-8 e 10-12) non è semplice da decifrare per uno spettatore che non abbia ben presente questo espediente inventato dall’autore del dramma originale (Heiner Müller) e conservato da Francesconi; anche perchè la lingua (inglese) non aiuta certo a seguire nel modo più efficace la trama.

Certo, lo spettacolo di per sè sarà pure di buon livello e di forte impatto, ma ciò che mi convince meno è proprio la musica! E non solo per la sua atonalità (ad esempio il seriale Wozzeck mi risulta assai meno indigesto); ma perchè la trovo (in specie proprio il canto) eccessivamente sostenuta, affettata, scarsamente dotata di varietà di inflessioni e di pathos; invece pare un continuo lamento isterico, una serie di esternazioni allucinate che - a voler malignare - si potrebbe definire una... lagna. Le parti puramente strumentali sollevano la media, ma restano poca cosa. Verdi usava parlare di tinta per le sue opere: ma non era mai un colore fisso e monotono, perbacco!  

Mi viene qui da fare una riflessione che spesso mi ronza in mente, ascoltando musica di questo genere: ma se lo stesso soggetto potesse essere oggi musicato non dico dallo Strauss della Salome e di Elektra, ma anche solo dal Korngold di Die tote Stadt, cosa ne uscirebbe? Ebbene, con tutto il rispetto dovuto a Francesconi, mi sentirei di scommettere che il risultato sarebbe assai più accattivante. Insomma, ripeto quanto esposto l’altro ieri in occasione dell’apertura di Milano Musica all’Auditorium: questa è musica difficile da capire razionalmente (a dispetto del massiccio impiego di strumenti... scientifici per la sua composizione ed esecuzione) ed esasperante se ascoltata in modo passivo. Gli enormi spazi vuoti al Piermarini e l’accoglienza tiepidina allo spettacolo (che pure sta registrando una discreta presenza presso i teatri nel mondo) la dicono lunga su quanto poco (non dico nulla) la musica contemporanea riesca a far rinverdire i fasti di un passato glorioso dal quale continua invece ad allontanarsi sempre più.

Ovviamente sono solo da lodare le prestazioni dei protagonisti: Maxime Pascal, già applaudito qui un paio d’anni fa per una primizia di Sciarrino, e soprattutto i due interpreti Allison Cook e Robin Adams, ormai evidentemente in simbiosi con le loro parti, avendole cantate ripetutamene in giro per il mondo.
___
PS: sto partendo in treno per Torino, dove mi aspetta... l’antidoto!

04 ottobre, 2019

laVerdi-19-20 - Concerto n°1 con Milano Musica


laVerdi ha avuto il privilegio quest’anno di fare - in un sol colpo - una doppia inaugurazione: quella, normale per così dire, della propria stagione in abbonamento, e quella davvero speciale del Festival Milano Musica, quest’anno dedicato a Luca Francesconi (che - dopo l’anteprima-giovani di martedi scorso -  domani sarà ancora protagonista alla Scala con la ripresa della sua Quartett del 2011).  

E Francesconi è al centro del Concerto, diretto dal giovane Michele Gamba (ascoltato con piacere settimane fa proprio alla Scala nell’Elisir, dove sarà anche questa sera) con due suoi brani scortati, in certo qual modo, da altrettante brevi composizioni di Gustav Mahler.

Devo ammettere e confermare che la musica di Francesconi purtroppo non riesce a convincermi. Per carità, massimo rispetto per la libertà di espressione e quindi lungi da me liquidare la questione impiegando l’ormai famosa espressione usata dal mitico Fantozzi a proposito della Corazzata Potiomkin, ma mi limiterò a prendere a prestito quella politically correct che - a suo tempo - proprio Gustav Mahler usò nei confronti della musica atonale di Arnold Schönberg (del quale peraltro difendeva a spada tratta il sacrosanto diritto ad esprimersi come meglio credeva): La sua musica non la capisco...

Ecco: se cerco di capirla, individuandone una qualche narrativa (o programma interno che dir si voglia, per i brani strumentali) non arrivo quasi a nulla (colpa mia, immagino...); e nel caso di testi musicati (come il Baudelaire di Etymo) non riesco proprio a trovare dei seri razionali che spieghino la connessione fra suono e parole. Queste opere mi paiono costruzioni magari genialoidi, ma piuttosto fredde (come le tecnologie che impiegano) troppo artefatte o eccessivamente volte all’effetto più che... all’affetto, ecco. E infatti meglio non va se provo a fruirne passivamente come si farebbe con un walzer di Strauss o un numero di balletto di Ciajkovski: zero stimuli, per dirla con Mourinho...

Adesso però sfido Ruben Jais (Direttore Generale nonchè Artistico de laVerdi) a smentire che l’impaginazione del concerto (Mahler1 - Francesconi1 /pausa/ Francesconi2 - Mahler2) sia stata dettata dalle stesse intenzioni che già 45 anni fa animavano i programmi concertistici scaligeri di Abbado: un famoso pezzo classico-romantico di apertura seguito dal brano contemporaneo (che il pubblico così era costretto ad ascoltare) e poi - dopo la pausa - un altro big dell’800. Assai più onesta l’impaginazione di un concerto cui assistetti negli anni ’80 a Monaco: Meerestille di Mendelssohn, Concerto per violino di Beethoven e, dopo la pausa, una sinfonia del Direttore-Autore Kurt Graunke. Residenz gremita qual uovo nella prima parte e letteralmente svuotatasi all’intervallo!

Ho sempre pensato anche che i primi entusiasti di musica come questa siano gli interpreti chiamati ad eseguirla. Sì perchè, oltre a poter sciorinare funambolismi tecnici che lasciano a bocca aperta, possono stare assolutamente certi che nessuno fra il pubblico (forse nemmeno il compositore in persona...) potrà mai prenderli in castagna per aver suonato/cantato un SI bemolle al posto di un SI bequadro! (Oh, dopodichè do per scontato che i ragazzi dell’Orchestra, il funambolo Jay e la bella Juliet non abbiano sbagliato una sola nota, sia chiaro.)
___
Il Concerto per violoncello (tre movimenti canonici) che è stato eseguito per la prima volta in Italia (esordì circa 2 anni fa a Lucerna con lo stesso interprete, Jay Campbell) è intitolato Das Ding singt (la cosa canta, qualunque sia il riferimento alla cosa...) ma curiosamente proprio sul sito del compositore è presentato invece (quasi in Stabreim) come das Dingt singt, espressione guarda caso (!) priva di senso compiuto (Dingt non è sostantivo, ma forma verbale di Dingen, che significa mercanteggiare, o assumere): a meno di significanze recondite, parrebbe proprio un errore di stompa, il che però non fa onore a Francesconi, che evidentemente nemmeno controlla accuratamente ciò che pubblica (o che qualcuno gli pubblica) in web...  

Fossimo in ambito tonale, dovremmo parlare di un Concerto in SOL: nel primo movimento (fino a 7’31” nella citata registrazione) il solista (con sei altri celli schierati intorno, a tenergli bordone) esplora in sostanza la terza corda, una nota ostinatamente tenuta sulla quale cominciano a piovere svolazzi diversi che via via si intensificano e acutizzano fino a formare lingue di fuoco che fuggono verso l’alto (oh, questo ce lo vedo io, sia chiaro...) Il movimento centrale chiama in causa dapprima arpa e celesta, a creare atmosfere sognanti (su un sottofondo di LA) nelle quali il solista getta i suoi ghiribizzi, accompagnati da scrosci e urti delle percussioni. Si ascoltano per la verità anche alcune frasi melodiche e slanci lirici. A 13’52” ecco il movimento conclusivo, che ci riporta al sottofondo di SOL, dove il solista si produce in una cadenza liberamente presa (se lo dice l’Autore, bisogna credergli!) da una delle prime composizioni per violoncello, la Chiacona per basso solo di Giuseppe Colombi (metà del ‘600). L’atmosfera si va poco a poco surriscaldando, con i sette celli a rincorrersi fino a raggiungere un orgasmo sonoro in zona sovracuta, chiuso da un ultimo svolazzo quasi beffardo.

Come spesso accade, attorno a brani come questo nascono spiegazioni teorico-filosofico-scientifiche, che però invece di aiutare a comprendere rischiano di aumentare la confusione. Sentite ciò che scrisse Johannes Knapp (allora responsabile dell’Associazione Svizzera dei Musicisti) in occasione della prima del 2017:

Nella coda, i sette celli suonano nel loro registro più alto e alla massima velocità possibile, proprio al limite della pazzia. Un “insetto elettronico” è la definizione data dal compositore a questo veemente insieme di violoncelli, che assai presto collassa in rumore. Nulla in Das Ding suggerisce alcuna formula teorica di base. Francesconi parla di proprietà del suono che si possono attribuire ad un enigmatico concetto di filosofia e psicanalisi: l’Entità. Benchè Freud, Heidegger e molti altri abbiano riflettuto su ciò, noi nulla sappiamo di concreto di questa Entità. Queste proprietà esterne e mutevoli sono le uniche cose tangibili di essa. La sua intima essenza rimane, per contrasto, impenetrabile: un vuoto totale, un simultaneo tutto-e-nulla che, dice Francesconi, “nasconde in se stesso molti pericoli”. È il caos pieno di raggiante energia al quale il compositore cerca di avvicinarsi sia concettualmente che emozionalmente. L’arte è probabilmente l’unica via per comunicare direttamente con questa Cosa misteriosa. La musica rende udibile ciò che altrimenti non potrebbe essere udito.

Beh, non molto diversamente più di un secolo fa Mahler descriveva il processo creativo del musicista (come lui lo viveva): la musica rende percepibili quelle oscure sensazioni che non sarebbero altrimenti trasferibili all’ascoltatore; al quale non resterebbe quindi che affidarsi al rapsodo...

Ecco, per dire: io, se mi affido al rapsodo Mahler, qualche oscura sensazione credo di recepirla, nel senso che le mie corde interne vanno in risonanza con quella musica; se mi affido al rapsodo Francesconi, ahimè e ahilui... le corde restano quasi immobili.      
___  
Com’è andata? Il trio Francesconi-Campbell-Gamba si è preso la sua buona dose di applausi - se quelli al compositore siano convinti o di circostanza è sempre da stabilire - e il trentenne californiano si è confermato davvero un fenomeno di tecnica e virtuosismo. Ma da pari gli sono stati i sei moschettieri-violoncelli dell’Orchestra!
___
Dopo la pausa, ecco Etymo II, rivisitazione del 2005 (con grande orchestra) di un’opera di 11 anni anteriore (Etymo) per soprano, elettronica assortita e piccolo ensemble. La materia prima che Francesconi impiega è costituita da testi presi da Baudelaire (Le voyage, L’albatros e Carnets intimes). Come spiega l’Autore, è un cammino in tre tappe (più un congedo) che ha come oggetto la parola (i minutaggi si riferiscono alla citata edizione di Etymo-1994): 1. allo stadio pre-verbale (pura fonetica); 2. (7’00”) verbale (linguistica); 3. (14’20”) post-verbale (poetica). Il congedo in prosa (24’03”) è... la morte.

Anche qui la mia personale impressione è che si tratti di un costrutto dove la tecnica e la... tecnologia prevalgono sull’ispirazione e la cui cerebralità finisce per costituire - sempre per me - una barriera alla piena fruizione del brano.

Juliet Fraser avrebbe una bella voce, solo che ieri il precario bilanciamento fra i fracassi dell’orchestra (colpa di Gamba?) e l’amplificazione (probabilmente insufficiente) della voce medesima ne ha parecchio compromesso l’efficacia.   

Come per il brano precedente, anche qui applausi e consensi, peraltro limitati ad un paio di chiamate.
___
Il brano di chiusura si riallacciava in qualche modo al Baudelaire di Francesconi: là il Voyage terminava con l’incontro con la Morte; così come il Rückert di Ich bin der Welt abhanden gekommen è il poeta che si è isolato dal mondo e dai suoi... rumori (!)

Martin Hässler ne ha dato una lettura convincente: senza mai forzare la voce più di tanto, ha ben reso il carattere introverso e serenamente pessimista del Lied, parente stretto dell’Adagietto della Quinta. Caloroso successo anche per lui.
___
L’apertura aveva visto il ritorno in Auditorium (dopo quasi sei anni) di Blumine, costola rimossa dalla prima versione del Titano. Ieri è toccato alla tromba di Antonio Signorile porgerlo con grande perizia ed eleganza. Adesso Jais potrà programmare un Titano originale in 5 tempi!
___
Come detto, domani sera ancora Francesconi: servirà poi un antidoto...

25 settembre, 2019

Cartoline illustrate


Saluti da Valldemossa...




19 settembre, 2019

MITO-2019 - Chiusura milanese di Axelrod al Dal Verme


Ultima tappa del mio MITO-parcour milanese (con omaggio di T-shirt gentilmente offerto da uno sponsor) con John Axelrod che in un DalVerme gremito ha diretto la OSN-RAI in un programma classico-moderno, dove un lavoro di un maturo cinese contemporaneo (in prima italiana) si è inserito fra due opere del primo novecento.

Si è quindi aperto con Debussy e la sua Isle joyeuse, composta originariamente nel 1904 per pianoforte e successivamente (1917) orchestrata (col beneplacito dell’Autore) da Bernardino Molinari. Rispetto alla versione per la sola tastiera, quella orchestrata da Molinari presenta per ovvie ragioni sonorità più ricche e complesse (e un finale tardo-romantico); in compenso appare meno asciutta e impressionista. Tuttavia ad un ascolto superficiale si potrebbe tranquillamente credere trattarsi della scrittura orchestrale dello stesso Debussy.

Sono poco più di sei minuti che scorrono piacevolmente, come del resto suggeriscono il titolo dell’opera e l’ispirazione che Debussy ebbe dal quadro di Watteau, oltre a risvolti vagamente autobiografici (l’estate passata al mare con l’amante che diventerà la sua seconda moglie). Servono bene a scaldare i motori dell’Orchestra e... le mani del pubblico.
___
Il 68enne cinese Qigang Chen (di lui si ascoltò in Auditorium anni fa un pezzo per violoncello e orchestra) è l’autore di Joye eternelle, un concerto per tromba e orchestra, ispirato ad un’antica melodia cinese, esposta all’avvio dal clarinetto:

Concerto composto per la famosa trombettista Alison Balsom e dedicato al maestro YU Long: dopo la prima in Cina, nel 2014, il lavoro venne eseguito a Londra (PROMS) nel luglio dello stesso anno, con gli stessi interpreti (Balsom e YU).

Qui ad interpretarlo per l’esordio italiano è stata un’altra rappresentante del gentil sesso, la 32enne norvegese Tine Thing Helseth, che - presentatasi a piedi nudi! - ha messo in mostra le sue eccezionali doti tecniche superando brillantemente le difficoltà di cui è popolato questo brano, rilevabili dall’esempio qui sotto:



Il finale è davvero pirotecnico e la simpatica Tine si merita ovazioni ripetute, che ricambia con un bis assai più... tranquillo.
___
Chiusura con Mahler e la sua Quarta sinfonia. L’Orchestra la conosce evidentemente come le sue tasche e Axelrod, che con i nazionali-RAI ha un’antica consuetudine, va proprio sul velluto. Lui ci mette ovviamente del suo e devo dire con grande profitto, quanto a tempi e dinamiche sciorinati nei diversi scenari che la sinfonia propone.

Francamente mi sarei aspettato di più dalla Rachel Harnisch, che ha esposto con discreto portamento il Lied conclusivo, ma la voce è scarsina di decibel, specialmente nelle note gravi, davvero poco udibili. Ma il pubblico ha mostrato di apprezzare, richiamando ripetutamente al proscenio lei e il Direttore.

Per quanto posso giudicare dalla mia (scarsa) frequentazione di questo MITO, mi pare che abbia dato parecchie soddisfazioni al suo Direttore artistico, il valente Nicola Campogrande. Arrivederci (e risentirci) quindi al 2020!

16 settembre, 2019

laVerdi ha aperto alla Scala la stagione 19-20


laVerdi ormai da anni e anni è ospite della Scala per il Concerto inaugurale della stagione. La cosa si è puntualmente ripetuta ieri sera per la stagione 19-20. In un Piermarini abbastanza affollato, sul podio il Direttore musicale Claus Peter Flor e alla tastiera, per Mozart, Steven Osborne (due che hanno già avuto modo di collaborare in passato).

Ed è appunto con il Concerto K595 di Mozart (il suo ultimo per il pianoforte, composto a meno di un anno dalla scomparsa) che si è aperta la serata. Il 48enne scozzese lo ha interpretato con la grande sensibilità che lo contraddistingue (lui è un po’ anche... filosofo, si sente e si vede). Questo lavoro del Mozart tardo è per lui una specie di serena e disincantata meditazione sulla vita; e lui lo interpreta quasi sfiorando la tastiera, come a non voler infierire sullo strumento: un’esecuzione quasi sognante, che solo nella cadenza del Rondò ha qualche sussulto.
  
L’accoglienza è calorosissima e così lo schivo Steven ci premia con Beethoven: la 7ma bagatella, in LAb maggiore, dell’op.33, dove finalmente lui si può scatenare contro lo strumento, letteralmente aggredito!
___
Dopo l‘intervallo ecco la Sinfonia per... batteria di Gustav Mahler (così battezzò la Quinta alle prime prove un’Alma piuttosto esterrefatta, riuscendo poi a convincere il marito a smagrire un filino le percussioni).

É tuttora diffuso il luogo comune che definisce questa sinfonia come l’abbandono del mondo del Wunderhorn, al quale apparterrebbero le tre precedenti, infarcite di Lieder (con voce o senza) provenienti dalla collana di vonArnim-Brentano, cui Mahler aveva dedicato grande attenzione nei suoi primi anni da compositore. La Quinta segnerebbe invece l’aprirsi di una nuova era nel mondo estetico mahleriano, come dimostrerebbero i riferimenti in essa contenuti a Lieder di Rückert, oltre che ad aspetti più strettamente legati alla forma (ad esempio l’impiego del Rondò). E le due successive sinfonie confermerebbero questa tesi.

Peccato che si tratti di una tesi ampiamente contraddetta proprio dai contenuti di questa Quinta, che accoglie spunti da Mahler messi su pentagramma già ai tempi della composizione di quei precedenti lavori. Tanto per cominciare, le terzine di trombetta che aprono la sinfonia avevano fatto una fugace comparsa nel primo movimento della Quarta; alla quale quindi rimandano scopertamente. La marcia funebre che apre l’opera è una riedizione della Totenfeier dalla quale sbocciò poi la Seconda Sinfonia. Lo Scherzo in RE maggiore fu pensato in origine come quinto movimento (sottotitolato Die Welt ohne Schwere, Il mondo senza peso) della Humoreske, che divenne appunto la Quarta sinfonia, immaginata quando ancora Mahler era alle prese con la sinfonia precedente!

Quanto ai Lieder, è vero che vi si trovano richiami e citazioni di Rückert (Nun will die Sonn’ e Ich bin der Welt abhanden gekommen) ma è anche vero che il quinto ed ultimo movimento cita esplicitamente Lob des hohen Verstandes (l’intelligenza di un... asino!) dal Wunderhorn; e poi, al numero 29 del rondò finale compare, negli strumentini, un inconfondibile inciso che viene direttamente da Revelge!

E ancora, la forma: la struttura in 5 movimenti richiama la versione originale della Prima, poi la Seconda e, per difetto, la Terza. Ai quattro movimenti della tradizione Mahler era già arrivato con la versione definitiva della Prima e con la Quarta, prima di tornarci con la Sesta e (surrettiziamente) con l’Ottava, mantenendo invece per Settima, Nona e Decima la struttura in 5 movimenti. E l’eterogeneità dei contenuti (bizzarra concatenazione tonale, irruzioni di motivi sguaiati, un corale, l’interminabile tiritera del corno obbligato) non si discosta certo da quella delle sinfonie precedenti...     

Insomma, suddividere la produzione di Mahler in blocchi chiusi è proprio fare un torto al compositore, che invece per l’intera sua opera ha seguito contenuti e strutture formali dettate esclusivamente dall’ispirazione, e da un approccio estetico-filosofico che non è mai mutato, tanto da far pensare ad uno sviluppo continuo, quasi che le dieci sinfonie (più il Lied von der Erde) costituiscano un unico, gigantesco e - a suo modo - coerente monumento sinfonico.
___
Da ammiratore de laVerdi, ma avendo ancora nelle orecchie i suoni della Filarmonica di SanPietroburgo, confesso di aver temuto che il confronto ravvicinato con quei giganti mi creasse qualche... imbarazzo, ecco. Ma devo dire che Flor e i suoi hanno saputo fugare i miei timori. Beh, che in un’opera così ostica ci possa scappare qualche svirgolata (gli ottoni sono per loro natura soggetti a tali pericoli) è quasi pacifico, ma mi sento di dire che la prestazione nel suo complesso sia stata più che positiva: solo orchestre di alto livello sono in grado di reggere le difficoltà oggettive presentate da questa partitura. 

Flor già mi aveva convinto con la sua lettura di un paio d’anni orsono in Auditorium. E ieri l’impressione positiva è stata confermata in pieno: appropriati i tempi tenuti dal Direttore, interessanti le rese cameristiche di molti passaggi, come il taglio espressionista dato al tema del finale, tanto per citare esempi qua e là. E l’interminabile applauso ritmato che ha accolto l’esecuzione testimonia di come il pubblico l’abbia apprezzata assai.